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IMU e TASI: modalità di versamento per i residenti all’estero

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Premessa – I cittadini non residenti in Italia, devono liquidare e versare l’IMU e la TASI per gli immobili posseduti nel nostro Paese e in prossimità dell’imminente scadenza del saldo, fissata al 16 dicembre, è opportuno ricordare le modalità di versamento da seguire.

Si ricorda, altresì che, i predetti soggetti sono esentanti dall’IMU per una e una sola unità immobiliare (se di categoria catastale non di lusso) posseduta in Italia se si tratta di pensionati esteri iscritti all’AIRE e sono rispettati gli ulteriori requisiti fissati dall’art.9-bis D.L. n. 47/2014 e successivi chiarimenti da parte del MEF (Risoluzione n. 6/DF del 26 giugno 2015 e Circolare n. 10/Df/2015). Infatti, tale immobile è assimilato all’abitazione principale, per cui se non di lusso è esente da IMU mentre se di lusso si applicano aliquote e detrazioni previste per l’abitazione principale. Per gli altri immobili posseduti in Italia e non assimilati ad abitazione principale, valgono, invece, le regole ordinarie di liquidazione.

Sempre sulla base dell’art. 9-bis del predetto D.L. e nel rispetto dei requisiti previsti (iscrizione AIRE, pensione estera, ecc.) la TASI sull’immobile, posseduto in Italia e assimilato ad abitazione principale, è ridotta di 2/3.

Il bonifico bancario come modalità di versamentodell’IMU – Mentre, il cittadino residente in Italia può versare l’IMU e la TASI con modello F24 (cartaceo o telematico a seconda dei casi) oppure con bollettino di c/c postale, per i residenti all’estero, le modalità di versamento sono ben diverse.

In particolare, con il comunicato stampa del 31 maggio 2012, il MEF stabilisce che nel caso in cui non sia possibile utilizzare il modello F24 per effettuare i versamenti IMU dall’estero, occorre contattare direttamente il comune beneficiario per ottenere le relative istruzioni e il codice IBAN del conto sul quale accreditare l’importo dovuto.

Pertanto, i residenti all’estero versano l’IMU dovuta, tramite bonifico in cui riportare il codice IBAN del comune destinatario del versamento.

Tuttavia, è possibile che il cittadino italiano residente all’estero sia anche titolare di un c/c in Italia presso una delle banche convenzionate con l’Agenzia delle Entrate. Pe cui, questi potrebbe, previa registrazione ai servizi telematici della stessa Agenzia delle Entrate, compilare il Modello F24 ed eseguire il pagamento online delle imposte tramite il software F24 online.

Come compilare il bonifico – Con lo stesso comunicato stampa del 31 maggio 2012, il MEF indica anche le modalità di compilazione del bonifico. In particolare, oltre al codice IBAN corretto del comune destinatario, occorre riportare:

  • il codice fiscale o la partita IVA del contribuente o, in mancanza, il codice di identificazione fiscale rilasciato dallo Stato estero di residenza, se posseduto;
  • la sigla “IMU” e il nome del comune ove sono ubicati gli immobili e i relativi codici tributo (indicati nella risoluzione dell’Agenzia delle entrate n. 35/E del 12 aprile 2012);
  • l’annualità di riferimento;
  • l’indicazione “Acconto” o “Saldo” o “Unica soluzione”.

E per la TASI? – Il Comunicato stampa del 31 maggio 2012, riguarda esclusivamente l’IMU (anche perché a quella data la TASI non era stata ancora introdotta nel nostro ordinamento tributario).

Per la TASI non sono state, dunque, previste specifiche regole normative, per cui si rimanda tutto all’autonomia comunale. Si consiglia, quindi, di leggere attentamente la delibera o il regolamento comunale, anche se per analogia di disciplina molto probabilmente il comune fissa le stesse modalità di versamento previste per l’IMU.

Autore: PASQUALE PIRONE

UNICO: mancata compilazione del rigo RS140

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Entro il 29/12 l’integrativa con sanzione ridotta

Premessa – Ai sensi dell’art. 5 (“Obbligo di comunicazione e di esibizione delle scritture e dei documenti rilevanti ai fini tributari”) comma 1 del D.M. 17 giugno 2014 “il contribuente comunica che effettua la conservazione in modalità elettronica dei documenti rilevanti ai fini tributari nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo di imposta di riferimento”.

Con riferimento al Modello UNICO 2015 (periodo d’imposta 2014) tale comunicazione andava effettuata compilando:

  • il rigo RS140 per il Modello UNICO persone fisiche;
  • il rigo RS104 per il Modello UNICO società di capitali;
  • il rigo RS40 per il Modello UNICO società di persone;
  • il rigo RS83 per il Modello UNICO enti non commerciali.

Nei predetti righi occorreva indicare il “codice 1” (qualora il contribuente nel periodo d’imposta 2014 avesse conservato in modalità elettronica almeno un documento rilevante ai fini tributari) oppure il “codice 2” (qualora il contribuente nel periodo d’imposta 2014, non avesse conservato in modalità elettronica alcun documento rilevante ai fini tributari).

La sanzione in caso di mancata compilazione – La compilazione del rigo RS140, RS104, RS40 o RS83 è un adempimento obbligatorio espressamente sancito dal legislatore, e pertanto l’invio del Modello UNICO in cui manca la compilazione del predetto rigo costituisce una violazione di adempimento formale necessario (errori rilevabili in sede di applicazione degli art. 36-bis e 26-ter del Dpr n. 633/1973).

Ne consegue l’applicazione della sanzione prevista dall’art. 8 D.lgs. n. 471/1997 da un minimo di 258,23 a un massimo di 2.065,83 (da un minimo di 250 a un massimo di 2.000 nel testo aggiornato in vigore dal 22/10/2015).

Possibilità di integrativa entro il 29/12 – Il contribuente cha ha omesso la compilazione del relativo rigo RS nel Modello UNICO 2015, ha la possibilità di rimediare ricorrendo al ravvedimento operoso presentando una dichiarazione “integrativa” entro 90 giorni dalla scadenza del termine ordinario.

Dunque, questi può presentare un Modello UNICO integrativo entro il prossimo 29/12 versando, ai sensi dell’art. 13 lett. a) bis D.lgs. n. 472/1997) una sanzione ridotta e pari ad 1/9 del minimo quindi 1/9 di 258,23.

Il versamento della sanzione è eseguito con modello F24 codice tributo 8911.

Decorso il termine di 90 giorni, è possibile ancora rimediare presentando sempre un Modello UNICO integrativo entro il termine di presentazione della dichiarazione dei redditi riferita al 2015 (quindi entro il 30/09/2016), ma in tal caso la sanzione sarà di 1/8 di 258,23.

Autore: PASQUALE PIRONE

Sottoscrizione accertamenti. Da dimostrare la validità della delega

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Tributaria sentenza depositata il 2 dicembre 2015

Sono affetti da nullità, per violazione dell’art. 42 del D.P.R. 600/73, gli avvisi di accertamenti sottoscritti da soggetto diverso dal Capo dell’ufficio in assenza d’indicazione alcuna in ordine alla qualifica e ai poteri a esso conferiti e in mancanza di prova circa l’esistenza di un provvedimento di delega da parte del Capo dell’ufficio.

A fronte della tempestiva eccezione formulata dal contribuente/ricorrente, l’Ufficio finanziario è tenuto a fornire la prova del corretto esercizio del potere di delega.

È quanto emerge dalla sentenza 2 dicembre 2015, n. 24492, della Quinta Sezione Civile della Corte di Cassazione.

La controversia è originata da un accertamento per il recupero a tassazione di ricavi non contabilizzati. L’Agenzia delle Entrate ha agito sulla base dei rilievi operati dalle Fiamme gialle e la società interessata dalla ripresa ha proposto tempestivamente impugnazione, senza tuttavia avere successo nei primi due gradi di giudizio.

Nel giudizio di legittimità, invece, gli ermellini hanno ritenuto fondata l’eccezione involgente la sottoscrizione degli atti impugnati, per essere questi stati firmati da soggetto diverso dal capo dell’Ufficio e senza che l’amministrazione resistente abbia fornito elementi sufficienti a far ritenere l’esistenza di una valida delega di firma in capo all’impiegato firmatario.

Da tempo la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che la sottoscrizione dell’avviso di accertamento da parte di funzionario diverso da quello istituzionalmente competente a sottoscriverlo, oppure da parte di un soggetto da detto funzionario non validamente ed efficacemente delegato, non soddisfa il requisito di sottoscrizione prescritto, a pena di nullità, dall’art. 42 (commi 1 e 2) del D.P.R. 600 (cfr. Cass. 14195/2010).

È pacifico, poi, l’orientamento secondo cui, nell’individuazione del soggetto legittimato a sottoscrivere l’avviso di accertamento, in forza dell’art. 42 sopra citato, incombe all’Agenzia delle entrate l’onere di dimostrare il corretto esercizio del potere e la presenza di eventuale delega (cfr. Cass. n. 14942/2013).

Sempre la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato che l’onere probatorio posto in capo all’amministrazione è effetto diretto dell’espressa previsione della tassativa sanzione legale della nullità dell’avviso di accertamento; previsione che trova la sua ragion d’essere nel fatto che gli avvisi di accertamento costituiscono la più complessa espressione del potere impositivo e incidono con particolare profondità nella realtà economica e sociale. Le qualità professionali di chi emana l’atto, quindi, costituiscono un’essenziale garanzia per il contribuente (da ultimo, Cass. n. 22800/2015).

Solo in diversi contesti, ha precisato la Quinta Sezione del Palazzaccio – quali ad esempio la cartella esattoriale, il diniego di condono, l’avviso di mora e l’attribuzione di rendita -, e in assenza di una sanzione espressa, opera la presunzione generale di riferibilità dell’atto all’organo amministrativo titolare del potere nel cui esercizio è adottato; mentre in materia di IVA l’art. 56 del D.P.R. 633/72 richiama implicitamente l’art. 42 del D.P.R. 600/73; pertanto vale anche per gli avvisi di accertamento IVA la sanzione prevista (nullità) per il vizio di sottoscrizione.

I giudici del Palazzaccio, infine, hanno ritenuto opportuno sottolineare che i superiori principi non sono stati contraddetti dall’orientamento recentemente espresso dalla sentenza n. 22800 del 9 novembre scorso in tema di interpretazione del concetto di “impiegato della carriera direttiva” che può essere delegato.

Detta sentenza è giunta all’approdo che per le Agenzie fiscali la vecchia carriera direttiva deve oggi essere individuata nella terza area, che ha assorbito la nona qualifica funzionale, la quale è stata ritenuta idonea da diverse pronunce a determinare la validità della delega, con conseguente rigetto della tesi secondo cui il delegato dovrebbe essere un dirigente vero e proprio.

Resta dunque fermo il principio secondo cui, ove sia contestato l’esistenza di uno specifico atto di delega da parte del capo dell’ufficio e/o l’appartenenza dell’impiegato delegato alla carriera direttiva come sopra definita, spetta all’Amministrazione finanziaria fornire la prova della non sussistenza del vizio dell’atto; e tanto si deve sia al principio di vicinanza della prova (in quanto si discute di circostanze che coinvolgono direttamente la parte pubblica, mentre per il contribuente sarebbe difficile l’accesso ai documenti) sia a quello di leale collaborazione che grava sulle parti processuali (soprattutto quella pubblica). Non è, dunque, nemmeno consentito al giudice tributario attivare d’ufficio i poteri istruttori.

Ebbene, nel caso in esame, la CTR Lombardia non ha fatto buongoverno di questi principi. Di qui la decisione dei supremi di giudici di cassare la sentenza di secondo grado, con rinvio.

Autore: redazione fiscal focus

Obblighi antiriciclaggio anche nelle cause di divorzio

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Il caso – Gli avvocati sono soggetti alle disposizioni di cui al D. Lgs. n. 231/2007 quando forniscono la loro assistenza nell’ambito delle cause di separazione e divorzio?

L’analisi

Al fine di fornire una risposta al quesito prospettato è necessario, in primo luogo, richiamare il dato normativo, ovvero quanto stabilisce l’articolo 12, comma 1, lettera c) del D.Lgs. 231/2007.

In virtù della disposizione in oggetto, infatti, i notai e gli avvocati sono tenuti al rispetto della normativa antiriciclaggio “quando, in nome o per conto dei propri clienti, compiono qualsiasi operazione di natura finanziaria o immobiliare e quando assistono i propri clienti nella predisposizione o nella realizzazione di operazioni riguardanti:

1) il trasferimento a qualsiasi titolo di diritti reali su beni immobili o attività economiche;

2) la gestione di denaro, strumenti finanziari o altri beni;

3) l’apertura o la gestione di conti bancari, libretti di deposito e conti di titoli;

4) l’organizzazione degli apporti necessari alla costituzione, alla gestione o all’amministrazione di società;

5) la costituzione, la gestione o l’amministrazione di società, enti, trust o soggetti giuridici analoghi

Non sussiste tuttavia l’obbligo di segnalazione di cui all’articolo 41 del D.Lgs. 231/2007 nel caso in cui le informazioni sulle operazioni sospette siano state acquisite nel corso dell’attività professionale prima, durante e dopo il procedimento giudiziario.

Più precisamente, l’articolo 12 comma 2 del D.Lgs. 231/2007 stabilisce che “l’obbligo di segnalazione di operazioni sospette di cui all’articolo 41 non si applica ai soggetti indicati nelle lettere a), b) e c) del comma 1 per le informazioni che essi ricevono da un loro cliente o ottengono riguardo allo stesso, nel corso dell’esame della posizione giuridica del loro cliente o dell’espletamento dei compiti di difesa o di rappresentanza del medesimo in un procedimento giudiziario o in relazione a tale procedimento, compresa la consulenza sull’eventualità di intentare o evitare un procedimento, anche tramite una convenzione di negoziazione assistita da uno o più avvocati ai sensi di legge, ove tali informazioni siano ricevute o ottenute prima, durante o dopo il procedimento stesso”

Deve pertanto ritenersi che l’esclusione sussista anche nel caso in cui, a seguito dell’esame preliminare della posizione giuridica del cliente, si valuti conveniente evitare il procedimento: non è quindi necessario dimostrare che vi sia stato un procedimento giudiziario per escludere gli obblighi di segnalazione.

Si badi bene, però: l’esclusione dagli obblighi di segnalazione non comporta l’automatica esenzione anche dagli obblighi di adeguata verifica della clientela.

Quindi, anche nel caso in cui si instauri un procedimento giudiziario, sarà sempre necessario identificare il cliente, il titolare effettivo, e ottenere informazioni sullo scopo e la natura della prestazione professionale.

È invece errato ritenere che, in virtù dell’esonero sancito per gli obblighi di segnalazione, il professionista possa ritenersi esonerato dagli adempimenti antiriciclaggio.

Le cause di separazione o divorzio

Con specifico riferimento al quesito prospettato merita di essere richiamato il parere n. 62 del 24 ottobre 2012 del Consiglio Nazionale Forense (Rel. Cons. Merli).

Nel parere in oggetto viene infatti chiarito che gli obblighi di adeguata verifica della clientela sussistono sia nel caso in cui siano instaurati procedimenti civili, come anche in occasione di arbitrati e di pratiche risarcitorie stragiudiziali.

Sussiste quindi l’obbligo di adeguata verifica della clientela per i trasferimenti immobiliari in sede di giudizi di separazione e divorzio, così come anche per le cause di divisione immobiliare, per le cause di usucapione e per le azioni ex art. 2932 c.c..

È in ogni caso richiesto che:

  • i procedimenti appena richiamati siano finalizzati al trasferimento di diritti reali su beni immobili;
  • il valore dei beni in oggetto sia pari o superiore ad € 15.000,00.

Conclusioni

L’avvocato sarà tenuto ad adempiere alle disposizioni antiriciclaggio nel caso in cui il giudizio di separazione/divorzio comporti il trasferimento di diritti su beni immobiliari avente un valore pari o superiore ad € 15.000,00.

Autore: redazione fiscal focus

Reverse charge Vs. Lettera d’intento: chi prevale?

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

In tema di reverse charge, l’Amministrazione Finanziaria non ha mai chiarito se il meccanismo dell’inversione contabile prevalga nel confronto con il regime di non imponibilità ex art. 8, co. 1, lett. c), D.P.R. 633/1972.

Si tratta in sostanza di capire se nel caso in cui un’impresa debba emettere una fattura di vendita ad un fornitore che si qualifica come “esportatore abituale”, che ha inviato puntualmente la lettera d’intento, vada emessa fattura soggetta a reverse charge oppure in regime di non imponibilità ex articolo 8, comma 1, lettera c, oppure ex articolo 17, comma 6 del D.P.R. 633/1972.

Sulla questione va evidenziato che la C.M. 14/E/2015, fornendo applicazione in relazione alle nuove ipotesi di reverse charge in edilizia, introdotte dalla Legge di Stabilità 2015, l’Amministrazione Finanziaria ha chiarito che “qualora la lettera di intento inviata dall’esportatore abituale sia emessa con riferimento ad operazioni assoggettabili al meccanismo dell’inversione contabile, di cui all’articolo 17, comma 6, del medesimo D.P.R. n. 633/1972, relativamente a tali operazioni troverà applicazione la disciplina del Reverse charge, che, attesa la finalità antifrode, costituisce la regola prioritarie”.

Secondo le indicazioni fornite dall’Amministrazione Finanziaria nel summenzionato documento di prassi, la finalità “antifrode” dell’inversione contabile la rende prevalente rispetto al regime di non imponibilità proprio dell’esportatore abituale.

Tradotto in termini pratici, nel caso in cui ad esempio un’impresa italiana debba fatturare a un “fornitore abituale” delle prestazioni di manutenzione di impianti relativi ad edifici, troverà applicazione il reverse charge in luogo del regime di non imponibilità più volte richiamato.

Va evidenziato che nel fornire il concetto di prevalenza del reverse charge sul regime non imponibilità degli esportatori abituali, l’Amministrazione Finanziaria fa espresso riferimento alle ipotesi di reverse charge ex art. 17, co. 6, D.P.R. n. 633/1972.

SI tratta delle seguenti operazioni:

  • subappalto in edilizia;
  • cessione di fabbricati imponibili per opzione;
  • le prestazionidiservizidipulizia,didemolizione,di installazione di impianti e di completamento relative ad edifici;
  • cessioni di apparecchiature terminali per ilserviziopubblico radiomobile terrestre di comunicazioni soggette alla tassa sulle concessioni, nonchédeiloro componenti ed accessori;
  • cessionidipersonalcomputeredeilorocomponentied accessori;
  • cessionidimaterialieprodottilapidei,direttamente provenienti da cave e miniere;
  • ai trasferimenti di quote di emissioni digasaeffettoserra;
  • ai trasferimenti dicertificati relativi al gas e all’energia elettrica;
  • alle cessioni di gas e dienergiaelettricaaunsoggetto passivo-rivenditore.

Nell’ipotesi di conflitto tra reverse charge e regime di non imponibilità, rifacendoci alle indicazioni fornite dall’Amministrazione Finanziaria, le suddette prestazioni, dovranno essere fatturate ai sensi dell’articolo 17, comma 6, del D.P.R. n. 633 del 1972 e non ai sensi dell’articolo 8, comma 1, lettera c), del medesimo D.P.R. n. 633. L’applicazione del reverse charge non consentirà dunque l’utilizzo del plafond.

Autore: redazione fiscal focus

IMU e TASI in caso di assegnazione “altro immobile” all’ex coniuge

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Premessa – L’art. 4 comma 12-quinquies, D.L. 16/2012 dispone che ai fini dell’IMU, l’assegnazione dell’abitazione coniugale a favore di uno dei coniugi, disposta a seguito di provvedimento di cessazione degli effetti civili del matrimonio “si intende in ogni caso effettuata a titolo di diritto di abitazione”.

Con l’art. 1, comma 707, della legge n. 147/2013, il legislatore ha poi espressamente disposto la piena inapplicabilità dell’IMU “sulla casa coniugale assegnata al coniuge, a seguito di provvedimento di separazione legale, annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio”.

“Altro immobile” assegnato all’ex coniuge – Dunque, sulla base di quanto appena affermato in premessa, ai fini IMU, la casa coniugale assegnata all’ex coniuge è considerata abitazione principale per il coniuge assegnatario e come tale è esonerata dall’IMU se appartenente alle categorie catastali A2, A3, A4, A5, A6 e A7 e relative pertinenze. Mentre è assoggettata a IMU con aliquote e detrazioni previste per l’abitazione principale se di categoria A/1, A8 e A/9 e relative pertinenze.

In genere, al coniuge, viene assegnata la casa che rappresentava l’abitazione principale dell’intero nucleo familiare prima della separazione.

Tuttavia, potrebbe accadere che, date le necessità, il giudice assegni all’ex coniuge un altro immobile che sia sempre di proprietà del coniuge non assegnatario.

Ad esempio, prima della separazione, marito e moglie vivevano e risiedevano entrambi in un immobile situato nel comune di Roma (di intera proprietà del marito). Il marito lavora a Roma ed anche proprietario di altro immobile situato ad Aprilia. In seguito a separazione, il giudice assegna alla moglie non l’immobile di Roma (in cui il marito continuerà a vivere ed avere residenza), ma quello situato ad Aprilia (la moglie vi trasferisce la residenza con il bambino).

In ipotesi di questo tipo la domanda che è lecito porsi e se entrambi gli immobili possano essere considerati abitazione principale (quello di Roma per il marito e quello di Aprilia per l’ex moglie).

Dal combinato disposto dell’art. 4 comma 12-quinquies D.L. 16/2012 (si intende effettuata a titolo di diritto di abitazione l’assegnazione dell’abitazione coniugale a favore di uno dei coniugi) e dell’art. 1 comma 707 legge n. 147/2013 (inapplicabilità IMU sulla casa coniugale assegnata al coniuge), al precedente quesito deve essere data risposta negativa, con la conseguenza che l’immobile di Roma sconterà l’IMU come abitazione principale (o esonero se di categoria non di lusso) e quello di Aprilia come seconda abitazione.

Non trova, peraltro nemmeno applicazione quanto chiarito con la Circolare 3/Df/2012, secondo cui i coniugi (non legalmente separati) sono legittimati a sdoppiare la residenza qualora gli immobili siano ubicati in comuni diversi.

Riguardo la TASI, invece, poiché si tratta di un tributo dovuto da proprietario e detentore (per quest’ultimo nella misura tra il 10% e il 30%), ne consegue, che sull’immobile di Aprilia, l’ex marito continua ad essere proprietario mentre l’ex moglie diventa detentore. Pertanto, quest’ultima sconta la sua quota TASI in qualità di occupante (se nulla dovesse prevedere la delibera comunale in merito la quota TASI a suo carico è del 10%) e l’ex marito sconta la restante quota in qualità di proprietario.

Autore: Pasquale Pirone

Regimi agevolati e bonus Irpef 80 euro: la verifica del reddito complessivo

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Premessa – Il bonus fiscale di 80 euro mensili, spettante ai soli percettori di reddito di lavoro dipendente ed assimilati è stato introdotto dal Governo Renzi con decreto-legge 24 aprile 2014 n.66 (decorrenza del bonus dal mese di maggio 2014) e reso a regime con la legge di stabilità 2015.

E’ erogato direttamente in busta paga dal sostituto d’imposta e a regime, l’importo è pari a:

  1. 80 euro mensili, se il reddito complessivo del lavoratore non è superiore ai 24.000 euro;
  1. all’importo dato da 960 x [(26.000 – reddito complessivo) / 2.000] se il reddito complessivo del lavoratore è compreso tra i 24.000 e i 26.000 euro.

Al fine di avere il beneficio, tuttavia, è necessario il verificarsi di due condizioni fondamentali:

  1. il reddito complessivo del lavoratore non deve essere superiore ad euro 26.000;
  1. l’Irpef lorda dovuta dal lavoratore (sul reddito da lavoro dipendente ed assimilati) deve essere superiore alle detrazioni d’imposta per lavoro spettanti. In altre parole le detrazioni da lavoro devono trovare capienza nell’Irpef lorda dovuta sul reddito da lavoro dipendente e assimilati (la circolare n. 8/E/2014 ha chiarito che rilevano solo le detrazioni da lavoro e non gli altri tipi di detrazione, come ad esempio, quelle per carichi di famiglia previste dall’art. 12 TUIR).

La condizione di cui al punto 1) si riferisce al reddito complessivo del lavoratore e quindi non solo al suo reddito da lavoro dipendente ma alla somma di tutte le tipologie di reddito conseguite nell’anno (reddito da lavoro dipendente, reddito da fabbricati, redditi diversi, ecc.).

Tuttavia, possono esserci redditi conseguiti dal lavoratore dipendente che siano assoggettati ad imposta sostitutiva (dell’Irpef e delle relative addizionali) e che quindi come tali non concorrono alla determinazione del suo reddito complessivo ai fini IRPEF: in particolare può trattarsi ad esempio del canone di locazione soggetto a cedolare secca o del reddito conseguito nell’esercizio di un’attività in regime fiscale agevolato (es. ex minimi o nuovo forfettario). Si tratta di redditi che sono tassati in maniera “sostitutiva” e che quindi non soggiacciono alle ordinarie regole Irpef.

La domanda che si tende a fare in questo caso è se tali redditi concorrono alla formazione del reddito complessivo del lavoratore dipendente ai fini della verifica della soglia per la spettanza del bonus di 80 euro.

Nessun chiarimento per i regimi agevolati – Con la circolare n. 9/E/2014, l’Agenzia delle Entrate è intervenuta a chiarire il quesito appena esposto in premessa ma limitatamente ai redditi assoggettati a cedolare secca, precisando che, in coerenza a quanto già previsto dal comma 7, articolo 3, D.lgs. sebbene il canone di locazione soggetto a cedolare non concorre alla formazione del reddito complessivo del percettore ai fini del calcolo dell’Irpef, rileva invece per il riconoscimento, o meno, di deduzioni, detrazioni e benefici di qualsiasi titolo (e tra tali benefici rientra anche il bonus fiscale di 80 euro).

Stesse precisazioni non sono state fornite, invece, in merito ai regimi fiscali agevolati che prevedono un’imposta sostitutiva quale ad esempio quello degli ex minimi o nuovo forfettario.

Tuttavia, nella stessa circolare l’amministrazione finanziaria, nel riconoscere che il decreto che ha introdotto il bonus di 80 euro, nello stabilire i presupposti per la sua erogazione, non definisce anche regole volte a differenziarne l’applicazione in funzione delle eventuali disposizioni particolari che interessino determinate tipologie di lavoratori, afferma che “al di fuori dei casi in cui tali altre disposizioni particolari prevedano diversamente (come, ad esempio, nel caso dell’imposta sostitutiva sugli incrementi di produttività), la verifica della spettanza del credito deve essere effettuata in base alle regole generali”.

Ne consegue che, poiché la normativa attuale non prevede uno specifico riscontro come invece previsto per il regime della cedolare secca, è possibile ritenere che un lavoratore dipendente che contestualmente svolga anche attività d’impresa (o lavoro autonomo) soggetta a regime fiscale degli ex minimi (aliquota 5%) o nuovo forfettario (aliquota 15%) ai fini del calcolo della soglia di spettanza del bonus Irpef di 80 euro può escludere dal suo reddito complessivo il reddito derivante da tale attività.

E’ auspicabile, tuttavia un preciso chiarimento dell’amministrazione finanziaria come avvenuto per la cedolare secca.

Autore: Pasquale Pirone

L’iscrizione come PMI innovativa

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Premessa – Per le start up innovative l’impiego del personale qualificato può avvenire sia in forma di lavoro dipendente che a titolo di para-subordinazione o comunque ‘‘a qualunque titolo’’. Non è quindi posto alcun pregiudizio nei confronti delle forme giuridiche contrattuali di collaborazione del personale ‘‘qualificato’’ con la società.

Pmi innovativa – Per l’iscrizione come PMI innovativa, una società intende avvalersi dell’impiego come dipendenti o collaboratori a qualsiasi titolo, in percentuale uguale o superiore al quinto della forza lavoro complessiva, di personale in possesso di titolo di dottorato di ricerca o che sta svolgendo un dottorato di ricerca presso un’università italiana o straniera, oppure in possesso di laurea e che abbia svolto, da almeno tre anni, attività di ricerca certificata presso istituti di ricerca pubblici o privati, in Italia o all’estero, ovvero, in percentuale uguale o superiore a un terzo della forza lavoro complessiva di personale in possesso di laurea magistrale. La società ha chiesto al Mise cosa si intende per “collaboratori a qualunque titolo”.

Mise – Il mise ha risposto che la norma consente, in armonia con l’attuale disciplina giuslavoristica, che l’impiego del personale qualificato possa avvenire sia in forma di lavoro dipendente che a titolo di parasubordinazione o comunque “a qualunque titolo”. In altri termini il legislatore non pone, né con riferimento alle PMI innovative, né alle start-up, alcun pregiudizio nei confronti delle forme giuridiche contrattuali di collaborazione del personale “qualificato” con la società.

Amministratore unico – Il richiedente ha posto anche un quesito relativo alla propria posizione e cioè se come amministratore unico pagato dalla società rientri nel parametro “quota almeno pari a 1/3 della forza lavoro complessiva, di personale in possesso di laurea magistrale”

Impiego – Il Mise ha al riguardo precisato che la locuzione “collaboratore a qualsiasi titolo” non può scindersi dall’altra “impiego”. Pertanto se i soci amministratori, sono anche impiegati nella società (in qualità di soci lavoratori o “a qualunque titolo”), nulla osta a che risulti verificata la previsione, sopra richiamata. Al contrario, ove si tratti di meri organi sociali, che pure hanno l’amministrazione della società, ma non sono in essa impiegati, tale condizione non appare verificata.

Brevetto – Con un altro quesito è stato richiesto se il deposito di marchi permette di soddisfare il terzo criterio previsto dall’art. 4 comma 1, lett. e), n. 3, Dl 179/2012. Secondo il Mise il requisito sarebbe soddisfatto anche nel caso in cui la start up avesse presentato domanda per la registrazione del brevetto, pur non conoscendone ancora l’esito. Pertanto, ove la società abbia già depositato formalmente il brevetto, ancorché sia ancora in attesa di registrazione, appare verificato il requisito dell’”essere depositaria”, ed in quanto tale appare iscrivibile nella sezione speciale del registro delle imprese”. Posizione che deve oggi essere integralmente ribadita e trasferita anche alla fattispecie delle PMI.

Autore: redazione fiscal focus

Moneta elettronica anche per i micro-pagamenti

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Un legge di stabilità a due facce, quella che si sta delineando. Da un lato, infatti, si vuole innalzare il limite per l’uso del contante, portandolo da 1.000 a 3.000 euro, mentre, dall’altro si vuole abbassare il tetto attualmente previsto per i pagamenti con carte di debito, eliminando l’attuale limite dei 30 euro.

La situazione attuale

Dal 30 giugno 2014 è stato previsto l’obbligo, per imprenditori e professionisti, di accettare pagamenti di importi superiori a 30 euro con carte di debito.

Tuttavia, in mancanza di specifiche sanzioni, ad oggi, il professionista o l’imprenditore che non rispetta l’obbligo rischia soltanto la mora del creditore ai sensi dell’art. 1226 del Codice Civile.

In linea di massima, la mora del creditore impedisce a quest’ultimo di richiedere il pagamento degli interessi nel caso di tardivo pagamento, e consente altresì al debitore di chiedere il rimborso delle eventuali spese sostenute per la corresponsione degli importi.

Non si può quindi sicuramente parlare di vere e proprie sanzioni: ecco il motivo per il quale l’accettazione del pagamento con carte di debito è rimasto semplicemente un “obbligo sulla carta”, e a fronte di un aumento dei terminali disponibili (da 1,53 milioni nel 2013 a 1,8 milioni nel 2014) l’utilizzo della moneta elettronica non è assolutamente aumentato.

L’Italia rimane pertanto, ad oggi, ancora lontana dagli standard europei. Se infatti in Europa le transazioni complessive in contanti coprono solo il 65% di quelle totali, nel nostro Paese la percentuale sale all’83%

Le modifiche previste

Con una proposta di emendamento alla legge di stabilità, firmata dai deputati Boccadutri, Coppola, Bruno Bossio, Causi, Misiani, Losacco, Basso, Dallai, Ascani e Tentori, viene previsto un abbassamento del tetto dei 30 euro sotto il quale gli esercenti possono rifiutare ancora i pagamenti con carte di debito.

Qualora tale proposta dovesse trovare accoglimento, pertanto, anche tutti i micro-pagamenti, dal caffè al bar al giornale in edicola, potrebbero essere regolati per mezzo di strumenti elettronici di pagamento.

Le commissioni bancarie

Uno dei limiti alla diffusione della moneta elettronica è stato, da sempre, l’elevato costo delle transazioni.

Nel nostro Paese, infatti, le commissioni sono talmente elevate che anche l’Unione europea non ha mancato di evidenziare questo paradosso: è stato stimato, infatti, che la moneta elettronica costa ai rivenditori 10 miliardi di euro l’anno, e non va meglio per i clienti, che, oltre ai normali costi connessi alla carta di credito vedono spesso richiedersi degli ulteriori costi aggiuntivi.

Ecco il motivo per il quale, dal prossimo 9 dicembre è stato imposto dall’Unione europea un tetto massimo alle commissioni bancarie, pari allo 0,3% sul valore della singola transazione per le carte di credito e allo 0,2% per i bancomat e le prepagate.

Come chiarito però dall’Associazione bancaria italiana non può essere ancora cantata vittoria: l’applicazione dei nuovi massimali potrebbero infatti portare ad un aumento di costi per i consumatori.

Un cane che si morde la coda, quindi, e che rischia di vedere l’Italia ancora come la “patria del contante”.

Ecco il motivo per il quale, con l’emendamento alla legge di stabilità è stato altresì previsto che, entro il mese di aprile 2016, i gestori delle carte di pagamento dovranno definire le regole e le misure contrattuali per regolare i micropagamenti e le commissioni, le quali dovranno essere altresì proporzionali ai costi effettivamente sostenuti dai prestatori dei servizi di pagamento.

In caso di mancato adeguamento scatterà il limite legale dei 7 millesimi per i pagamenti con carte di debito e di 1 centesimo per quelli con carte di credito.

Autore: redazione fiscal focus

Incentivi doppi per i datori che stabilizzano i co.co.co.

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

La stabilizzazione dei co.co.co., oltre all’estinzione degli illeciti contributivi, fiscali e amministrativi, fa scattare anche l’applicazione dello sgravio contributivo

Doppio premio per i datori di lavoro che stabilizzano i lavoratori che, a decorrere dal 1° gennaio 2016, sono stati erroneamente qualificati. In tali casi, infatti, oltre a godere degli effetti di cui all’art. 54, co. 2 del D.lgs. n. 81/2015, ossia l’estinzione degli illeciti amministrativi, contributivi e fiscali (salvi gli illeciti accertati a seguito di accessi ispettivi effettuati in data antecedente alla assunzione), possono godere anche dello sgravio contributivo (futuro) del Ddl Stabilità 2016.

A sostenerlo è la Fondazione Studi CdL con il parere n. 3/2015. Il presunto dubbio sorge in relazione a due norme che sembrerebbero in contrasto con lo sgravio contributivo. In primis, l’art. 31 del D.Lgs. n. 150/2015 che esclude il beneficio degli sgravi quando l’instaurazione del rapporto di lavoro rappresenta l’attuazione di un obbligo preesistente, stabilito da norme di legge o della contrattazione collettiva; e l’art. 54 del d.lgs. n. 81/15, che prescrive la forma del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato – per un periodo non inferiore a dodici mesi – per riconoscere gli effetti della stabilizzazione prevista dalla norma stessa.

Ma in consulenti del lavoro non sembrano avere dubbi in merito. Lo sgravio contributivo spetta anche a coloro che hanno commesso un illecito nell’inquadrare erroneamente i lavoratori. Un’interpretazione, questa, motivata dal fatto che “la procedura di stabilizzazione si attiva su espressa volontà delle parti, e solo dopo la legge regola quale forma contrattuale adottare per l’ex collaboratore”. In altri termini, non sussiste alcun obbligo legale alla stabilizzazione, ma solo condizioni obbligatorie per la sua attuazione. L’iniziativa, dunque, alla stabilizzazione è rilasciata alla volontà di entrambe le parti, così come la sua attuazione concreta (con l’accordo transattivo che “deve” essere sottoscritto ai fini della stabilizzazione, ma solo se il lavoratore acconsente).

Pertanto, la sottoscrizione del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato conseguente alla stabilizzazione di un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, o autonomo, si pone effettivamente come condizione necessaria della realizzazione degli effetti di cui all’art. 54 d.lgs. n. 81/2015, ma a valle di un momento volitivo originario (la scelta della stabilizzazione) che non è imposto dalla legge, ma soltanto previsto, con la scelta dell’adozione che rimane in capo ai singoli.

Tutto ciò è giuridicamente coerente anche rispetto a quanto stabilito con l’art. 1 del D.Lgs. n. 81/2015, che lo scopo primario quello di far divenire il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato la forma comune di rapporto di lavoro.

Questa la posizione dei CdL. Ma quello che vi chiedo è questo: è giusto premiare, non una, ma ben due volte un datore che per anni ha usufruito di lavoratori inquadrandoli magari con partita IVA quando in realtà hanno prestato a tutti gli effetti un’attività di lavoro subordinata? È giusto che i datori di lavoro assumono “per soli 12 mesi” i lavoratori per godere dell’estinzione degli illeciti amministrativi, contributivi e fiscali e poi, scaduto l’anno di assunzione, chissà che fine faranno i lavoratori?

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Cartelle di pagamento con raccomandata informativa

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

In ipotesi di irreperibilità momentanea del destinatario, la notifica della cartella esattoriale può dirsi validamente eseguita soltanto se sono stati curati tutti gli adempimenti previsti dall’articolo 140 del codice di procedura civile. In particolare, deve essere inviata la raccomandata informativa dell’avvenuto deposito del plico presso la casa comunale e, in caso di contestazione circa il ricevimento della cartella, il concessionario deve provare il ricevimento della stessa da parte dell’interessato, perché altrimenti la notifica deve considerarsi nulla.

È quanto emerge dalla sentenza n. 51/09/15 della Commissione Tributaria Regionale di Roma.

La controversia è scaturita da un preavviso di fermo veicolo in ragione dell’omesso pagamento di alcune cartelle che il contribuente ha negato di aver ricevuto.

La CTR capitolina, contrariamente alla CTP, ha ritenuto non provata, da parte della resistente Equitalia, la notifica delle cartelle sottese al fermo impugnato, e quindi ha accolto il motivo d’appello involgente la violazione e falsa applicazione dell’art. 140 c.p.c., non risultando nella documentazione prodotta dal concessionario la prova dell’avvenuta spedizione della raccomandata di avviso di deposito presso la casa comunale del plico da notificare.

La CTR ha ricordato che, nei casi previsti dall’articolo 140 c.p.c., il contribuente deve essere informato, mediante l’invio di raccomandata A/r, che la cartella esattoriale è stata depositata presso la casa comunale (v. C. cost. n. 258 del 2012).

L’art. 140 si applica nel caso d’irreperibilità relativa del notificatario e laddove il domicilio del medesimo sia conosciuto.

La norma prevede una serie di adempimenti:

  • l’affissione dell’avviso alla casa comunale (che però non costituisce formalità essenziale non essendo idonea, di per sé, a porre l’atto nella sfera di conoscibilità del destinatario);
  • l’affissione, alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario, a opera del notificatore, di un avviso dell’avvenuto deposito (ma anche questo secondo adempimento non è considerato dalla legge sufficiente, stante la sua precarietà che può tradursi nella sottrazione o, comunque, nella dispersione dell’avviso);
  • la notizia dell’avvenuto deposito che il notificatore deve dare al destinatario mediante raccomandata con avviso di ricevimento.

Ebbene, poiché “il dettato della norma porta a ritenere che con il compimento del terzo adempimento, ovvero la spedizione della raccomandata, la notificazione deve considerarsi perfezionata nei confronti del soggetto che effettua la notifica (…), viceversa non perfeziona gli effetti della notifica nei confronti del soggetto destinatario della stessa”, il concessionario per la riscossione deve produrre una copia della ricevuta della raccomandata regolarmente sottoscritta dal soggetto notificando o da altro soggetto legittimato ai sensi del codice civile, ovvero copia del plico da cui risulti la compiuta giacenza presso l’ufficio postale a seguito di regolare avviso. Questa interpretazione “è corroborata dalla sentenza 3/10 della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 140 c.p.c. nella parte in cui prevede che la notifica si perfezioni per il destinatario, con la spedizione della raccomandata informativa anziché con il ricevimento o, comunque, decorso il periodo di compiuta giacenza”.

Ma nel caso esaminato, scrive la CTR capitolina, “non è stata mai prodotta alcuna ricevuta della raccomandata o altrimenti provato che l’interessato non abbia curato il ritiro della stessa nel normale termine di giacenza presso l’ufficio postale. La notifica delle cartelle pregresse al fermo oggetto di questo giudizio deve ritenersi del tutto irrituale con la conseguenza che il fermo, in accoglimento dell’appello, dev’essere dichiarato illegittimo”.

Le spese del giudizio sono state compensate.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Ravvedimento degli acconti

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Dal 1.1.2016 sanzione ridotta per i versamenti entro 90 giorni

Premessa – Qualora la legge di stabilità 2016 confermi l’anticipo al 1.1.2016 delle nuove norme previste dal D.Lgs 158/2015 sulla riduzione delle sanzioni per omessi versamenti per il contribuente che non sana il mancato pagamento dell’acconto entro 8 giorni per potere procedere con il ravvedimento operoso conviene attendere l’1.1.2016.

Acconti imposte dirette – Ieri 30 novembre 2015 è scaduto il termine entro cui i contribuenti (persone fisiche, società di persone, società di capitali e soggetti ed esse equiparati) dovevano versare la seconda o unica rata degli acconti relativi alle imposte sui redditi per il periodo d’imposta 2015. I contribuenti che hanno omesso l’acconto delle imposte possono ora rimediare fruendo del ravvedimento operoso, il quale varia a seconda del momento in cui viene fatto.

Ravvedimento entro 15 giorni – In caso di omesso/tardivo versamento delle imposte è applicabile la sanzione pari al 30% dell’importo non versato. Tale misura è tuttavia ulteriormente ridotta con riferimento ai versamenti effettuati entro 15 giorni dal termine previsto. La sanzione ordinaria del 30%, applicabile sui tardivi od omessi versamenti di imposte, si riduce infatti ad un quindicesimo per ogni giorno di ritardo: varia dal 2% per un giorno di ritardo, fino al 28% per 14 giorni di ritardo. A partire dal quindicesimo giorno di ritardo si applica la misura fissa del 30%. Tale sanzione ridotta può essere ulteriormente abbassata usufruendo del ravvedimento operoso (sempre che ne ricorrano i presupposti), il quale permette di diminuire la sanzione ad un decimo diventando così dello 0,2% per ogni giorno di ritardo: variando quindi dallo 0,2% per un giorno di ritardo, fino al 2,8% per 14 giorni di ritardo.

Versamento tra il 15° e 30° giorno dalla scadenza – Per i versamenti effettuati dal 15° al 30° giorno dalla scadenza, la sanzione ordinaria a carico del contribuente che non effettua in tutto o in parte il pagamento è pari al 30% dell’importo non versato. La fattispecie dell’omesso o insufficiente versamento può essere sanata versando l’imposta o maggiore imposta più la sanzione ridotta ad un decimo, quindi il 3% (1/10 del 30%) e, infine, non ci si deve dimenticare degli interessi.

Ravvedimento medio – Il ravvedimento medio è applicabile dopo il 30° giorno di ritardo fino al 90° giorno, e prevede una sanzione fissa del 3,33% (sanzione del 30% ridotta ad 1/9) dell’importo da versare più gli interessi giornalieri calcolati sul tasso di riferimento annuale (comma 637 Legge di Stabilità 2015);

Ravvedimento Lungo – Il ravvedimento lungo è applicabile dopo il 90° giorno di ritardo, ma comunque entro i termini di presentazione della dichiarazione relativa all’anno in cui è stata commessa la violazione. E’ prevista una sanzione fissa del 3,75% (1/8 del 30%) dell’importo da versare più gli interessi giornalieri calcolati sul tasso di riferimento annuale.

Nuove sanzioni dal 1.1.2016 – Ricordiamo però che secondo quanto previsto dal Dlgs 158/2015 la sanzione per insufficiente/omesso versamento del tributo viene ridotta alla metà se il versamento viene eseguito con ritardo non superiore a 90 giorni. Tali nuove norme secondo quanto attualmente in vigore verranno applicate dal 1.1.2017. La bozza della legge di stabilità 2016 approvata al senato anticipa però tali nove norme al 1.1.2016. Se l’anticipo verrà confermato nel testo finale della legge di stabilità in caso di omesso pagamento dell’acconto qualora questo non venisse regolarizzato entro gli 8 giorni successivi risulterà conveniente aspettare il 1.1.2016 e sanare l’omissione entro 90 giorni dall’omissione (28 febbraio) in quanto si fruirebbe di un ravvedimento “super conveniente “ pari all’1,67 per cento (la penalità passerebbe dal 30 al 15 per cento ridotta ad 1/9 fruendo del ravvedimento operoso).

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

ESTROMISSIONE AGEVOLATA DELL’IMMOBILE STRUMENTALE: ASPETTI APPLICATIVI

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Con uno specifico emendamento all’art. 9 del Ddl. di stabilità 2016, già approvato al senato ed ora in attesa dell’esame alla camera, è stata introdotta la possibilità per le ditte individuali di poter usufruire di alcune disposizioni agevolative in materia di estromissione dell’immobile strumentale dell’imprenditore individuale (si veda il ns articolo apparso sul quotidiano del 19 novembre scorso).

L’intervento si innesta in un più ampio disegno emergente dalla stessa bozza di Legge di stabilità 2016 atto a far “fuoriuscire” a costo fiscale agevolato i beni immobili dal patrimonio delle imprese.

La ditta individuale che alla data del 31 ottobre 2015 possiede immobili strumentali (sia per natura che per destinazione) di cui all’art. 43 comma 2 D.p.r. 917/86, può decidere di optare per l’uscita dello stesso fabbricato dal patrimonio dell’impresa con destinazione alla persona fisica. Vediamo di analizzare i principali dettagli dell’operazione.

La disciplina per le imposte dirette

L’operazione di trasferimento dalla sfera d’impresa a quella privata si concretizza con il pagamento di un’imposta sostitutiva dell’8 % (in sostituzione di Irpef e Irap) sulla differenza tra il valore normale degli immobili estromessi e il loro costo fiscalmente riconosciuto.

Sotto il profilo operativo, si riepilogano le principali regole previste :

  • passaggio da perfezionare entro il 31 maggio 2016;
  • estromissione possibile solo a decorrere dal periodo d’imposta in corso al 1° gennaio 2016;
  • I beni devono essere posseduti alla data del 31 ottobre 2015;
  • plusvalenze assoggettate all’imposta sostitutiva dell’8% da versare il 60% entro il 30.11.2016 ed il restante 40% entro il 30.06.2017.
  • plusvalenza calcolata come differenza fra il valore normale del bene ed il costo fiscalmente riconosciuto in bilancio;
  • possibile sostituzione del valore normale con il valore catastale degli immobili, al pari di quanto avviene per l’assegnazione agevolata ai soci.

La disciplina per l’Iva

Sotto il profilo IVA, l’operazione è qualificabile come destinazione di beni a finalità estranee all’impresa, (art. 2 comma 2 n. 5 del DPR 633/72) e quindi si tratta di iniziativa rientrante nell’ambito di applicazione del tributo.

Costituiscono eccezione a tale principio i beni per i quali l’imprenditore non ha operato la detrazione dell’imposta all’atto dell’acquisto (es. immobile acquisito da privato).

Dal punto di vista operativo l’estromissione va fatturata (nel caso di specie autofatturata), solitamente, in regime di esenzione di cui all’art. 10 comma 1 n. 8-ter del DPR 633/72, salvo il caso in cui l’imprenditore non intenda optare specificatamente per l’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto.

Tale opzione, però, non è vantaggiosa a causa del fatto che l’Iva (solitamente con aliquota al 22%) esposta in fattura derivante dall’assegnazione andrebbe poi di norma versata all’Erario e si configura evidentemente come un costo che ricade tutto a carico dello stesso imprenditore.

Pro rata

Come detto, generalmente l’operazione di estromissione in questione si qualifica come esente ai sensi all’articolo 10 comma 1 n. 8-ter del DPR 633/72.

Nel caso in questione trattandosi tipicamente di immobile strumentale dell’attività (es il capannone o il laboratorio in cui si è svolta l’attività) si applica l’art. 19-bis del DPR 633/72 nella parte in cui la disposizione afferma che i beni ammortizzabili ceduti (od estromessi come in questo caso) non concorrono al calcolo della percentuale di pro rata.

Rettifica detrazione

Se è pur vero quanto sopra affermato, non bisogna però dimenticare che se l’operazione avviene nel corso del periodo di tutela fiscale, (pari a dieci anni per i beni immobili), generalmente questa provoca un cambio di destinazione, in quanto il bene non è più impiegato per operazioni imponibili ma, come si è detto, per una operazione esente che non consente il recupero dell’imposta.

Le altre imposte indirette

Infine niente sarà dovuto ai fini delle imposte di registro, ipotecaria e catastale, in quanto non si effettua alcun trasferimento della proprietà dell’immobile, il quale rimane in capo allo stesso soggetto, seppure passando dalla sfera imprenditoriale a quella personale.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Con la pace fiscale, più gettito e meno contenzioso

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

La semplificazione deve iniziare con il taglio delle liti e una vera sanatoria sulle cartelle di pagamento

Uffici e contribuenti devono evitare le liti inutili. Considerate le recenti novità introdotte in tema di contenzioso e riscossione, è indispensabile un colpo di spugna sul passato. E’ ora di fare pace e chiudere l’enorme contenzioso pendente che negli ultimi mesi è anche aumentato, a seguito della sentenza della Corte costituzionale 37 del 17 marzo 2015, che ha “azzerato” i dirigenti nominati senza concorso dall’agenzia delle Entrate. Così, gli amanti delle liti e del formalismo si appellano alla illegittimità degli atti firmati dai funzionari incaricati, con conseguente richiesta di nullità delle iscrizioni a ruolo. In verità, non è così, anche perché nella stessa sentenza della Corte costituzionale si fa riferimento al principio univoco e consolidato della Cassazione, in base al quale, per la legittimità degli atti, è sufficiente che gli stessi provengano e siano riferibili all’ufficio che li ha emanati. Per la Cassazione, sezione tributaria civile, sentenza 22810/15, udienza del 21 ottobre 2015, depositata il 9 novembre 2015, sono validi gli atti firmati dai dirigenti incaricati o da funzionari delegati. La nullità dell’atto, in quanto sottoscritto da un dirigente incaricato, deve essere eccepita in sede di presentazione del ricorso alla commissione tributaria provinciale. Dopo la sentenza dei giudici di legittimità, si sono però “sgonfiate” notevolmente le aspettative dei contribuenti che hanno intrapreso la strada del contenzioso. In ogni caso, per uffici e contribuenti, è arrivata l’ora di smetterla con i formalismi ingiustificati. La sostanza deve sempre prevalere sulla forma.

Rottamazione cartelle, chiusura liti pendenti e liti potenziali

E’ anche vero che il caos fiscale ha superato ogni limite di umana sopportazione. Tre possono essere le proposte per una vera semplificazione: definizione agevolata delle somme iscritte a ruolo, delle liti pendenti e delle liti potenziali. La sanatoria sulla riscossione consentirebbe anche di superare le polemiche sulle presunte “persecuzioni” di Equitalia e degli altri agenti della riscossione e di incrementare i recuperi dell’evasione da riscossione. Basti pensare che fra il 2000 e il 2012 il Fisco ha iscritto a ruolo importi per circa 807,7 miliardi di euro. Nello stesso periodo, cartelle per 193,1 miliardi sono state cancellate per varie ragioni, per esempio, perché il Fisco ha perso in giudizio contro il presunto debitore, ma gli altri 614,6 miliardi di crediti sono rimasti in piedi e solo 69 miliardi (l’11,2% del totale) sono stati incassati davvero. Il resto, 545 miliardi, è da incassare. Di queste somme, però, è certo che sarà impossibile recuperarne circa 150miliardi di euro, in quanto si tratta di somme a carico di contribuenti falliti. Dai restanti 390miliardi di euro, si dovranno togliere le somme a ruolo a carico di soggetti deceduti o eredi che hanno rinunciato all’eredità e altre somme a carico di contribuenti che non posseggono nulla. Considerato che le somme incassate da Equitalia nei primi sei mesi del 2014 sono di circa 3,7 miliardi di euro, ci vorrebbero 50 anni per incassare le somme iscritte a ruolo. Tenuto conto che di tutte le somme iscritte a ruolo, gli incassi difficilmente potranno arrivare al 5%, una soluzione potrebbe essere quella di riaprire la vecchia sanatoria di cui all’articolo 12 della legge 289/2002, cosiddetta rottamazione cartelle. La riapertura, con gli opportuni “aggiornamenti” sulle somme incluse in ruoli affidati agli agenti della riscossione entro il 30 giugno 2015, potrebbe essere consentita, pagando il 25% dell’importo iscritto a ruolo. Il forfait del 25% delle somme si potrebbe “estendere” anche ai debiti a ruolo per i contributi Inps e per gli altri debiti. Un’altra proposta potrebbe riguardare la riapertura della definizione delle liti pendenti, eliminando però il limite di 20mila euro, che era stato previsto per la precedente definizione che si è chiusa il 2 aprile 2012. Alla chiusura delle liti pendenti, si potrebbe infine “accompagnare” la definizione delle liti potenziali. Si potrebbero così definire gli accertamenti per i quali non sono scaduti i termini per il ricorso; gli inviti al contraddittorio per Iva, imposte dirette o altre imposte indirette; i processi verbali di constatazione, sia della Guardia di Finanza, sia degli uffici, relativamente ai quali non è stato notificato accertamento o ricevuto invito al contraddittorio.

Con la pace fiscale, soldi subito e stop alle liti

Le risorse, che potrebbero arrivare dalla pace fiscale, utili anche per agevolare il D. E. F., documento di economia e Finanza, avrebbero un duplice obiettivo: incassare subito un buon gettito, certo e definitivo, e ridurre notevolmente le liti pendenti. E’ anche vero che in alcuni casi le somme accertate sono esagerate e, con la definizione amichevole, l’incasso sarà sicuramente inferiore alle imposte contestate, ma tenere in vita il contenzioso costa tanto sia agli uffici, sia ai contribuenti, cioè alla collettività. Per il Governo, l’alternativa, oggi più che mai di grande attualità, è perciò quella solita: tanti, troppi soldi, forse mai, o pochi, maledetti e subito. Non si parla di condoni, ma di una tregua per chiudere le tante liti tra Fisco e contribuenti, con gli uffici dell’agenzia delle Entrate, che ormai sono al collasso con il contenzioso da gestire, che sta arrivando a cifre insostenibili che sfiora il milione delle liti pendenti. Soldi subito e basta litigare. Con buona pace per tutti e con benefici per i contribuenti e per le casse dell’erario.

Autore: Salvina Morina e Tonino Morina

CARTELLE DI PAGAMENTO CON RACCOMANDATA INFORMATIVA

In ipotesi di irreperibilità momentanea del destinatario, la notifica della cartella esattoriale può dirsi validamente eseguita soltanto se sono stati curati tutti gli adempimenti previsti dall’articolo 140 del codice di procedura civile. In particolare, deve essere inviata la raccomandata informativa dell’avvenuto deposito del plico presso la casa comunale e, in caso di contestazione circa il ricevimento della cartella, il concessionario deve provare il ricevimento della stessa da parte dell’interessato, perché altrimenti la notifica deve considerarsi nulla.

È quanto emerge dalla sentenza n. 51/09/15 della Commissione Tributaria Regionale di Roma.

La controversia è scaturita da un preavviso di fermo veicolo in ragione dell’omesso pagamento di alcune cartelle che il contribuente ha negato di aver ricevuto.

La CTR capitolina, contrariamente alla CTP, ha ritenuto non provata, da parte della resistente Equitalia, la notifica delle cartelle sottese al fermo impugnato, e quindi ha accolto il motivo d’appello involgente la violazione e falsa applicazione dell’art. 140 c.p.c., non risultando nella documentazione prodotta dal concessionario la prova dell’avvenuta spedizione della raccomandata di avviso di deposito presso la casa comunale del plico da notificare.

La CTR ha ricordato che, nei casi previsti dall’articolo 140 c.p.c., il contribuente deve essere informato, mediante l’invio di raccomandata A/r, che la cartella esattoriale è stata depositata presso la casa comunale (v. C. cost. n. 258 del 2012).

L’art. 140 si applica nel caso d’irreperibilità relativa del notificatario e laddove il domicilio del medesimo sia conosciuto.

La norma prevede una serie di adempimenti:

  • l’affissione dell’avviso alla casa comunale (che però non costituisce formalità essenziale non essendo idonea, di per sé, a porre l’atto nella sfera di conoscibilità del destinatario);
  • l’affissione, alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario, a opera del notificatore, di un avviso dell’avvenuto deposito (ma anche questo secondo adempimento non è considerato dalla legge sufficiente, stante la sua precarietà che può tradursi nella sottrazione o, comunque, nella dispersione dell’avviso);
  • la notizia dell’avvenuto deposito che il notificatore deve dare al destinatario mediante raccomandata con avviso di ricevimento.

Ebbene, poiché “il dettato della norma porta a ritenere che con il compimento del terzo adempimento, ovvero la spedizione della raccomandata, la notificazione deve considerarsi perfezionata nei confronti del soggetto che effettua la notifica (…), viceversa non perfeziona gli effetti della notifica nei confronti del soggetto destinatario della stessa”, il concessionario per la riscossione deve produrre una copia della ricevuta della raccomandata regolarmente sottoscritta dal soggetto notificando o da altro soggetto legittimato ai sensi del codice civile, ovvero copia del plico da cui risulti la compiuta giacenza presso l’ufficio postale a seguito di regolare avviso. Questa interpretazione “è corroborata dalla sentenza 3/10 della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 140 c.p.c. nella parte in cui prevede che la notifica si perfezioni per il destinatario, con la spedizione della raccomandata informativa anziché con il ricevimento o, comunque, decorso il periodo di compiuta giacenza”.

Ma nel caso esaminato, scrive la CTR capitolina, “non è stata mai prodotta alcuna ricevuta della raccomandata o altrimenti provato che l’interessato non abbia curato il ritiro della stessa nel normale termine di giacenza presso l’ufficio postale. La notifica delle cartelle pregresse al fermo oggetto di questo giudizio deve ritenersi del tutto irrituale con la conseguenza che il fermo, in accoglimento dell’appello, dev’essere dichiarato illegittimo”.

Le spese del giudizio sono state compensate.

AUTORE: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Il professionista “zelante” ed “efficiente” non dovrà mai risarcisce il cliente

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Civile, sentenza del 27 novembre 2015

In tema di risarcimento danni per responsabilità professionale, il professionista non è in colpa, ai sensi dell’articolo 1176 comma 2 del Codice civile, qualora non abbia tenuto una condotta difforme da quella che avrebbe tenuto, al suo posto, un ideale professionista “medio”. Per tale si deve intendere non un “professionista mediocre” bensì uno “professionista bravo”: ossia serio, preparato, zelante, efficiente.

È quanto emerge dalla sentenza 27 novembre 2015, n. 24213, della Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione.

La Suprema Corte – trattando un caso di responsabilità medica – ha osservato che il diritto al risarcimento presuppone la causazione di un danno attraverso la violazione di norme giuridiche o di comune prudenza. E per capire se siano state violate norme giuridiche o di comune prudenza è necessario compiere un apprezzamento alla stregua dell’art. 1176 del Codice civile, che è applicabile anche alle ipotesi di responsabilità extracontrattuale.

L’articolo 1176 citato, al comma 1, chiarisce che il debitore deve adempiere l’obbligazione usando la diligenza del buon padre di famiglia, mentre al comma 2 la norma afferma che, “nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata”. La nozione di “diligenza” rappresenta l’inverso logico della nozione di “colpa”; ragion per cui è in colpa chi non è diligente. Viceversa, chi tiene una condotta diligente non può essere ritenuto in colpa.

Ebbene, gli ermellini hanno precisato che le norme di comune prudenza dalla cui violazione può scaturire una colpa civile non sono uguali per tutti.

Nel caso di obbligazioni comuni, ovvero di danni causati da chi non svolga un’attività professionale, l’art. 1176 impone di assumere, a parametro di valutazione della condotta del responsabile, il comportamento che avrebbe tenuto, nelle medesime condizioni, il “cittadino medio”, vale a dire “la persona di normale avvedutezza, formazione e scolarità”.

Nel caso invece di inadempimento di obbligazioni professionali, ovvero di danni cagionati nell’esercizio di una attività professionale in senso ampio, il secondo comma dell’art. 1176 prescrive un criterio più rigoroso.

Il professionista, infatti – ci dice la Cassazione – è in colpa non solo quando tenga una condotta difforme da quella che, idealmente, avrebbe tenuto nelle medesime circostanze il bonus pater familias, ma anche quando abbia tenuto una condotta difforme da quella che avrebbe tenuto, al suo posto, un ideale “professionista medio”.

Nella giurisprudenza di legittimità, l’ideale “professionista medio” ex art. 1176, comma 2, cod. civ., , non è un professionista “mediocre”, ma è un “professionista bravo”: vale a dire serio, preparato, zelante efficiente.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Assunzione detenuti e internati: modalità attuative credito d’imposta

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate n.153321 del 27.11.2015

Con il Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate n.153321 del 27.11.2015 sono state definite le modalità attuative del credito d’imposta di cui all’articolo 3 della legge 22 giugno 2000, n. 193, e successive modificazioni, concesso a favore delle imprese che assumono, per un periodo di tempo non inferiore a trenta giorni, lavoratori detenuti o internati, anche quelli ammessi al lavoro esterno ai sensi dell’articolo 21 della legge 26 luglio 1975, n. 354, ovvero detenuti semiliberi provenienti dalla detenzione, o che svolgono effettivamente attività formative nei loro confronti.

Le disposizioni contenute nel presente provvedimento decorrono dal 1° gennaio 2016.

I crediti d’imposta maturati fino al 31 dicembre 2015, non ancora interamente utilizzati in compensazione, sono fruiti dalle imprese, a decorrere dal 1° gennaio 2016, secondo le disposizioni del presente provvedimento, nei limiti dell’importo residuo risultante dalla differenza tra i crediti comunicati all’Agenzia delle Entrate dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia e l’ammontare dei crediti fruiti in compensazione utilizzando il codice tributo 6741, rilevati dall’Agenzia delle Entrate attraverso i modelli F24 presentati successivamente alle comunicazioni del citato Dipartimento.

Il primo step previsto dal Provvedimento riguarda l’individuazione delle imprese beneficiarie. A tal fine il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia trasmette all’Agenzia delle Entrate, entro il 31 dicembre di ciascun anno e con modalità telematiche definite d’intesa, l’elenco delle imprese beneficiarie del credito per l’anno successivo, con l’importo concesso a ciascuna di esse.

Il suddetto credito d’imposta è utilizzabile in compensazione, presentando il modello F24 esclusivamente attraverso i servizi telematici ENTRATEL e FISCONLINE messi a disposizione dall’Agenzia delle Entrate, secondo modalità e termini definiti con provvedimento del Direttore della stessa Agenzia.

Il Provvedimento in commento sancisce che l’Agenzia delle Entrate verifica, per ciascun modello F24 ricevuto, che l’importo del credito d’imposta utilizzato non risulti superiore all’ammontare del beneficio complessivamente concesso all’impresa, al netto dell’agevolazione fruita attraverso i modelli F24 già presentati. Nel caso in cui l’importo del credito utilizzato risulti superiore al beneficio residuo, il relativo modello F24 è scartato e i pagamenti ivi contenuti si considerano non effettuati.

Autore: redazione fiscal focus

Prima casa e abitazione principale: conosciamo la differenza?

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Premessa – Spesso si tende a far confusione tra concetti di “Prima casa” e “Abitazione principale” e pensare che siano la stessa cosa.

Certo in alcuni casi possono coincidere (è il caso di una persona che possiede un solo immobile, nel quale risiede anche con la propria famiglia), ma in altre ipotesi può trattarsi di immobili diversi (è il caso di un soggetto possessore ad esempio di due immobili dove uno dei due è “prima casa” e l’altro è “abitazione principale”).

E’ importante conoscere le differenze poiché a seconda che si tratti di pima casa o seconda casa o si tratti di abitazione principale o abitazione a disposizione sono previste agevolazioni fiscali e normative diverse.

La prima casa – Il concetto di prima casa è di carattere prettamente fiscale, poiché all’atto di stipula del rogito (compravendita, donazione, ecc.) consente di beneficiare di una serie di agevolazioni, quali ad esempio:

  • il pagamento di un’aliquota ridotta per le imposte ipotecaria e catastale in caso di compravendita di un immobile (es. imposta di registro del 2% in luogo del 9%);
  • il pagamento di un’aliquota ridotta per le imposte ipotecaria e catastale in caso di donazione di un immobile;
  • il pagamento di un’aliquota ridotta per le imposte ipotecaria e catastale in caso di successione ereditaria.

In particolare, affinché l’immobile oggetto del rogito possa essere considerato “prima casa”, per l’acquirente, è necessario che siano rispettate le seguenti condizioni (contemporaneamente):

  1. L’immobile deve essere di tipo residenziale e non di lusso (es. categoria A2).
  2. Non essere titolare, neppure per quote o in comunione legale, su tutto il territorio nazionale, di diritti di proprietà, uso, usufrutto, abitazione o nuda proprietà, su altro immobile acquistato, anche dal coniuge, usufruendo delle agevolazioni per l’acquisto della prima casa;
  3. E’ necessario essere residenti o lavorare nel comune dell’immobile, o provvedere a trasferirvi la residenza entro 18 mesi dall’acquisto;
  4. Non essere titolare, esclusivo o in comunione col coniuge, di diritti di proprietà, usufrutto, uso e abitazione, su altra casa nel territorio del Comune dove si trova l’immobile oggetto dell’acquisto agevolato;
  5. Il soggetto acquirente deve essere una persona fisica.

La differenza tra prima casa e abitazione principale, può essere individuata al punto 3) delle predette condizioni. Infatti, il fatto stesso che sia sufficiente lavorare nel comune in cui si acquista la casa o avere in esso la residenza ma non è necessario abitare nella casa da acquistare, ci fa capire come la prima casa possa essere qualcosa di diverso dall’abitazione principale, che è invece quella dove si ha la proprio dimora abituale (cioè la residenza).

Con riferimento alla condizione di cui al punto 3) è previsto che nel caso, per l’acquisto, si facesse un mutuo, per poter poi detrarre fiscalmente gli interessi passivi, la casa che si acquista dovrà diventare abitazione principale (pertanto occorre portarci la residenza) entro 12 mesi e non 18 mesi.

L’abitazione principale – Il concetto di abitazione principale è di carattere prettamente residenziale. In particolare l’abitazione principale coincide con l’immobile in cui il soggetto ha la propria residenza o meglio dimora abituale.

Anche all’abitazione principale sono legate una serie di agevolazioni fiscali, quali ad esempio:

  1. l’esenzione IMU se l’immobile è di categoria catastale non di lusso (es. A/2);
  2. l’applicazione di un’aliquota agevolata IMU e di una detrazione IMU se l’immobile è di categoria catastale di lusso (es. A/1);
  3. la possibilità di detrarre gli interessi passivi del mutuo stipulato per l’acquisto;
  4. altre agevolazioni previste dal comune, come quelle per la stipula dei nuovi contratti relativi alle utenze domestiche (acqua, luce, gas).

Esempio – Si supponga che il sig. Mario sia residente nel comune di Napoli e l’immobile (cat. A/2) in cui ha la residenza è di sua proprietà in seguito a successione per decesso del padre (l’immobile non è stato oggetto di precedente agevolazione prima casa). Tale immobile, dunque, rappresenta la sua “abitazione principale”.

Il sig. Mario decide di acquistare un secondo immobile (cat. A/2) situato nel comune di Caserta (intestandolo interamente a se stesso). Il comune di Caserta rappresenta altresì il proprio luogo di lavoro. In tale ipotesi, lasciando la residenza nell’attuale immobile di Napoli, ne consegue che il secondo immobile acquistato può essere considerato “prima casa” e quindi beneficiare delle relative agevolazioni fiscali mentre l’immobile in cui lascia la residenza continua ad essere la sua “abitazione principale”.

Dunque, il sig. Mario è proprietario di due immobili di cui uno è “prima casa” e l’altro “abitazione principale”.

Autore: PIRONE PASQUALE

Gestione separata INPS e cumulo di contributi: c’è possibilità di pensione

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Premessa – Spesso può accadere che un soggetto abbia maturato i requisiti contributivi previsti dalla normativa pensionistica per poter accedere alla pensione, ma ha contributi versati in più gestioni previdenziali gestite dall’INPS (esempio gestione separata, gestione dipendenti e gestione ex Inpdap). Si tratta di anni contributivi che se presi singolarmente non permetterebbero di maturare il diritto alla pensione poiché non si raggiungono i requisiti pensionistici previsti per una specifica gestione ma che se sommati (e quindi ricongiunti) potrebbero consentire l’accesso alla pensione con la gestione separata poiché questa rappresenta l’ ultima posizione previdenziale cui si era iscritti.

In particolare, la possibilità di ricongiungere alla gestione separata i periodi contributivi versati alle altre gestioni previdenziali è espressamente prevista dall’art. 3 DM n. 282/1996 in cui è disposto che “gli iscritti alla gestione separata che possono far valere periodi contributivi presso l’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti, le forme esclusive e sostitutive della medesima, le gestioni pensionistiche dei lavoratori autonomi di cui alla legge n. 233 del 1990 hanno facoltà di chiedere nell’ambito della gestione separata il computo dei predetti contributi, ai fini del diritto e della misura della pensione a carico della gestione stessa, alle condizioni previste per la facoltà di opzione di cui all’art. 1, comma 23, della legge n. 335 del 1995”.

I requisiti necessari per l’esercizio della facoltà e i chiarimenti dell’INPS – Il predetto art. 3 DM n. 282/1996, dunque, consente l’utilizzo nella gestione separata dei periodi contributivi di lavoro dipendente e di lavoro autonomo presenti in altre gestioni previdenziali.

Per avvalersi di questa facoltà è necessario avere i requisiti richiesti per esercitare l’opzione al sistema contributivo e cioè:

  1. un’anzianità contributiva inferiore a 18 anni al 31/12/1995;
  2. possesso di almeno 15 anni di contribuzione di cui 5 dopo il 31/12/1995.

In merito al requisito di cui al punto 1), l’INPS con la circolare n. 184 del 18 novembre 2015 ha chiarito che occorre far riferimento all’anzianità complessivamente maturata entro la data del 31/12/1995 computando tutta la contribuzione (obbligatoria, figurativa, volontaria e da riscatto) posseduta dal soggetto, al momento dell’esercizio della facoltà in questione, nelle gestioni indicate dall’articolo 3 del D.M. n. 282/96 purché non ancora utilizzata per la liquidazione di un trattamento pensionistico e eventuali periodi coincidenti temporalmente saranno conteggiati una sola volta.

Inoltre, sono esclusi dal computo i soggetti iscritti per la prima volta dopo l’1/1/1996 (c.d. contributivi “puri”) ed anche i soggetti che, al 31/12/1995, sono in possesso di sola contribuzione in gestioni non rientranti nell’ambito di applicazione del citato articolo 3 ( es. in Casse professionali) o la cui contribuzione, anteriore all’ 1/1/1996, ha già dato luogo ad un trattamento pensionistico.

In merito al requisito di cui al punto 2), con la stessa circolare n. 184 l’istituto di previdenza chiarisce che anche in tal caso si prenderà in considerazione tutta la contribuzione (obbligatoria, figurativa, volontaria e da riscatto), posseduta dal soggetto nelle gestioni indicate dall’articolo 3 del D.M. n. 282/1996, non sovrapposta temporalmente e non ancora utilizzata per la liquidazione di un trattamento pensionistico.

I requisiti di anzianità contributiva necessari per la facoltà di computo sono perfezionati anche sulla base del cumulo dei periodi assicurativi risultanti negli Stati membri dell’Unione europea e negli Stati con i quali sono in vigore accordi bilaterali di sicurezza sociale che prevedono la totalizzazione dei periodi per il diritto alle prestazioni.

Infine, si precisa che non è condizione ostativa all’esercizio della facoltà in parola, la circostanza che il soggetto richiedente abbia già maturato il diritto a pensione in una delle gestioni interessate dal computo o sia già titolare di trattamento pensionistico in un qualsiasi fondo.

Le prestazioni pensionistiche conseguibili – L’esercizio della facoltà di computo di cui all’art. 3 D.M. n. 282/1996 è utile ai fini del conseguimento di:

  • pensione di vecchiaia;
  • pensione anticipata;
  • pensione di inabilità;
  • assegno ordinario di invalidità;
  • pensione indiretta ai superstiti;
  • pensione supplementare.

La pensione sarà erogata dalla gestione separata e quindi soggiace alla normativa prevista per i trattamenti erogati nella suddetta gestione (es. almeno 5 anni di contribuzione versata nella predetta gestione).

La domanda – Come chiarito nella circolare n. 184/2015, trattandosi di una “facoltà”, il soggetto interessato deve fare esplicita richiesta del computo nella stessa domanda di pensione e in mancanza la sede INPS cui è stata presentata domanda non è tenuta ad applicare d’ufficio l’istituto in questione.

Con l’esercizio della facoltà, il soggetto interessato consegue la pensione di vecchiaia in gestione separata in base ai requisiti anagrafici e contributivi indicati nella circolare INPS n. 35/2012 (fissati dalla legge n. 2014/2011). E’ possibile, altresì, conseguire la pensione anticipata in gestione separata con i requisiti di cui al punto 2.2. della stessa circolare n. 35 del 2012.

Quindi, ad esempio, nel 2016, potrebbe fare domanda di pensione anticipata con cumulo nella gestione separata (sempre se sussistono i requisiti per l’esercizio dell’opzione) chi compie 63 anni e 7 mesi di età ed ha 20 anni di contribuzione effettiva (di cui 5 nella gestione separata).

Autore: Pirone Pasquale

Beni sequestrati al manager che sa del giro di fatture false emesse a monte e a valle dalla cartiera

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Penale, sentenza depositata il 26 novembre 2015

I beni personali (mobili e immobili) del legale rappresentante di società sono passibili di sequestro preventivo, funzionale alla confisca, se risulta il suo coinvolgimento attivo nella frode carosello. È quanto emerge dalla sentenza 26 novembre 2015, n. 46857, della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione.

Gli ermellini hanno respinto il ricorso prodotto da un legale rappresentante di società nei confronti del quale è stata ipotizzata la fattispecie di reato di dichiarazione fraudolenta ex art. 2 D.Lgs. n. 74/2000 con un’evasione d’IVA per oltre 2mln di euro; importo fino alla concorrenza del quale è stato disposto il sequestro preventivo, ai fini di confisca, di beni immobili e mobili, polizze assicurative e somme depositate su conto corrente.

La decisione impugnata, pronunciata dal Tribunale del riesame, è sembrata alla Suprema Corte corretta giuridicamente, oltreché congruamente motivata.

Il giudice di merito ha ricostruito la vicenda evidenziando come la guardia di finanza, con accertamenti e verifiche, avesse acquisito la documentazione e denunciato il ricorrente quale autore di una c.d. frode carosello che coinvolgeva almeno tre società, una della quali – che era situata in un altro Paese U.E. – emetteva come cartiera, “a monte”, fatture di acquisto e, “a valle”, fatture di vendita tra le aziende coinvolte nella transazione, svolgendo la funzione di “cartiera” e interponendosi tra gli effettivi soggetti della negoziazione, conseguendosi con tale meccanismo, il vantaggio patrimoniale di lucrare l’importo relativo all’IVA non versata e consentendo anche all’effettivo destinatario della merce (cioè la società del ricorrente) di acquistarla a un prezzo ridotto. Il Tribunale ha quindi evidenziato, da un lato, i rapporti commerciali esistenti tra la società del ricorrente e la “cartiera” e, dall’altro, come alla fine dei vari passaggi e operazioni la società del ricorrente lucrasse un risparmio di spesa di più dell’8 per cento, non pagando peraltro l’IVA.

Ebbene, la Suprema Corte, nell’avallare il verdetto del giudice di merito, ha osservato, fra l’altro, che la previsione del D.P.R. n. 633/72 (articolo 21, comma 7) – secondo la quale, “se vengono emesse fatture per operazioni inesistenti, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura” – è esplicita nel senso di imporre il versamento dell’imposta, ma di precluderne la detrazione. La disposizione viene infatti letta nel senso che il tributo viene a essere considerato “fuori conto” e la relativa obbligazione, conseguentemente “isolata” dalla massa di operazioni effettuate, “estraniata”, per ciò stesso, dal meccanismo di compensazione tra Iva “a valle” e Iva “a monte”, che presiede alla detrazione d’imposta di cui al decreto 633 (articolo 19). E ciò per il rilievo che il versamento dell’Iva a un soggetto che non sia la genuina controparte, aprendo la strada a un indebito recupero dell’imposta, è evento dirompente, nell’ambito del complessivo sistema Iva. Il diritto alla detrazione dell’imposta non può infatti prescindere dalla regolarità delle scritture contabili e in particolare dalla fattura che è considerata documento idoneo a rappresentare un costo dell’impresa.

Nella specie, poi, la Suprema Corte ha ritenuto escludibile qualsiasi inconsapevolezza da parte del ricorrente circa l’esistenza del meccanismo fraudolento. Infatti è stato possibile ricavare dal testo dei provvedimenti impugnati come il meccanismo criminoso fosse strutturato su più livelli per cui la merce, prima di giungere definitivamente alla società rappresentata dall’indagato, “è stata fatta oggetto di numerose operazioni di compravendita, solo cartolari, finalizzate esclusivamente alla creazione in capo alle simulate alienanti, assetti societari riconducibili al ricorrente, di un credito Iva non spettante, mai versato all’erario e al quale va perciò parametrato il profitto conseguito con l’evasione”.

Al ricorrente non resta che pagare le spese del giudizio di legittimità.

Autore: redazione fiscal focus

ANTIRICICLAGGIO: contratti di locazione e obblighi per gli avvocati

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Il caso – L’avvocato è tenuto a rispettare gli adempimenti previsti dalla disciplina antiriciclaggio nel caso in cui provveda a redigere un contratto di locazione o comodato?

Si rientra in questo caso nell’ipotesi di cui all’articolo 12, comma 1, lettera b) del D.Lgs. n.231/2007 “gestione di denaro, strumenti finanziari o altri beni”?

L’analisi – Come noto, il D.Lgs. n. 231/2007 non fornisce un elenco dettagliato delle operazioni al ricorrere delle quali devono scattare gli obblighi di adeguata verifica della clientela, né per i dottori commercialisti ed esperti contabili, né per gli avvocati.

Con specifico riferimento agli avvocati e ai notai viene tuttavia chiarito che questi ultimi sono tenuti ad osservare gli obblighi in materia di antiriciclaggio:

  • quando in nome o per conto dei propri clienti, compiono qualsiasi operazione di natura finanziaria o immobiliare
  • quando assistono i propri clienti nella predisposizione o nella realizzazione di operazioni riguardanti:
    1. il trasferimento a qualsiasi titolo di diritti reali su beni immobili o attività economiche;
    2. la gestione di denaro, strumenti finanziari o altri beni;
    3. l’apertura o la gestione di conti bancari, libretti di deposito e conti di titoli;
    4. l’organizzazione degli apporti necessari alla costituzione, alla gestione o all’amministrazione di società;
    5. la costituzione, la gestione o l’amministrazione di società, enti, trust o soggetti giuridici analoghi.

I contratti di affitto e di locazione

Con specifico riferimento alla redazione dei contratti di affitto, nel tempo si sono avute interpretazioni contrastanti.
Il Consiglio Nazionale Forense con il parere 24 ottobre 2012, n. 62 (Rel. Cons. Merli), ha chiarito che “non esiste, in linea generale, obbligo di segnalazione e/o di adeguata verifica con riferimento ai contratti di locazione, in quanto essi non trasferiscono diritti reali e non costituiscono un’attività economica
Viene tuttavia successivamente chiarito che occorre prestare particolare attenzione a tutti quei casi in cui il contratto di locazione o affitto generi nell’avvocato il sospetto di riciclaggio o di finanziamento al terrorismo (si pensi, a tal proposito, ad un contratto di locazione che preveda un canone decisamente troppo alto per i normali standard di mercato).
Si vuole aggiungere al quadro tracciato dal parere del Consiglio Nazionale Forense che, ai sensi dell’articolo 16 del D.Lgs. 231/2007, scattano gli obblighi di adeguata verifica della clientela “quando vi è sospetto di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo, indipendentemente da qualsiasi deroga, esenzione o soglia applicabile
Si rende inoltre necessaria la segnalazione dell’eventuale operazione sospetta.

L’interpretazione del Mef

Questa prima interpretazione del Consiglio Nazionale Forense è stata tuttavia successivamente smentita dal Mef, il quale ha chiarito che anche l’assistenza fornita da un legale nella predisposizione di un contratto di locazione configura un’attività di “gestione di denaro, strumenti finanziari o altri beni” ex art. 12, comma 1, lett. c), n. 2, D.Lgs. n. 231/2007.
Pertanto, anche in questo caso, l’avvocato sarà tenuto ad osservare gli obblighi antiriciclaggio contenuti nel D.Lgs. n. 231/2007, allo stesso modo di quanto previsto per i dottori commercialisti ed esperti contabili.
È stato inoltre chiarito che, in tutti i casi, il limite dei 15.000 euro (al di sopra del quale scattano gli obblighi di adeguata verifica della clientela) deve essere riferito al canone periodico previsto dal contratto.
Pertanto:

  • nel caso in cui sia stato stipulato un contratto nel quale è prevista la corresponsione di un canone semestrale di importo pari a 16.000 euro scattano gli obblighi di adeguata verifica della clientela,
  • se, nello stesso contratto, è previsto un canone mensile di euro 1.500 il professionista non sarà chiamato a rispettare gli obblighi di adeguata verifica della clientela (sebbene, paradossalmente, il canone annuale sia maggiore).

Si ricorda, infine, che nel caso di contratto di affitto/di locazione devono essere identificate entrambe le parti, ovvero sia il locatore che il conduttore.

I contratti di comodato
Con specifico riferimento ai contratti di comodato, invece, con i chiarimenti UIC del 27 marzo 2007 è stato affermato che questi ultimi costituiscono operazione da registrare, qualora il valore della cosa data in consegna sia superiore a 15.000 euro.
Data la gratuità della prestazione non potrà invece farsi riferimento, ovviamente, al valore del corrispettivo.

Autore: redazione fiscal focus

Assegnazione, estromissione, trasformazione agevolata: le opzioni a confronto

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Il DDL di Stabilità 2016 prosegue il cammino verso la definitiva approvazione e sembra che siano in dirittura d’arrivo l’insieme delle misure che permettono alle imprese di far fuoriuscire beni con un impatto fiscale “light”, nonché porre in essere una trasformazione in società semplice. A seconda dei casi si potrà scegliere tra le varie possibilità concesse dal Legislatore.

Ambito soggettivo – Da un punto di vista soggettivo, l’estromissione riguarda le sole imprese individuali, mentre assegnazione e trasformazione riguardano le società, di persone o di capitali.

Ambito oggettivo –Differenze sussistono per ciò che riguarda i beni “agevolabili”.

L’assegnazione non è rivolta a tutti beni dell’impresa, ma si limita l’applicazione:

  • ai beni immobili (tranne quelli strumentali per destinazione);
  • ed ai beni mobili iscritti in pubblici registri non utilizzati quali beni strumentali nell’esercizio dell’impresa.

L’estromissione è invece possibile per i soli beni strumentali, per natura o per destinazione. Nella trasformazione agevolata ciò che conta è che la società che intende trasformarsi deve avere per oggetto esclusivo o principale la gestione di beni immobili o di beni mobili registrati.

Esercizio dell’opzione, base imponibile e aliquote – L’esercizio dell’opzione deve avvenire entro il 30 Settembre 2016, fatta eccezione per l’estromissione che deve avvenire entro il 31 Maggio 2016. L’aliquota dell’imposta sostitutiva è pari all’8% per assegnazione, estromissione e trasformazione agevolata.

Eccezioni sono previste per l’assegnazione da parte della società nel caso in cui si verifica la condizione di non operatività in almeno due periodi d’imposta nel triennio 2013-2015 (aliquota 10,5%) e nel caso della presenza di riserve in sospensione d’imposta annullate per effetto dell’assegnazione o presenti nel patrimonio della società che si trasforma (aliquota 13%).

Il vero elemento di novità è la determinazione della base imponibile costituita dalla differenza tra il valore del bene ed il suo costo fiscalmente riconosciuto. Il valore del bene andrà definito in riferimento al suo valore catastale.

Per ciò che riguarda in particolare l’assegnazione, si da la possibilità al contribuente che aderisce al regime agevolativo di poter optare tra le seguenti scelte:

  • il valore di mercato così come definito dall’art. 9, D.P.R. 917/1986;
  • il valore catastale utilizzando i moltiplicatori ex art. 52, D.P.R. 131/1986.

Optando per il valore catastale si dovrà procedere a porre in essere il seguente calcolo:

  • rendita catastale + il 5% della rendita catastale * i moltiplicatori ex art. 52, D.P.R. 131/1986.

Per i terreni la rendita catastale andrà rivalutata del 25%.

Versamento imposta sostitutiva – In tutti i casi analizzati il versamento dell’imposta sostitutiva andrà effettuato:

  • il 60% entro il 30.11.2016;
  • il restante 40% entro il 30.06.2017.
Autore: redazione fiscal focus

Contratto di locazione: l’APE può essere “autodichiarato”

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Premessa – L’ A.P.E. (Attestato di Prestazione Energetica) è un documento che descrive le caratteristiche energetiche di un edificio, di un abitazione o di un appartamento.

Al momento della vendita (e quindi dell’acquisto) o della locazione di un immobile, oltre ad essere obbligatorio, è utile per informare sul consumo energetico e aumentare il valore degli edifici ad alto risparmio energetico.

È redatto da un “soggetto accreditato” chiamato certificatore energetico che solitamente è un tecnico abilitato alla progettazione di edifici e impianti come l’architetto, l’ingegnere e il geometra (la formazione, la supervisione e l’accreditamento dei professionisti sono gestiti dalle Regioni con apposite leggi locali).

L’A.P.E.in caso di compravendita o locazione – Dunque, prima della stipula di un contratto di compravendita o di locazione avente ad oggetto un immobile, il proprietario deve obbligatoriamente dotarsi dell’A.P.E.

Infatti, l’art. 6, comma 2, primo periodo, del D.lgs. n. 192/2005 (così come sostituito dall’art. 6 della legge n. 90 del 2013) espressamente dispone che “nel caso di vendita, di trasferimento di immobili a titolo gratuito o di nuova locazione di edifici o unità immobiliari, ove l’edificio o l’unità non ne sia già dotato, il proprietario è tenuto a produrre l’attestato di prestazione energetica”.

Il successivo secondo periodo dello stesso comma 2 dispone altresì che “in tutti i casi, il proprietario deve rendere disponibile l’attestato di prestazione energetica al potenziale acquirente o al nuovo locatario all’avvio delle rispettive trattative e consegnarlo alla fine delle medesime; in caso di vendita o locazione di un edificio prima della sua costruzione, il venditore o locatario fornisce evidenza della futura prestazione energetica dell’edificio e produce l’attestato di prestazione energetica entro quindici giorni dalla richiesta di rilascio del certificato di agibilità”.

Dunque, si evince, che l’A.P.E. deve essere esistente sin dall’inizio della trattativa e il venditore o locatore deve consegnarlo all’altra parte al momento della definitiva stipula del relativo contratto di vendita o di locazione.

L’obbligo di allegare l’A.P.E. al contratto – Il successivo comma 3 del novellato art. 6 D.lgs. n. 192/2005 dispone che “nei contratti di compravendita immobiliare, negli atti di trasferimento di immobili a titolo oneroso e nei nuovi contratti di locazione di edifici o di singole unità immobiliari soggetti a registrazione è inserita apposita clausola con la quale l’acquirente o il conduttore dichiarano di aver ricevuto le informazioni e la documentazione, comprensiva dell’attestato, in ordine alla attestazione della prestazione energetica degli edifici; copia dell’attestato di prestazione energetica deve essere altresì allegata al contratto, tranne che nei casi di locazione di singole unità immobiliari”.

Dunque, non vi è più previsto l’obbligo di allegare l’ A.P.E. ai contratti di cessione a titolo gratuito di immobili e ai contratti di locazione di singole unità abitative ed è stato previsto, invece, l’obbligo di inserire nel contratto di locazione (o di cessione dell’immobile a titolo gratuito)una clausola con la quale “il conduttore dichiara di aver ricevuto le informazioni e la documentazione, comprensiva dell’attestato, in ordine alla attestazione della prestazione energetica degli edifici”.

Dunque, l’obbligo della predetta clausola può considerarsi come una vera e propria “autocertificazione” con cui il locatore e conduttore dichiarano di essere in possesso del certificato A.P.E.

L’obbligo di allegare la certificazione resta fermo, invece, per i contratti di nuova locazione aventi per oggetto interi edifici e non singole unità immobiliari.

Riepilogando, vi è obbligo di allegare l’A.P.E. ai contratti di compravendita (aventi ad oggetto sia interi edifici che singole unità abitative) e ai contratti di locazione (o trasferimento a titolo gratuito) aventi ad oggetto solo interi edifici. Non vi è, inveve, obbligo di allegare A.P.E. ai contratti di locazione (o trasferimento a titolo gratuito) aventi ad oggetto singole unità immobiliari.

Il regime sanzionatorio – Ai sensi della nuova disciplina varata dal DL 23 dicembre 2013, n. 145, sono previste esclusivamente sanzioni amministrative (non è più prevista la sanzione della nullità del contratto). Dall’1 ottobre 2015, il regime sanzionatorio prevede le seguenti sanzioni:

  • in caso di violazione dell’obbligo di dotare di un attestato di prestazione energetica gli edifici di nuova costruzione e quelli sottoposti a ristrutturazioni importanti, il costruttore o il proprietario è punito con la sanzione amministrativa non inferiore a 3.000 euro e non superiore a 18.000 euro;
  • In caso di violazione dell’obbligo di dotare di un attestato di prestazione energetica gli edifici o le unità immobiliari nel caso di vendita, il proprietario è punito con la sanzione amministrativa non inferiore a 3.000 euro e non superiore a 18.000 euro;
  • in caso di violazione dell’obbligo di dotare di un attestato di prestazione energetica gli edifici o le unità immobiliari nel caso di nuovo contratto di locazione, il proprietario è punito con la sanzione amministrativa non inferiore a 300 euro e non superiore a 1.800 euro;
  • in caso di omessa dichiarazione o allegazione, se dovuta, le parti sono soggette al pagamento, in solido e in parti uguali, della sanzione amministrativa pecuniaria da euro 3.000 a euro 18.000; la sanzione è da euro 1.000 a euro 4.000 per i contratti di locazione di singole unità immobiliari e, se la durata della locazione non eccede i tre anni, essa è ridotta alla metà. Il pagamento della sanzione amministrativa non esenta comunque dall’obbligo di presentare la dichiarazione o la copia dell’attestato di prestazione energetica entro 45 giorni.
Autore: Pasquale Pirone

Ddl Stabilità 2016: confermato lo sgravio contributivo al 40%

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Il nuovo sgravio contributivo varrà complessivamente 6.500 euro, anziché 17.680 euro attualmente previsti

Sarà uno sgravio contributivo in formato mini per i datori di lavoro che intendono assumere nuovo personale nell’anno 2016 (1° gennaio 2016 – 31 dicembre 2016). Infatti il disegno di legge di Stabilità 2016, che sta proseguendo il suo iter di conversione in legge, prevede una riduzione al 40% dell’agevolazione massima contributiva annua e una diminuzione della durata dell’incentivo, che passa da 36 mesi a 24 mesi.

Dunque, il maxiemandamento approvato dall’Aula del Senato venerdì scorso lascia indenne il testo originario del Ddl; pertanto, l’importo massimo agevolabile passa dagli attuali 8.060 euro a 3.250 euro annui.

Conti alla mano, nell’arco dei 24 mesi lo sgravio vale complessivamente 6.500 euro (anziché 24.180 euro se l’assunzione avvenisse entro fino anno) lasciando così per strada 17.680 euro. Data la convenienza, è facile intuire che entro il 31 dicembre 2015 ci sarà una “corsa allo sgravio contributivo” che farà lievitare i contratti a tempo indeterminato.

Non trovano, per ora, accoglimento le ulteriori proposte di modica che miravano ad incrementare lo sgravio, specie nel Mezzogiorno. Il testo passa ora alla Camera per essere ulteriormente discussa e approfondita.

Sgravio contributivo 2016 – Oltre alle novità appena illustrate, il disegno di legge di Stabilità 2016 non presenta ulteriori e sostanziali novità rispetto alla Legge di Stabilità 2015 (art. 1 della L. n. 190/2014). Quindi, il codice autorizzativo “6Y” potrà essere richiesto esclusivamente per le nuove assunzioni a tempo indeterminato dei datori di lavoro del settore privato, anche agricoli (con modalità, condizioni e misure specifiche). Mentre restano esclusi i contratti di lavoro domestico e i contratti di apprendistato.

Quanto alle condizioni, l’agevolazione spetta a condizione che nei sei mesi precedenti l’assunzione, il lavoratore non sia stato occupato, presso qualsiasi datore di lavoro, con contratto a tempo indeterminato. Sul punto, il Legislatore ha inteso escludere l’applicazione dell’esonero medesimo laddove, nell’arco dei tre mesi antecedenti la data di entrata in vigore della Legge di stabilità 2016 (“ottobre – dicembre 2015”), il lavoratore assunto abbia avuto rapporti di lavoro a tempo indeterminato con il datore di lavoro richiedente l’incentivo ovvero con società da questi controllate o a questi collegate ai sensi dell’art. 2359 c.c., nonché facenti capo, ancorché per interposta persona, al datore di lavoro medesimo.

Restano, dunque, confermate le intenzioni del Legislatore di voler “promuovere forme di occupazione stabile […]” agevolando, di conseguenza, anche quei casi in cui esiste un diritto di precedenza spettante al lavoratore (Circolare INPS n. 17/2015).

Infine, particolarmente interessante risulta il caso del campo di appalto nel quale operano le c.d. clausole sociali; in tal caso, considerato che il datore di lavoro subentrante assume i lavoratori in precedenza impiegati dall’appaltatore uscente, l’appaltante potrà godere esclusivamente dello sgravio contributivo restante e non dell’intero incentivo. In altri termini, bisogna tenere conto di quanto già goduto dal precedente datore di lavoro, poiché la parte fruita non può essere nuovamente oggetto di agevolazione.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

La congruità agli Studi di settore blocca l’induttivo coi parametri

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Il dato di congruità dei ricavi o compensi dichiarati dal contribuente, rispetto allo studio di settore approvato con riferimento all’attività svolta, rende illegittimo l’accertamento basato sull’applicazione dei parametri.

È quanto ha sostenuto la Sezione Tributaria della Cassazione con la sentenza 23554 del 18 novembre 2015.

I giudici tributari del Palazzaccio hanno accolto il ricorso proposto da un contribuente esercente attività di trasporto merci su strada.

All’autotrasportatore, in applicazione dei parametri di cui al D.P.C.M. 29/01/1996, l’Ufficio finanziario aveva contestato maggiori ricavi, con conseguente rideterminazione di quanto dovuto a fini IRPEF e contributo SSN, nonché IVA per l’anno d’imposta 1996.

La rettifica del reddito d’impresa sulla base dei presunti maggiori ricavi è stata avvalorata dalla CTR del Lazio perché, a suo parere, il contribuente, né in sede di contraddittorio endoprocedimentale né in sede processuale, aveva fornito elementi sufficienti a screditare l’operato dell’Ufficio finanziario.

Ebbene, ad avviso della Suprema Corte il contribuente ha lamentato a buon diritto la violazione e falsa applicazione di legge laddove la CTR, nonostante le specifiche doglianze mosse sin dal primo grado di giudizio, non ha ritenuto, a fronte della pacifica congruità dell’attività agli studi di settore, “precluso o comunque superato” l’accertamento induttivo dell’Ufficio.

Il contribuente aveva evidenziato di essere congruo secondo i risultati degli studi di settore e tale circostanza non è stata smentita dall’Ufficio. In proposito gli ermellini hanno osservato che “il risultato di congruità emergente dall’applicazione dello studio di settore, stante la natura procedimentale di quest’ultimo, non può essere escluso ove applicato ad un anno anteriore, tanto più, come precisato da Cass. 8311/2013, a fronte di situazioni ordinarie, non essendo emerse situazioni contingenti, cioè correlate solo a determinate annualità d’imposta o eccezionali, cioè ad esempio di tipo economico”. E allora, secondo la S.C.: “Il dato di congruità dei ricavi o compensi dichiarati dal contribuente, rispetto allo studio di settore approvato con riferimento all’attività svolta, dato questo non contestato dall’Agenzia delle Entrate (come accertato in sentenza dalla CTR), valeva pertanto a rendere illegittimo l’accertamento basato sull’applicazione dei parametri”.

La Cassazione ha quindi deciso la causa nel merito, accogliendo il ricorso introduttivo del contribuente. Il fisco dovrà pagare le spese processuali del grado.

Autore: redazione fiscal focus

Sì alle ritenute per la concessione di locali uso foresteria

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Tributaria, sentenza depositata il 25 novembre 2015

La concessione a titolo gratuito di un locale a uso foresteria concorre a formare il reddito da lavoro dipendente come “fringe benefits” – con conseguente necessità di operare le ritenute alla fonte – se la società non dimostra che il dipendente lo utilizza solo saltuariamente, ossia in occasione delle trasferte di lavoro.

È quanto emerge dalla sentenza n. 24007/15 della Sezione Tributaria della Cassazione.

La controversia ha riguardato un avviso di accertamento con cui l’Ufficio finanziario ha contestato a una società le omesse ritenute alla fonte – per circa 4mila euro – su pretesi compensi in natura e, segnatamente, per la concessione a titolo gratuito di locali uso foresteria in favore di un dipendente che rivestiva, nel periodo considerato, la carica di amministratore e legale rappresentate.

La contribuente società ha spiegato che l’immobile oggetto di controversia si trovava nel Comune di ubicazione della sede legale/amministrativa, mentre l’amministratore risiedeva in un’altra città; quindi lo stesso immobile era utilizzato dall’amministratore e legale rappresentate non in modo permanente, ma unicamente quando era necessaria la sua partecipazione alle riunioni o assemblee societarie.

Ebbene, le suddette argomentazioni difensive non hanno fatto breccia né presso i giudici di merito né presso la Suprema Corte, la quale infatti ha reso definitivo l’accertamento oggetto di controversia.

Nel caso di specie, la ripresa a tassazione per omesse ritenute alla fonte su compensi in natura (c.d. fringe benefits) si è fondata sul disposto dell’art. 48, comma 4, lett. c), del vecchio TUIR. Dal primo comma di detta disposizione emerge chiaramente l’esistenza di un principio di (sia pure tendenziale) onnicomprensiva riconducibilità alla sfera reddituale delle erogazioni a qualsiasi titolo corrisposte al dipendente, stante l’esplicito riferimento a “tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro”, cui nel successivo quarto comma, lett. c), segue, in particolare, il riferimento appunto all’ipotesi di “fabbricati concessi in locazione, in uso o in comodato”.

E allora, secondo la Suprema Corte, “contrariamente a quanto opinato dal ricorrente, spetta non già all’amministrazione finanziaria, bensì al contribuente, l’onere di provare che, in concreto, le specifiche modalità di utilizzo a titolo gratuito di un immobile, in connessione al rapporto di lavoro, comportino una eccezione a quella previsione normativa generale”.

La CTR, nel caso in esame, ha correttamente fondato la decisione impugnata sulla mancanza di prova in ordine al concreto utilizzo dell’appartamento tenuto a disposizione dell’amministratore nella città di ubicazione della sede legale della società. Precisamente è mancata la prova in merito alla “specifica frequenza dell’utilizzo, per documentate necessità di trasferta del dipendente, nel periodo d’imposta in esame”, le quali sono rimaste in atti come meramente assertive e del tutto imprecisate”.

Insomma, nulla da fare per la società ricorrente, cui non resta che pagare le spese del giudizio di legittimità.

Autore: redazione fiscal focus

Fattura elettronica: niente obbligo per i medici convenzionati

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

R.M. 98/E/2015

Con la Risoluzione 98/E del 25.11.2015, l’Amministrazione Finanziaria, in risposta alla consulenza giuridica chiesta dalla Federazione Italiana dei Medici di Medicina Generale, ha chiarito che il cedolino emesso dalle Aziende Sanitarie Locali in favore dei medici di medicina generale operanti in regime di convenzione con il SSN, nel rispetto di determinati requisiti, sia sostitutivo degli obblighi di fatturazione, anche elettronica.

Nel documento di prassi in questione la situazione prospettata è la seguente: i medici di medicina generale operanti in regime di convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale – attività che si colloca in una posizione intermedia fra quella professionale e quella parasubordinata, causa i vincoli imposti dalla stessa convenzione con il SSN (di orario, retribuzione, presenza, ecc.) – ricevono mensilmente da parte dell’Azienda Sanitaria competente per territorio un cedolino, nel quale sono riepilogate tutte le voci che entrano a far parte della propria remunerazione mensile e da cui emerge il netto dovuto per l’attività prestata.

Nel contesto descritto si chiede la necessità per i suddetti medici di emettere fattura elettronica trattandosi di committente ente pubblico.

In risposta alla richiesta effettuata, l’Amministrazione Finanziaria ha dapprima chiarito che laddove l’obbligo di emettere una fattura non sussisteva prima del D.M. n. 55 del 2013, lo stesso non è venuto dopo l’introduzione della fattura elettronica.

In altre parole, l’introduzione della fattura elettronica non ha creato una categoria sostanziale nuova o diversa dalla fattura “ordinaria”, con la conseguenza che, pur nel limite della compatibilità con gli elementi che le caratterizzano, continuano a trovare applicazione tutti i chiarimenti già in precedenza emanati con riferimento generale alla fatturazione, nonché le deroghe previste da specifiche disposizioni normative di settore.

Per tale ragione, per individuare la necessità di emettere fattura elettronica è necessario rifarsi ai criteri generali in tema di fattura.

A tal proposito, evidenzia l’Agenzia, l’articolo 2 del D.M. 31 ottobre 1974, dispone che “Nei rapporti tra gli esercenti la professione sanitaria e gli enti mutualistici per prestazioni medico-sanitarie generiche e specialistiche, il foglio di liquidazione dei corrispettivi compilato dai detti enti tiene luogo della fattura di cui all’art. 21 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633. Tale documento deve contenere gli elementi e i dati indicati nel secondo comma del citato art. 21 ed essere emesso in triplice esemplare; il primo deve essere consegnato o spedito al professionista unitamente ai corrispettivi liquidati, il secondo consegnato o spedito all’ufficio provinciale della imposta sul valore aggiunto competente ai sensi dell’art. 40 del citato decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, il terzo conservato presso l’ente».

Dunque, il cedolino emesso dalle Aziende Sanitarie Locali è sostitutivo della fattura, a patto che questo contenga gli stessi elementi della fattura come indicati dall’art. 21, e sia emesso in triplice esemplare.

Nel rispetto di tali condizioni, il cedolino emesso dalle Aziende Sanitarie Locali compilato dalle Aziende Sanitarie Locali, è sostitutivo degli obblighi di fatturazione, e trattandosi di committenti enti pubblici, degli obblighi di fatturazione elettronica.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Credito per investimenti in ricerca e sviluppo

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Con la Risoluzione 97 le Entrate istituiscono il codice tributo

Premessa – Un nuovo codice tributo per fruire tramite F24, a partire dal prossimo anno, del bonus spettante alle imprese che sostengono costi per quelle attività negli anni dal 2015 al 2019.

Credito imposta – Gli imprenditori che investono in attività di ricerca e sviluppo, indipendentemente dal settore economico in cui operano e dal regime contabile adottato, possono usufruire di un credito d’imposta, introdotto inizialmente dall’articolo 3 del Dl 145/2013, poi sostituito integralmente dall’articolo 1, comma 35, della legge 190/2014 (Stabilità 2015).

Beneficiari – La nuova formulazione dell’articolo ha modificato la misura, la decorrenza e la platea dei beneficiari dell’agevolazione, prevedendo l’attribuzione del bonus in favore di tutte le imprese che effettuano investimenti dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2014 fino a quello in corso al 31 dicembre 2019.

Modalità applicative – Il decreto interministeriale del 27 maggio 2015 ha definito le modalità applicative del credito d’imposta. In particolare, l’articolo 6 stabilisce che l’importo del beneficio concesso venga indicato nella dichiarazione dei redditi riguardante il periodo d’imposta nel corso del quale sono state sostenute le spese e che l’utilizzo del credito debba avvenire, esclusivamente in compensazione, a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello di sostenimento dei costi.

Codice tributo – Per consentire la fruizione dell’incentivo fiscale dall’inizio del prossimo anno, la risoluzione 97/E del 25 novembre 2015 istituisce il codice tributo “6857”, che sarà dunque operativo dal 1° gennaio 2016.

Compilazione – Andrà riportato nella sezione “Erario” del modello F24, in corrispondenza delle somme indicate nella colonna “importi a credito compensati” ovvero, nei casi in cui il contribuente debba riversare l’agevolazione, nella colonna “importi a debito versati”. Nel campo “anno di riferimento” andrà riportato l’anno in cui è stato sostenuto il costo.

Autore: redazione fiscal focus

Forfettari e minimi: il calcolo dell’acconto

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Premessa – Il contribuente che per effetto delle norme transitorie ha mantenuto il regime dei minimi di cui alla Legge 244/2007 (art. 1 comma 117) adottato fin già dal 2014 anche per il periodo d’imposta 2015 deve calcolare l’acconto con le regole previste per tale regime. In pratica l’acconto va calcolato adottando il metodo storico, nella misura del 100% di quanto dovuto a titolo di imposta complessiva per il 2014. In particolare si dovrà fare riferimento al rigo LM14 di Unico 2015.

Regime dei minimi – I soggetti che nel 2014 hanno applicato il regime dei minimi possono determinare l’acconto 2015 sia con il metodo storico che con il metodo previsionale. Con riferimento agli acconti occorre evidenziare quanto segue:

  • il regime dei minimi non prevede l’assoggettamento ad IRAP e quindi i soggetti in esame non sono tenuti al versamento del relativo acconto;
  • va verificata la necessità di versare l’acconto IRPEF 2015 qualora dal Mod. UNICO 2015 risulti, oltre all’imposta sostitutiva, anche un’IRPEF dovuta (derivante dal possesso di altri redditi di natura diversa rispetto a quelli conseguiti in regime dei minimi, ordinariamente assoggettati a tassazione).

Fuoriuscita minimi – I contribuenti che fuoriescono dal regime dei minimi (ad esempio, a partire dal 1° gennaio 2015) e adottano il regime ordinario, determineranno il reddito 2015 nei modi ordinari assoggettando lo stesso ad IRPEF. Considerando il meccanismo di scomputo previsto nel quadro RN, Mod. UNICO PF, i soggetti fuoriusciti dal regime versano l’acconto dell’imposta sostitutiva (ancorché per lo stesso periodo siano soggetti all’IRPEF) che successivamente verrà fatta “confluire” nell’IRPEF. In sostanza, tali contribuenti versano l’acconto 2015 utilizzando i codici tributo previsti per l’imposta sostitutiva e dovranno indicare quanto versato a tale titolo a rigo RN38, colonna 4, Mod. UNICO 2016 PF.

Regime forfettario – I contribuenti che, a partire dal 01.01.2015, hanno optato, o sono naturalmente transitati per il regime forfettario di cui all’articolo 1, commi da 54 a 89, della legge 190/2014, non devono per quest’anno versare alcun acconto con riferimento all’imposta sostitutiva dovuta con aliquota del 15%. Il contribuente che proviene dal regime ordinario, transitando ad un regime con imposta sostitutiva, può valutare l’ipotesi di una determinazione dell’acconto IRPEF in via previsionale, non considerando il reddito d’impresa/lavoro autonomo.

Calcolo previsionale – Il contribuente che, nel 2015, è transitato per obbligo o per opzione nel regime forfettario provenendo da un regime ordinario dovrà valutate attentamente il da farsi. Sul punto va detto che manca nel regime forfettario di cui alla legge di Stabilità 2015 una disposizione analoga a quella prevista all’abrogato articolo 1, comma 117, della legge 244/2007 che obbligava i “minimi” a considerare anche in sede di calcolo previsionale le regole ordinarie e non quelle del regime agevolato. Pertanto, in assenza di indicazioni previste in tal senso, il contribuente in questi casi potrebbe validamente procedere a rideterminare l’acconto non su basi storiche ma su quelle previsionali arrivando per questi versi anche ad azzerare quanto dovuto.

Inizio attività forfettario – Per chi ha iniziato l’attività direttamente nel nuovo regime forfettario non ci sono problemi di sorta poiché; la norma istitutiva del nuovo sistema contabile si limita a stabilire che il pagamento dell’imposta sostitutiva (del 15%) va effettuato negli stessi termini e con le modalità previste per il versamento Irpef. Secondo il metodo storico il contribuente non è tenuto a versare acconti relativi all’imposta sostitutiva.

Autore: Devis Nucibella

Reato di omessa dichiarazione. L’incarico al commercialista non evita la condanna

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Penale, sentenza depositata il 24 novembre 2015

Affidare al commercialista il compito di predisporre e presentare la dichiarazione annuale non esonera l’imprenditore dalla responsabilità penale per il reato di omessa dichiarazione. Non solo. Laddove si proceda per detto reato, il giudice può ritenere superata la soglia monetaria fissata dalla norma incriminatrice sulla base dell’accertamento induttivo dell’imponibile compiuto dagli organi dell’amministrazione finanziaria.

È quanto emerge dalla sentenza n. 46500/15 della Terza Sezione Penale della Cassazione.

I giudici penali del Palazzaccio hanno esaminato il ricorso di un legale rappresentate di società riconosciuto responsabile del reato previsto dall’art. 5 del D.Lgs. n. 74/2000 in relazione a due annualità: il 2006 e il 2007. Va precisato che per quanto riguarda la prima annualità, gli ermellini hanno rilevato l’estinzione del reato per prescrizione, con conseguentemente eliminazione della relativa pena. Il giudizio di responsabilità della Corte d’appello è invece stato confermato per l’anno 2007.

Nel respingere le numerose censure operate dai difensori dell’imputato, la Suprema Corte ha ribadito l’orientamento secondo cui, in tema di reati tributari, l’accertamento induttivo compiuto dagli uffici finanziari può rappresentare un valido elemento di indagine per stabilire, in sede penale, se vi sia stata evasione e se questa abbia raggiunto le soglie di punibilità previste dalla legge, a condizione che il giudice non si limiti a constatarne l’esistenza e non faccia apodittico richiamo agli elementi in essi evidenziati, ma proceda a specifica autonoma valutazione degli elementi nello stesso descritti comparandoli con quelli eventualmente acquisiti “aliunde” (cfr. Cass. n. 1904/99, n. 40992/13, fra le altre).

Di questi principi, secondo gli ermellini, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione assumendo – si legge – “che a) l’accertamento era fondato su dati obiettivi, derivando dalla sommatoria degli importi portati dalla fatture emesse dalla società e non contabilizzate; b) non erano state fornite dall’imputato fatture passive; c) era ininfluente la presenza di eventuali operazioni esenti iva, dal momento che la condotta omissiva in contestazione riguardava esclusivamente l’imposta diretta sul reddito (IRES); d) la base imponibile determinata in sede di accertamento era stata accettata dallo stesso imputato che aveva provveduto al pagamento della imposte dovute; e) la soglia di punibilità risultava pertanto ampiamente superata”.

Quanto all’elemento soggettivo del reato, la difesa ha sostenuto che la prova del dolo di evasione, richiesto dalla norma, non può essere fatto discendere da un comportamento colpevole come quello di non aver verificato la trasmissione telematica della dichiarazione da parte del professionista incaricato.

Ebbene, gli ermellini hanno ribattuto che l’affidamento a un professionista dell’incarico di predisporre e preparare la dichiarazione annuale dei redditi non esonera il soggetto obbligato dalla responsabilità penale per il reato di cui all’art. 5 del D.Lgs. n. 74, “in quanto, trattandosi di reato omissivo proprio, la norma tributaria considera come personale e non delegabile il relativo dovere”. Ciò vale a maggior ragione in un caso come quello di specie in cui è rimasta indimostrata la negligenza del professionista incaricato e in cui è stata ritenuta irrilevante la circostanza della presentazione delle dichiarazioni per gli anni precedenti perché, come osservato dal giudice di merito, “il dolo specifico richiesto dalla norma, oltre che dalla mancata presentazione della denuncia, era desumibile anche dalla mancata esibizione delle fatture emesse dalla società e dall’effettuazione del pagamento delle imposte solo dopo la contestazione”.

Autore: redazione fiscal focus

Legge di Stabilità 2016: taglio IRES rinviato al 2017

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Il taglio IRES è rinviato al 2017. E’ quanto affermato dal primo Ministro Matteo Renzi nella Sala degli Orazi e Curiazi dei Musei Capitolini a Roma durante l’evento “Italia, Europa: una risposta al terrore”.

In effetti il rinvio era già contenuto nel DDL di Stabilità 2016, prevedendo una riduzione “anticipata” al 2016 a condizione dell’ottenimento del via libera quasi vincolante dei competenti organi Europei. Ora invece, a seguito dell’allarme terrorismo, la priorità è la sicurezza.

Taglio IRES: 2016 o 2017? – Per quanto riguarda il taglio dell’IRES, nel disegno di legge veniva rinviata al 2017 il taglio dal 27,5% al 24% dell’IRES, salvo anticipare, come precedentemente accennato, la riduzione al 2016 condizionata all’ottenimento di maggiore flessibilità nei conti da parte dell’Unione Europea.

In particolare sarebbe stato possibile anticipare il taglio IRES al 2016 se la Commissione Ue avesse riconosciuto lo 0,2% di flessibilità sul deficit, circa 3,3 miliardi, per l’evento migratorio eccezionale. Come sottolineato dal Ministro Padoan nella lettera inviata all’UE “il costo degli eventi eccezionali migratori è pari a 3,1 miliardi, 0,2 del Pil. E ove questa clausola sia riconosciuta, noi anticiperemo al 2016 misure che abbiamo già previsto per il 2017, segnatamente l’Ires, segnatamente i denari per ulteriori investimenti sull’edilizia scolastica. Si tratta, in attesa di Bruxelles, di un’approvazione condizionata”.

La risposta della UE non è ancora arrivata in via definitiva, ma tutto faceva presagire l’esito positivo della richiesta italiana. Nonostante ciò si è deciso di non anticipare la riduzione del taglio IRES al 2016. Nessuna incidenza dell’aumento delle risorse per la sicurezza, che non confluiscono nei calcoli del rapporto deficit/pil.

Bonus 80 euro esteso alle forze dell’ordine – Altra importante novità annunciata dal Premier è l’estensione del bonus 80 euro a tutte le donne e gli uomini che lavorano con le forze dell’ordine a cominciare da chi sta sulla strada.

Autore: redazione fiscal focus

Limite di spesa più alto per il bonus mobili

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Detrazione per chi acquista l’abitazione aumentata a 16.000 €

Premessa – La commissione bilancio del Senato ha modificato il testo del disegno di legge di stabilità 2016 alzando da 10.000 a 16.000 la spesa massima su cui si calcola la detrazione Irpef del 50% per l’acquisto di mobili da parte di “giovani coppie”.

Bonus mobili – Come noto l’articolo 16 co. 2 del D.L. n.63/2013 (più volte prorogato) ha introdotto il “bonus mobili”, che consiste nel fatto che i contribuenti che fruiscono della detrazione per interventi di recupero del patrimonio edilizio possono fruire di un’ulteriore riduzione d’imposta per l’acquisto di mobili e di grandi elettrodomestici di classe energetica non inferiore alla A+ (A per i forni), per le apparecchiature per le quali sia prevista l’etichetta energetica, finalizzati all’arredo di immobili oggetto di ristrutturazione. Tale agevolazione prorogata da ultimo dalla legge di stabilità 2015 fino al 31.12.2015 risulta oggetto di ulteriore proroga fino al 31.12.2016 sulla base di quanto previsto dal disegno di legge di stabilità 2016.

Agevolazione per giovani coppie – Ma la novità sta nel fatto che al “bonus Mobili” tradizionale si aggiunge un nuovo incentivo fiscale, esclusivamente per giovani coppie: una detrazione Irpef del 50% per l’acquisto di mobili (non per i grandi elettrodomestici) ad arredo dell’unità immobiliare, acquistata dagli stessi e “da adibire ad abitazione principale”. Il limite delle spese agevolabili è di 16.000 euro, quindi, la detrazione Irpef massima sarà di 8.000 euro da ripartire in 10 anni.

Scopo – Obiettivo, incentivare il mercato delle compravendite immobiliari dopo quello delle ristrutturazioni edilizie. Per la prima volta questo legame stretto fra le due agevolazioni (lavori e mobili) sarebbe superato e subentrerebbe invece un’altra condizione necessaria per ottenere lo sgravio: l’acquisto di una casa (abitazione principale).

Copertura – Il mancato gettito Irpef dovuto al raddoppio del bonus mobili sarà coperto dal Fondo per interventi strutturali di politica economica. Questo fondo è stato costituito nel 2005 presso il Mef con una dote di 2,2 miliardi di entrate stimate dalla sanatoria edilizia, ora scesa al minimo di 30 milioni (annualità 2016). Per la copertura necessaria al raddoppio del bonus l’emendamento attinge al rifinanziamento del Fondo – per 300 milioni l’anno a partire dal 2016 – previsto dallo stesso ddl Stabilità.

Ambito soggettivo – L’agevolazione spetta alle giovani coppie che costituiscono “un nucleo familiare composto da coniugi”, prima del pagamento della spesa (è sufficiente essere sposati dal giorno prima) oppure conviventi more uxorio che abbiano costituto un nucleo da almeno tre anni. In entrambe le ipotesi uno dei due componenti non deve aver superato i 35 anni.

Ambito temporale – L’acquisto dei mobili deve avvenire dal 1.1.2016 al 31.12.2016 e trattandosi di persone fisiche sarà rilevante il principio di cassa. Non è invece chiaro il momento in cui la coppia deve essere proprietaria dell’immobile, dal testo del disegno di legge non è previsto espressamente che la casa venga acquistata nello stesso periodo d’imposta. Ancora meno chiaro risulta il termine entro cui l’immobile deve essere adibito ad abitazione principale.

Autore: redazione fiscal focus

Perdite e riflessi sull’avviamento

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Il valore di avviamento non può essere aprioristicamente escluso, né dall’esistenza né dall’ammontare delle perdite intervenute negli anni precedenti e in quello di cessione. È ben possibile che un’impresa, benché in perdita, possieda un avviamento consistente.

È quanto emerge dalla sentenza n. 22506/2015 della Sezione Tributaria della Cassazione.

La controversia è originata da un avviso di accertamento che rettificava il valore della cessione di un complesso aziendale con rivalutazione in oltre 21 mld delle vecchie lire della voce “avviamento – marchio – testata”, che le parti avevano invece dichiarato pari a una lira (valore simbolico).

A intraprendere il giudizio di cassazione è stato l’Ufficio finanziario dopo che la CTC, a conferma del verdetto della CTR, aveva sostenuto l’illegittimità della rettifica nella misura in cui non aveva tenuto conto della persistente inattitudine dell’azienda a produrre reddito, testimoniata dai risultati economici negativi anteriori e successivi, tali da far ritenere corretta la riduzione dell’avviamento a valore simbolico, praticamente corrispondente al suo annullamento.

Ebbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate ritenendo fondate le censureinvolgenti, rispettivamente, la violazione e falsa applicazione di legge (artt. 48 D.P.R. n. 634/72; 51 D.P.R. n. 131/86) e l’insufficiente motivazione in punto di determinazione del valore di avviamento.

La CTC ha desunto dal mero fatto delle perdite intervenute negli anni precedenti e in quello di cessione la “persistente inattitudine dell’azienda alla produzione di un reddito”, quindi l’esclusione di un valore di avviamento superiore a quello simbolico dichiarato dalle parti (1 £).

Ad avviso della CTC, quindi, la circostanza delle perdite intervenute negli anni precedenti nonpoteva comportare, di per sé, un valore positivo dell’avviamento, stante la persistenza delle stesse anche dopo la vendita. Tuttavia una simile affermazione, secondo la S.C., rappresenta un errore giuridico, in quanto, costituendo una qualità dell’azienda, l’avviamento possiede un valore che si somma a quello degli altri beni che compongono l’azienda stessa e tale operazione, anche considerando il testo della norma applicata, deve precedere la detrazione delle passività. Sicché il valore di avviamento non può essere aprioristicamente escluso, né dall’esistenza né dall’ammontare delle perdite.

In altre parole, per la S.C., tanto l’art. 51 del D.P.R. n. 131, quanto la previgente norma del D.P.R. n. 634 del 1972 sono “nel senso che per gli atti che hanno per oggetto aziende o diritti reali rileva il valore complessivo dei beni che compongono l’azienda, compreso l’avviamento, al netto delle passività. Il che traduce un dato coerente con la natura stessa dell’avviamento, che è un valore patrimoniale e che, come tale, non configura un valore dell’attività d’impresa ma dell’azienda (obiettivamente considerata); un valore che non necessariamente risente dell’esito (in termini di utili o di perdite) dell’attività d’impresa. Consegue che la circostanza che un’impresa abbia prodotto delle perdite negli anni precedenti alla cessione dell’azienda, pur potendo esser rilevante e meritevole di attenta considerazione ai fini della determinazione dell’avviamento commerciale, non esaurisce (non può esaurire) l’oggetto dell’indagine perché è ben possibile che l’impresa sia in perdita per ragioni che nulla hanno a che fare con l’avviamento aziendale (l’insufficiente liquidità, il peso degli oneri finanziari, le consistenza di perdite su crediti e così via), sebbene l’azienda – correttamente gestita – persista nel possesso di un considerevole valore di avviamento”.

Dunque il ricorso del Fisco è stato ritenuto fondato circa la questione della determinazione dell’avviamento; il che ha determinato la cassazione con rinvio dell’impugnata sentenza.

Autore: redazione fiscal focus

Rivalutazione beni d’impresa: le problematiche non risolte

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Si potrebbe finalmente dare una svolta applicativa alla possibilità di rivalutazione

Il disegno di legge di Stabilità 2016 prevede la riapertura dei termini per la rivalutazione dei beni d’impresa; si fa riferimento ai beni risultanti nel bilancio riferito al periodo d’imposta in corso alla data del 31 dicembre 2014 che possono essere oggetto di rivalutazione nel 2015.

La legge di stabilità 2016 quindi riprende la possibilità di rivalutare i beni d’impresa.

Possono ricorrere alla rivalutazione i soggetti indicati nell’art.73 del TUIR, che non adottano i principi contabili internazionali ai fini della redazione del bilancio; i suddetti soggetti possono, in deroga a quanto previsto dall’art. 2426 c.c., rivalutare i beni d’impresa, materiali ed immateriali, e le partecipazioni in società controllate e collegate ai sensi dell’art. 2359 c.c. costituenti immobilizzazioni, ad eccezione degli immobili alla cui produzione o scambio è diretta l’attività d’impresa (c.d. immobili merce), risultanti dal bilancio d’esercizio in corso al 31 dicembre 2014.

Il maggior valore attribuito ai beni rivalutati si considera riconosciuto ai fini IRES/IRPEF ed IRAP e delle relative addizionale a decorrere dal terzo esercizio successivo a quello con riferimento al quale la rivalutazione è stata effettuata, mediante il versamento di un’imposta sostitutiva:

  • del 16% per i beni ammortizzabili
  • del 12% per i beni non ammortizzabili.

In altri termini, il riconoscimento dei maggiori valori si ha a partire dal 2018.

Analisi criticità – Analizzando con un approccio critico la riproposizione della rivalutazionenella Legge di Stabilità 2016 si deve comunque mettere in risalto come nel corso degli anni, sia stata molto limitata la risposta delle imprese alla possibilità di procedere alla rivalutazione dei beni; bisogna, affinchè il ricorso a tale procedura diventi più conveniente e sensato, cercare di capire quali sono gli aspetti intrinsechi che hanno determinato lo scarso appeal e intervenire per far si che tale strumento diventi effettivamente utile e conveniente rispetto a quelle che sono le reali necessita dell’impresa stessa.

Quali sono le ragioni che hanno portato ad uno scarso ricorso a tale procedura?

In primis si ricorda che, la rivalutazione deve obbligatoriamente operare sia ai fini fiscali sia ai fini civilistici; non è quindi possibile optare per una delle due scelte; ma quale sarebbe il motivo per il quale un’impresa dovrebbe decidere di procedere alla rivalutazione e quindi pagare un’imposta sostitutiva in un’unica soluzione per poi avere degli effetti fiscali positivi solo qualche anno dopo? Ricordiamo inoltre che la rivalutazione del bene al netto dell’imposta sostitutiva versata concorre alla formazione del reddito. Quindi si individuano già due profili critici, ossia, le non appetibili aliquote sostitutive, e l’obbligatorietà di procedere sia ad una rivalutazione civile sia fiscale. Perché quindi non riammettere la possibilità di rivalutare solo in bilancio vista la sempre più crescente necessità di avere bilanci sempre più attendibili?

Un altro aspetto sul quale si pone l’accento è quello che riguarda i terreni sottostanti e pertinenziali ai fabbricati da rivalutare; la circolare 13/E/2014 stabilisce che “ ai fini della rivalutazione i terreni sottostanti e pertinenziali vanno compresi nella categoria omogenea dei beni non ammortizzabili mentre i fabbricati, se strumentali, vanno considerati come beni ammortizzabili e quindi rientrano nell’apposita categoria”.

Sarebbe tutto chiaro sennonché la categoria indicata per i beni non ammortizzabili non esiste, se non solo ai fini dell’aliquota da applicare.

Quindi i terreni sottostanti e pertinenziali ai fabbricati da rivalutare in quale categoria omogenea rientrano?

Parliamo di criticità fortemente limitanti, e per questo che il legislatore dovrebbe porre enfasi su tali fattori, modificando alcune disposizioni e rendere finalmente conveniente per l’impresa, ricorrere ad un istituto che finora si è caratterizzato per potenzialità nascoste piuttosto che espresse.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Rivalutazione partecipazioni: criticità

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Aumentata l’aliquota per le partecipazioni non qualificate

Premessa – L’imposta sostitutiva per la rivalutazione delle partecipazioni non qualificate sarà pari all’8%, parificata dunque a quella per la rivalutazione delle partecipazioni qualificate e per i terreni. Con un emendamento alla bozza della legge di stabilità 2016 è stata cosi aumentata l’aliquota inizialmente prevista al 4%.

La rivalutazione – Negli ultimi anni è stata più volte riproposta la possibilità di rideterminare il valore di acquisto dei terreni, grazie alla proroga delle disposizioni di cui all’articolo 2, comma 2, D.L. n. 282/2002. Se il contribuente si è avvalso di detta facoltà, ai fini della determinazione della plusvalenza, in luogo del costo d’acquisto o del valore dei terreni edificabili, è possibile assumere il valore ad essi attribuito dalla perizia giurata di stima, necessaria per il perfezionamento della rivalutazione, previo pagamento di un’imposta sostitutiva.
Valore fiscale riconosciuto – I costi sostenuti per la relazione giurata di stima, qualora siano stati effettivamente sostenuti e rimasti a carico del contribuente, possono essere portati in aumento del valore iniziale da assumere ai fini del calcolo della plusvalenza in quanto costituiscono costo inerente del bene. La perizia giurata di stima, nonché i dati dell’estensore, possono essere richiesti dall’Amministrazione Finanziaria; tali documenti vanno quindi conservati.

Ddl stabilità 2016 – Il Ddl di Stabilità ha disposto la riapertura dei termini per effettuare la rideterminazione del valore di acquisto dei terreni edificabili e con destinazione agricola e partecipazioni societarie (qualificate e non qualificate) non quotate nei mercati regolamentati posseduti alla data del 1° gennaio 2016. Il versamento dell’imposta sostitutiva nonché la redazione della perizia giurata di stima, deve essere effettuato entro il 30 giugno 2016. L’imposta sostitutiva può essere versata in unica soluzione o come prima rata di tre rate annuali (sull’importo delle rate successive alla prima, si applicano gli interessi nella misura del 3% annuo).

Imposta sostitutiva – La nuova norma modifica il comma 2 dell’art. 2 del D.L. 282/2002 inserendo solo la proroga dei termini senza inserire alcun cambiamento alla disciplina che rimane invariata. Più precisamente la disciplina viene riproposta totalmente per quanto concerne adempimenti e casistiche, ma inizialmente prevedeva testualmente che “le aliquote delle imposte sostitutive, di cui agli articoli 5 comma 2, e 7, comma 2, della legge 28 dicembre 2001, n. 448, sono raddoppiate”; pertanto, l’imposta sostitutiva applicata sulle partecipazioni non qualificate risultava passare al 4% (dall’originario 2%), e quella applicata alle partecipazioni qualificate e ai terreni risultava passare all’8% (dall’originario 4%).

Emendamento – Con un emendamento è stato previsto che la rivalutazione delle partecipazioni societarie non qualificate sconterà l’imposta sostitutiva dell’8% anziché del 4 per cento. Secondo le modifiche apportate per la rideterminazione del costo fiscale non vi saranno più differenze. Nel caso delle quote, la medesima aliquota si applicherà alle partecipazioni qualificate e non.

Autore: redazione fiscal focus

Le valutazioni nel falso in bilancio secondo il Massimario della Cassazione

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Con l’entrata in vigore della Legge 27/05/2015, n. 69, recante “Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio”, le false comunicazioni sociali hanno cambiato radicalmente impostazione.

Trattasi, in sostanza, di una riforma epocale che introduce un regime punitivo assai più severo, configurando tutte le fattispecie di mendacio come delitti, in aperta antitesi rispetto al falso in bilancio risultante dalla precedente riforma del 2002.

La condotta punita.L’art. 2621 c.c., come sostituito dall’art. 9, comma 1 della Legge 69/2015, disciplina il delitto di false comunicazioni sociali; la nuova previsione, che opera in via residuale al di fuori delle fattispecie disciplinate dalla disposizioni successive, prevede due diverse configurazioni nella condotta criminosa:

  • esposizione nelle comunicazioni sociali fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero;
  • omissione nei medesimi documenti fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge, sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene.

Secondo una lettura “tradizionale” della disposizione in commento, nella nozione di “fatto materiale” (oggetto dell’esposizione nelle comunicazioni sociali) dovrebbero rientrare i dati oggettivi che attengono alla realtà economica, patrimoniale e finanziaria della società o del gruppo cui essa appartiene.

In antitesi con tale categoria di elementi, emergono le “valutazioni” che, stando alla lettera della norma, resterebbero escluse dall’ambito penale; in tale categoria si ricomprendono di norma le scelte soggettive riconducibili entro parametri certi. La revisione operata dal D.Lgs n. 69/2015 sembrerebbe pertanto escludere definitivamente la rilevanza penale delle valutazioni, che sfuggono alle logiche della materialità di un fatto non rispondente al vero.

Le valutazioni secondo l’Ufficio del Massimario. Nella relazione n. 3 redatta il 15 ottobre scorso per la V Sezione Penale, l’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione affronta il tema nelle “nuove” false comunicazioni sociali, fornendo una chiave di lettura in controtendenza rispetto all’orientamento espresso nella sentenza n. 33774 del 16/06/2015 della medesima sezione penale (citata al punto 2.3 della relazione); in tale ultima pronuncia, la Suprema Corte ritiene prive di rilevanza penale le valutazioni, alla luce del revisionato sistema del mendacio societario, che ha comportato la soppressione dell’inciso (presente nella precedente versione della norma) “ancorché oggetto di valutazioni”.

La relazione, in particolare, evidenzia come, secondo la dottrina predominante, “il bilancio è costituito quasi del tutto da valutazioni e si basa su un metodo convenzionale di rappresentazione numerica dei fatti attinenti alla gestione dell’impresa; la maggior parte dei numeri che devono essere appostati in bilancio si riferisce non a grandezze certe, bensì solo stimate; è quindi ineludibile la rilevanza penale della valutazione degli elementi di bilancio, essendo la sua funzione principale quella di indicare il valore del patrimonio sociale al fine di proteggere i terzi che entrano in rapporto con la società, e costituendo il patrimonio sociale la garanzia per i creditori (e più in generale la misura di questa garanzia per i terzi); nonché per i soci (soprattutto di minoranza) lo strumento legale di informazione contabile sull’andamento della compagine sociale”.

In conclusione, l’Ufficio del Massimario appare confermare la rilevanza penale delle valutazioni anche nella revisionata formulazione della norma, nei termini precisati nella relazione in commento; di conseguenza, la decisione circa la falsità di una valutazione di bilancio dovrà basarsi sul rispetto o meno dei criteri legali di redazione del bilancio; a corollario dell’interpretazione formulata nella medesima relazione, viene richiamata la pronuncia della Sezione V del 16/12/1994, n. 234, per la quale la veridicità o la falsità delle componenti del bilancio va valutata in relazione alla loro corrispondenza ai criteri di legge e non alle enunciazioni “realistiche” con le quali vengono indicate.

Autore: Marco Brugnolo

Finanziamenti dei soci

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Tributaria, sentenza depositata il 20 novembre 2015

In tema di determinazione della base imponibile ai fini dell’IRES, qualora l’erogazione di una somma a titolo di finanziamento infruttifero sia eseguita dai soci mediante compensazione con un credito da loro vantato nei confronti della società, il relativo importo non può costituire sopravvenienza attiva, in quanto, se il finanziamento ha la sostanza del mutuo, l’obbligo di restituzione che lo accompagna esclude che esso determini nuova ricchezza, mentre se il finanziamento è in conto capitale, la configurabilità della sopravvenienza è esclusa dall’articolo 88 del TUIR.

È il principio di diritto enunciato dalla Sezione Tributaria della Corte di Cassazione con la sentenza 20 novembre 2015, n. 23782.

Il verdetto dei giudici dell’appello (CTR Milano) è stato parzialmente annullato dalla Suprema Corte, in accoglimento del ricorso proposto nell’interesse di una SRL. Nei confronti di quest’ultima l’Ufficio aveva accertato un maggiore imponibile a fini IVA, IRES e IRAP sulla base dei rilievi di un PVC.

In particolare, il fisco ha contestato sopravvenienze attive non dichiarate inerenti alla contabilizzazione di una somma di circa 500mila euro. Ma è stato accertato che tale somma era stata corrisposta dai soci, mediante compensazione, e a titolo di finanziamento infruttifero. Il che ha fatto ritenere fondata la doglianza formulata in proposito dalla ricorrente società, con enunciazione, da parte dei giudici di legittimità, del principio di diritto di cui si è detto e del quale ora dovrà tenere contro il giudice del rinvio.

La Suprema Corte, in relazione a un’altra doglianza della società, che però non è stata accolta, ha fornito chiarimenti in tema di detrazione IVA nel caso in cui il contribuente invochi l’applicazione di abbuoni e sconti previsti contrattualmente. L’applicazione dell’art. 26 del D.P.R. 633/72 richiede, secondo la Corte, che venga praticato al cessionario uno sconto sul prezzo della vendita effettuato e che la riduzione del corrispettivo al cliente sia il frutto di un accordo, il quale può essere documentale, o verbale, e persino successivo, purché del medesimo sia fornita la prova, da parte dei soggetti interessati, mediante la trasfusione del patto stesso in note di accredito, emesse da una parte in favore dell’altra, con l’allegazione della causale che, volta per volta, abbia giustificato gli sconti medesimi. Onere probatorio che, secondo la CTR, non è stato assolto dalla ricorrente società, anche “perché la dichiarazione via e-mail, nonché la successiva attestazione, riguardate come documenti, non sarebbero idonee a documentare l’accordo, in base al principio secondo il quale in forza dell’art. 2704 c.c., non e opponibile all’amministrazione finanziaria, ai fini della prova dei presupposti per l’applicazione dell’art. 26 del D.P.R. 633/72, una scrittura privata priva di sottoscrizione autenticata in data certa(cfr. Cass. 8535/2014).

Autore: redazione fiscal focus

Omaggi ai dipendenti: trattamento fiscale

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

In occasione delle feste natalizie (ma non solo) è consuetudine “omaggiare” ai propri dipendenti dei beni in natura generalmente non rientranti nell’attività d’impresa.

Come noto, l’art. 19 bis1, co. 1, lett. h), D.P.R. 633/1972, come modificato dall’art. 30 del D.lgs. semplificazioni fiscali), dispone che l’IVA relativa all’acquisto di beni destinati ad essere omaggiati, non rientranti nell’attività d’impresa, ricompresi fra le spese di rappresentanza in base al DM 19.11.2008, :

  • è detraibile se il costo unitario dell’omaggio è inferiore a € 50,00;
  • è indetraibile se il costo unitario dell’omaggio è superiore a € 50,00.

Si ricorda che ai fini IVA (C.M. 34/E/2009), per l’individuazione degli omaggi da ricomprendere tra le spese di rappresentanza, è necessario fare riferimento a quanto disposto dall’art. 1, DM 19.11.2008; in particolare, è necessario che le spese:

  • siano sostenute con finalità promozionali e di pubbliche relazioni;
  • siano ragionevoli in funzione dell’obiettivo di generare benefici economici;
  • siano coerenti con gli usi e le pratiche commerciali del settore.

Per quanto riguarda gli omaggi ai dipendenti, questi ai fini Iva non possono essere considerate spese di rappresentanza, in quanto prive del requisito di sostenimento per finalità promozionali. L’IVA relativa ai beni destinati ai dipendenti è da considerare indetraibile per mancanza di inerenza con l’esercizio dell’impresa.

Gli omaggi ai dipendenti di beni che non rientrano nell’attività dell’impresa ai fini delle imposte dirette sono da ricomprendere tra le erogazioni liberali (spese per prestazioni di lavoro sostenute in denaro o in natura a titolo di liberalità) a favore dei lavoratori concesse in occasioni di festività o ricorrenze alla generalità o a categorie di dipendenti, le quali beneficiano della deducibilità dal reddito d’impresa (art. 95 del Tuir) .

Per i lavoratori autonomi, detti costi sono deducibili ai sensi dell’art. 54, comma 1, Tuir, avente una portata applicativa analoga a quella dell’art. 95 del Tuir.

Ai fini IRAP, le spese per gli acquisti di omaggi da destinare ai dipendenti rientrano nei “costi del personale”, che ai sensi degli artt. 5 e 5-bis, D.Lgs. n. 446/97 non concorrono alla formazione della base imponibile IRAP, ancorché gli stessi siano contabilizzati in voci diverse dalla B.9 del Conto economico. Di conseguenza, le spese in esame sono indeducibiliai fini IRAP indipendentemente dalla natura giuridica del datore di lavoro.

Anche per i lavoratori autonomi, le spese in esame sono indeducibiliai fini IRAP, in quanto gli stessi determinano la base imponibile IRAP ai sensi dell’ art. 8, comma 1, D.Lgs. n. 446/97 quale “differenza tra l’ammontare dei compensi percepiti e l’ammontare dei costi sostenuti inerenti all’attività esercitata … esclusi gli interessi passivi e le spese per il personale dipendente.

Gli omaggi ricevuti dai dipendenti producono, in taluni casi, imponibilità in capo ai dipendenti stessi.

Tale imponibilità va verificata alla luce del disposto dell’art. 51, comma 3, Tuir.

In base alla citata disposizione:

  • le erogazioni liberali in denaro concorrono sempre (a prescindere dall’ammontare) alla formazione del reddito del dipendente e quindi sono assoggettate a tassazione;
  • le erogazioni liberali in natura se di importo:
    • non superiore ad € 258,23 nel periodo d’imposta non concorrono alla formazione del reddito;
    • superiore ad € 258,23 nel periodo d’imposta concorrono per l’intero ammontare alla formazione del reddito del dipendente (non solo per la quota eccedente il limite).
Autore: redazione fiscal focus

Accertamenti definitivi: non opera la sospensione dell’esecuzione forzata

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Il D.Lgs. 159/2015 ha introdotto importanti modifiche in merito alle Misure per la semplificazione e razionalizzazione delle norme in materia di riscossione; le novità riguardano anche la concentrazione della riscossione nell’accertamento. Lo stesso Decreto ha previsto che l’avviso di accertamento diventa esecutivo trascorsi 60 gg dal termine previsto per la presentazione del ricorso, quindi non si considera più invece il termine di notifica dell’avviso di accertamento.

All’art. 5 lo stesso decreto intervenendo sull’art.29, comma 1 del D.L.78/2010 prevedeva che: gli avvisi di accertamento divengono esecutivi (decorso il termine utile per la proposizione del ricorso) e devono espressamente recare l’avvertimento che, decorsi trenta giorni dal termine ultimo per il pagamento, la riscossione delle somme richieste, in deroga alle disposizioni in materia di iscrizione aruolo, è affidata in carico agli agenti della riscossione anche ai fini dell’esecuzione forzata, con le modalità determinate con provvedimento del direttore dell’Agenzia delle Entrate, di concerto con il Ragioniere generale dello Stato. L’esecuzione forzata è sospesa per un periodo di centottanta giorni dall’affidamento in carico agli Agenti della riscossione degli atti di cui alla lettera; proprio in merito all’ultimo punto il D.Lgs 159/2015 ha stabilito invece che la predetta sospensione non opera in caso di accertamenti definitivi, anche in seguito a giudicato, nonché in caso di recupero di somme derivanti da decadenza dalla rateazione“; quindi in questi casi viene esclusa la sospensione della procedura di esecuzione forzata.

Inoltre il Legislatore ha eliminato la lettera e, comma 1, art. 29 del D.L. 78 del 2010 nella parte in cui stabiliva che l’espropriazione forzata, in ogni caso, è avviata, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre 2015 del terzo anno successivo a quello in cui l’accertamento è divenuto esecutivo; da qui, quindi, l’espropriazione forzata è legata ai termini di prescrizione ordinaria quinquennale per le sanzioni, e decennali per i tributi erariali.

Infine è da segnalare che lo stesso decreto ha previsto la possibilità di recapitare al debitore la cosiddetta comunicazione dell’affidamento della riscossione ad Equitalia, oltre che con raccomandata anche con posta semplice, posta ordinaria e certificata.

Autore: redazione fiscal focus

Antiriciclaggio: anche gli avvocati coinvolti

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Ci sono adempimenti che vengono spesso dimenticati. Più che dimenticati, si potrebbe più correttamente dire, soffocati: soffocati da tutti gli altri adempimenti, quelli per i quali la scadenza è più imminente e deve essere necessariamente rispettata.

Tutto il resto viene quindi relegato tra le formalità rinviabili ad una data imprecisata: fino a quando, almeno, non scattano le sanzioni.

Stiamo parlando della disciplina antiriciclaggio, e di tutti quegli adempimenti che la stessa ci obbliga a rispettare: adempimenti che possono apparire soltanto formali, ma dietro ai quali si nasconde un apparato sanzionatorio di tutto rispetto, fatto non solo di sanzioni amministrative sicuramente sproporzionate, ma anche di sanzioni penali.

Gli avvocati

Se i commercialisti e gli esperti contabili fanno ormai da tempo i conti con questa particolare disciplina, ci sono altri professionisti che la stanno sicuramente sottovalutando.

Stiamo parlando degli avvocati, i quali sono comunque tenuti all’osservanza della normativa antiriciclaggio quando, in nome o per conto dei loro clienti, compiono qualsiasi operazione di natura finanziaria o immobiliare e quando assistono i clienti nella predisposizione o nella realizzazione di operazioni riguardanti:

1) il trasferimento a qualsiasi titolo di diritti reali su beni immobili o attività economiche;

2) la gestione di denaro, strumenti finanziari o altri beni;

3) l’apertura o la gestione di conti bancari, libretti di deposito e conti di titoli;

4) l’organizzazione degli apporti necessari alla costituzione, alla gestione o all’amministrazione di società;

5) la costituzione, la gestione o l’amministrazione di società, enti, trust o soggetti giuridici analoghi.

Si pensi, quindi, ad una consulenza legale per la riscossione di una polizza assicurativa, alla redazione di un contratto di comodato o di affitto, ai risarcimenti che comportano il trasferimento di un importo in denaro.

Attività, queste, che vengono svolte quotidianamente negli studi legali, ma che, frequentemente, non sono correlate agli adempimenti antiriciclaggio.

La segnalazione delle operazioni sospette

Giova tuttavia di essere ricordato che, ai sensi dell’articolo 12 del D.Lgs. 231/2007, l’obbligo di segnalazione delle operazioni sospette non trova applicazione se le informazioni sono ricevute dal cliente:

  • nel corso dell’esame della posizione giuridica o dell’espletamento dei compiti di difesa o di rappresentanza in un procedimento giudiziario o in relazione a tale procedimento;
  • nell’ambito della consulenza sull’eventualità di intentare o evitare un procedimento,
  • ove tali informazioni siano ricevute o ottenute prima, durante o dopo il procedimento stesso.

L’esonero dall’obbligo della segnalazione non comporta però l’esclusione dagli obblighi di adeguata verifica della clientela.

Ciò significa che, anche se si ricadesse in un’ipotesi nella quale non dovrà essere comunque effettuata la segnalazione, il professionista sarà comunque obbligato a procedere all’identificazione del cliente e del titolare effettivo, senza dimenticare la conservazione e la registrazione dei dati.

Autore: redazione fiscal focus

L’Home Restaurant tra obblighi e incertezza

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Premessa – In un periodo di crisi in cui si è chiamati a reinventarsi una qualche attività lavorativa, si sta diffondendo sempre più nel nostro paese l’idea dell’Home Restaurant.

Molte sono le persone che, spinte dalla passione e dall’amore per la cucina hanno deciso di trasformare la propria casa in un ristorante occasionale aperto per amici, conoscenti o semplici viaggiatori ed in cui offrire ricette tipiche con prodotti locali valorizzando il territorio ed offrendo occasioni d’incontro.

Il fenomeno dell’Home Restaurant è partito nel 2006 in America, per poi approdare nel 2009 anche nel Regno Unito ed estendersi a macchia d’olio anche nel resto degli altri Paesi, tra cui non ultimo l’Italia.

In Italia è equiparata alla ristorazione – Poiché si tratta di un’attività che può generare un vero e proprio business per chi decidesse di intraprenderla, è necessario rispettare le regole di legge previste da ciascun Paese.

Tuttavia, in Italia, manca ancora una specifica normativa che disciplini tale attività. L’unica normativa di riferimento attuale è rappresentata dalla risoluzione Mise n. 50481/2015, con cui il Ministero dello Sviluppo Economico ha equiparato l’attività di Home Restaurant ad una vera e propria attività di ristorazione e quindi di somministrazione di alimenti e bevande.

Nel nostro Paese, l’attività di somministrazione di alimenti e bevande è disciplinata dalla legge n. 287/1991 così come modificata dal decreto legislativo n. 59/2010, e in cui è fatta distinzione tra attività esercitate nei confronti del pubblico indistinto e attività riservate a particolari soggetti, e ai sensi dell’ articolo 1, comma 1 della predetta legge “per somministrazione si intende la vendita per il consumo sul posto” che si esplicita in “… tutti i casi in cui gli acquirenti consumano i prodotti nei locali dell’esercizio o in una superficie aperta al pubblico, all’uopo attrezzati”.

Richiamando quando appena esposto, il Mise, nella citata Risoluzione, afferma che l’attività in questione anche se esercitata solo in alcuni giorni dedicati e tenuto conto che i soggetti che usufruiscono delle prestazioni sono in numero limitato, non può che essere classificata come un’attività di somministrazione di alimenti e bevande, in quanto anche se i prodotti vengono preparati e serviti in locali privati coincidenti con il domicilio del cuoco, essi rappresentano comunque locali attrezzati aperti alla clientela.

Inoltre, se si considera che la fornitura delle predette prestazioni comporti anche il pagamento di un corrispettivo, l’attività in discorso si configura come un’attività economica in senso proprio con la conseguenza che la stessa non può considerarsi un’attività libera e pertanto è da assoggettarsi alla stessa normativa prevista per chi esercita un’attività di somministrazione di alimenti e bevande.

Peraltro, tale orientamento era già stato dato in precedenza dallo stesso Mise con la nota n. 98416 del 12 giugno 2013, in cui lo stesso Ministero classificava come un’attività vera e propria di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande quella effettuata da un soggetto che, proprietario di una villa, intendeva preparare cibi e bevande nella propria cucina fornendo tale servizio solo su specifica richiesta e prenotazione da parte di un committente e quindi solo per gli eventuali invitati.

Pertanto, chi a oggi vuole intraprendere l’attività di Home Restaurant, previo possesso dei requisiti di onorabilità nonché professionali di cui all’articolo 71 del decreto legislativo n. 59/2010, è tenuto a presentare la SCIA o a richiedere l’autorizzazione, ove trattasi di attività svolte in zone tutelate.

Essendo equiparata a una vera e propria attività di ristorazione aperta al pubblico, inoltre, è necessario porre in essere tutti gli altri adempimenti previsti in materia di igiene (HACCP, autocontrollo, ecc.) e di pubblica sicurezza, senza dimenticare che trattandosi di attività economica in senso proprio (e quindi attività d’impresa) sarà necessario aprire partita IVA e certificare i guadagni.

Dunque, un’idea originale e semplice che nel nostro Paese rischia di perdersi per via dei meandri e della durezza burocratica italiana.

La proposta di un DDL ad hoc – Tuttavia un disegno di legge (non ancora discusso né approvato) in materia di Home food è stato presentato nel 2014. Si tratta del DDL 1271 del 27 febbraio 2014, il cui contenuto può essere sintetizzato nei seguenti punti:

  • utilizzo della propria struttura abitativa, anche se in affitto, fino ad un massimo di due camere, per un massimo di venti coperti al giorno;
  • i locali dell’abitazione destinati all’attività devono possedere i requisiti igienico-sanitari per l’uso abitativo previsti dalle leggi e dai regolamenti vigenti;
  • nessuna necessita di cambio di destinazione d’uso della struttura abitativa;
  • obbligo di adibire la struttura abitativa ad abitazione personale;
  • obbligo di comunicare al comune competente l’inizio dell’attività, unitamente ad una relazione di asseveramento redatta da un tecnico abilitato;
  • nessuna iscrizione al registro esercenti il commercio;
  • obbligo del comune di effettuare il sopralluogo al fine di confermare l’idoneità della struttura abitativa all’esercizio dell’attività di home food;
  • applicazione del regime fiscale previsto dalla normativa vigente per le attività saltuarie.

Il 29 luglio 2015 è stata, inoltre, presentata una nuova proposta di legge in Parlamento da parte dell’on. Nino Minardo, di contenuto simile al sopracitato DDL ma con ulteriori due previsioni: necessità per il gestore di conseguire un certificato HACCP e l’inserimento di una soglia (10.000 euro) ai fini della determinazione della saltuarietà dell’attività.

Autore: Pasquale Pirone

Retribuzione di dicembre: arriva la tredicesima

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Breve riepilogo della disciplina riguardante la tredicesima mensilità

Premessa – Il periodo natalizio è alle porte ormai, e con esso l’erogazione della tanto agognata tredicesima mensilità, riconosciuta dal D.P.R. n. 1070/1960. Infatti, come di consueto, a tutti i lavoratori subordinati, inclusi i lavoratori domestici, spetta una mensilità aggiuntiva rispetto allo stipendio normalmente percepito, corrisposto di solito una volta all’anno entro il 25 dicembre ovvero al momento della risoluzione del rapporto di lavoro, se precedente, in relazione alle quote maturate a tale data.

Ma vediamo nel dettaglio le regole e caratteristiche tipiche dell’importo aggiuntivo.

Caratteristiche generali – Innanzitutto, è bene specificare che l’importo non è derogabile in pejus dalla contrattazione collettiva e assume tenore di legge erga omnes con il menzionato Decreto. Inoltre, si tratta di una forma di retribuzione “differita”, concetto questo che accoglie tutte quelle indennità e somme (tra cui appunto le mensilità aggiuntive e il trattamento di fine rapporto) la cui maturazione avviene nel periodo di paga (ovvero, come nel caso del TFR, nell’anno) e la cui corresponsione si verifica in corso d’anno ovvero alla cessazione del rapporto di lavoro.

Regole della tredicesima – Le regole per la gestione della tredicesima mensilità sono individuate dai contratti collettivi e a questi va fatto sempre riferimento per verificarne le modalità di computo e di maturazione. Per quanto riguarda la sua maturazione, la quasi totalità dei contratti collettivi adottano il sistema della maturazione sulla base dei mesi di servizio. Tale sistema, in pratica, prevede che un mese risulti utile ai fini della maturazione della tredicesima mensilità (nonché della quattordicesima, se prevista, del TFR, delle ferie e dei permessi) se il rapporto di lavoro risulta in essere per una frazione di mese pari o superiore a 15 giorni di calendario. Al contrario, se la frazione di mese non supera i 14 giorni di calendario, il mese non si considera utile alla maturazione della mensilità aggiuntiva. Esso viene maturato nel periodo “gennaio-dicembre” dell’anno di riferimento (anno solare).

Le assenze – Particolare attenzione va rivolta alla gestione delle assenze. Infatti, se queste ultime si protraggono per più di 15 giorni, il mese deve essere considerato interamente non utile alla maturazione delle mensilità aggiuntive. Generalmente le mensilità aggiuntive non maturano durante le assenze per congedo parentale, malattia del bambino, sciopero, assenze non giustificate, permessi non retribuiti, ecc., ma vanno comunque verificate le disposizioni contrattuali. In ogni caso, sono poi i CCNL a individuare i periodi di assenza durante i quali si matura il diritto alla mensilità aggiuntiva.

CIG – Un discorso a parte merita la tredicesima mensilità in concomitanza con un periodo di cassa integrazione guadagni. Mentre in caso di CIG a orario ridotto le mensilità aggiuntive maturano regolarmente, in caso di sospensione a zero ore il mese non può considerarsi utile se tale sospensione risulta superiori a 15 giornate di calendario. L’INPS, in ogni caso, provvede a integrare (sempre nella misura dell’80% della retribuzione spettante) anche i ratei delle mensilità aggiuntive (compresa la quattordicesima), qualora risulti non superato il massimale del mese nel quale sono state corrisposte le integrazioni salariali ordinarie.

Aspetto previdenziale e fiscale – Infine, sul versante previdenziale si evidenzia che la tredicesima mensilità, in quanto retribuzione, deve essere assoggettata a contribuzione previdenziale e a ritenute fiscali. In merito al trattamento fiscale, invece, si evidenzia come, in fase di tassazione delle mensilità aggiuntive, non vengano riconosciute le altre detrazioni né le detrazioni per carichi di famiglia.

Autore: redazione fiscal focus

Giurisprudenza Studi settore. Occorre adattare l’accertamento alla specifica realtà aziendale

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

È illegittimo l’avviso di accertamento basato unicamente sulle risultanze dello studio di settore anche laddove l’Amministrazione abbia utilizzato lo strumento più recente. È questo emerge dalla sentenza n. 1307/10/15 della Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia Romagna.

La CTR dell’Emilia Romagna ha ritenuto illegittimo – così come la CTP – un avviso di accertamento basato sugli studi di settore, atto con cui l’Ufficio finanziario aveva rideterminato induttivamente i ricavi di una società operante nel settore dell’informatica e dedita all’attività di “sviluppo di sistemi informatici integrati di gestione della fabbrica, adattati per ogni specifico cliente”.

La ricorrente (che aveva aderito al preventivo invito al contraddittorio) ha eccepito con successo l’inadeguatezza dello studio di settore a rappresentare la propria specifica realtà aziendale; tant’è vero che era stata la stessa Amministrazione finanziaria a riconoscere, in sede di contraddittorio endoprocedimentale, l’imprecisione dello studio TG66U il quale, pertanto, era stato sostituito col più evoluto UG66U, con conseguente riduzione dei maggiori ricavi inizialmente contestati.

L’Ufficio resistente, dal canto suo, ha inutilmente sostenuto la legittimità dell’accertamento in questione, posto che esso non poteva dirsi il prodotto di una presunzione semplice di maggior reddito ma il frutto dell’adeguamento dell’elaborazione statistica alla concreta realtà economica della contribuente e, quindi, portatore di quel quid pluris richiesto dalla giurisprudenza (su tutte: Cass.,S.U., n. 26635/2009).

Ebbene, secondo i giudici di primo grado, gli accertamenti basati sull’incongruenza fra ricavi dichiarati e quelli desumibili dagli studi di settore, così come disposto dall’art. 62-sexies del D.L. 331/93, costituiscono di per sé una presunzione grave, precisa e concordante a favore dell’Amministrazione finanziaria ma solo “se risulta applicata correttamente la procedura di rilevazione degli studi di settore, come le relazioni esistenti tra le variabili contabili e quelle strutturali, andamento della domanda, livello dei prezzi in relazione ai vari periodi temporali, concorrenza, ecc. ferma restando la facoltà del contribuente di fornire prova contraria”. Nella fattispecie, l’Ufficio – secondo la CTP – non ha fornito una convincente dimostrazione del fatto che lo studio di settore utilizzato potesse rappresentare con sufficiente attendibilità un’azienda, come la contribuente, “altamente specializzata in una materia, quella dell’informatica, oggi in continua evoluzione. Nonostante gli sforzi effettuati dall’ufficio nella ricerca di uno studio più aderente alla realtà aziendale, le rilevazioni effettuate, la prima con lo studio TG66U e la seconda con lo studio UG66U ritenuto più attendibile, non appaiono convincenti per dimostrare la legittimità dell’atto impositivo”.

Queste argomentazioni del Collegio di prime cure hanno trovato concordi i giudici regionali, secondo i quali, nel caso di specie, “mentre dagli atti risulta che la parte abbia profuso dati ed argomenti, l’Ufficio ha identificato nella mera applicazione dello studio di settore più evoluto GU66U l’operazione di concreto adattamento alla specifica realtà aziendale”. Inoltre, una volta instauratasi la controversia, l’Ufficio ha replicato che “se è vero, infatti, che l’Ufficio deve valutare ulteriori elementi rispetto alle risultanze degli studi di settore, per rapportare il calcolo alla realtà del singolo contribuente, è anche vero che tale analisi potrà essere fatta se e solo se il contribuente stesso fornisce tali elementi, supportati da idonei mezzi di prova e dovrà essere basata proprio su quanto da questi esposto”; ma per la CTR un simile assuntocostituisce una curiosa inversione dell’onere della prova: se il ripetuto insegnamento della Cassazione pretende che le risultanze dell’applicazione di uno studio di settore pertinente siano corroborate da altre prove con onere a carico dell’Ufficio, questo non può cavarsela sostenendo ‘non ho potuto addurre le prove ulteriori perché il contribuente non ha fornito gli elementi, supportati dalle prove, che mi avrebbero consentito di arricchire le risultanze dello studio di settore applicato’”.

La CTR conclude dicendo: “non si ritiene ricorrano gravità e persistenza del disallineamento per rafforzare la presunzione derivante dalla mera applicazione dello studio di settore (pure contestato). Per converso si ritiene carente l’indagine dell’Ufficio circa la concreta applicazione delle risultanze dello studio di settore alla realtà gestionale ed organizzativa della società accertata, nonché al particolare mercato in cui essa opera”.

L’Ufficio finanziario paga le spese processuali.

Autore: redazione fiscal focus

Quadro RW. L’integrativa non evita la sanzione

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Sentenza della CTR Lombardia in tema di omessa dichiarazione d’investimenti all’estero

La sanzione prevista per l’omessa compilazione del quadro “RW” è applicabile anche nel caso in cui il contribuente abbia integrato la dichiarazione. È quanto emerge dalla sentenza n. 3778/67/15 della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia (Sez. Staccata di Brescia) secondo cui, peraltro, il raddoppio dei termini per l’accertamento previsto dal D.L. 78 del 2009 con riferimento agli investimenti in Paesi a fiscalità privilegiata ha carattere processuale ed è pertanto suscettibile di applicazione retroattiva.

Dopo aver ricevuto un questionario dell’Ufficio, il contribuente ha presentato dichiarazione integrativa per l’anno d’imposta 2006 allo scopo di porre rimedio all’omessa dichiarazione di investimenti all’estero, stante la partecipazione in una società elvetica. La presentazione dell’integrativa con il riferimento al quadro RW non ha evitato la notifica di un atto di contestazione per violazione del D.L. 167/90, con irrogazione della sanzione. Dal che la proposizione del ricorso davanti alla competente CTP, la quale ha annullato l’atto di contestazione ritenendo, da un lato, che l’Ufficio non potesse usufruire del raddoppio dei termini per l’accertamento e, dall’altro, che la presentazione della dichiarazione integrativa (ex art. 2, comma 8, D.P.R. 322/98) aveva inciso sulla possibilità di applicare la sanzione per l’omessa dichiarazione d’investimenti all’estero nonostante fosse già stata intrapresa l’attività accertativa.

Ebbene, la CTR ha preso le distanze dal ragionamento decisionale del Collegio di prime cure.

Secondo l’amministrazione appellante, la CTP non ha considerato che il raddoppio dei termini per l’accertamento, riferito agli investimenti in Paesi a fiscalità privilegiata, ha carattere “processuale”, con conseguente applicabilità della nuova normativa anche ad annualità precedenti per le quali non fossero ancora scaduti i termini di accertamento. In ogni caso, la presentazione della dichiarazione integrativa non è circostanza capace di incidere sulla sanzione di cui all’art. 5 del D.L. 167/90; dunque il contribuente avrebbe dovuto ricorrere al ravvedimento operoso oppure alla definizione agevolata ex art. 16 D.Lgs. n. 472/97.

I suddetti motivi d’appello dell’Agenzia delle Entrate hanno trovato ingresso presso i giudici bresciani. Questi, infatti, hanno sostenuto ‘”l’evidentissimo carattere processuale del raddoppio del termine per l’accertamento” e, inoltre, che l’integrazione della dichiarazione ha rilevanza ai fini della ridefinizione della materia imponibile “ma senza che ciò ridondi sulla sanzione correlata alla mancata (tempestiva) dichiarazione”. Infine, la CTR esclude che la mancata compilazione del quadro RW costituisca violazione formale, “perché se è vero che essi non danno luogo direttamente a materia imponibile, è altrettanto vero che costituiscono un ‘segnale di attenzione’, a maggior ragione rilevante se si considera che evidenziano dati (…) che per definizione non potrebbero essere desumibili, neppure aliunde o incidentalmente, dalla Amministrazione fiscale”.

Insomma, nella specie l’AdE ha ottenuto la riforma della sentenza di prime cure che aveva accolto il ricorso introduttivo del contribuente. Le spese del giudizio sono state compensate tra le parti.

Autore: redazione fiscal focus

Acconto IVA 2015: la scadenza è fissata al 28 dicembre

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

La scelta è tra metodo storico, analitico e previsionale

E’ prevista per il 28 dicembre la scadenza del pagamento dell’acconto IVA 2015 (il 27 cadrà di domenica). Al via dunque i calcoli per la determinazione dell’acconto, tenendo sempre sconto che si potrà optare: per il metodo storico, per il metodo previsionale o quello analitico.

L’acconto versato va scomputato dall’importo dell’imposta da versare:

  • per il mese di dicembre dell’anno in corso (per i mensili), scadente il 18 gennaio 2016 (il 16 gennaio 2016 è un sabato);
  • ovvero da quello per l’ultimo trimestre, da pagare entro il 16 marzo 2016.

Metodo storico – La determinazione dell’acconto sulla base del “dato storico” consiste nel calcolare l’importo dovuto nella misura dell’88% del versamento effettuato (o che avrebbe dovuto essere effettuato) nello stesso periodo dell’anno precedente (2014).

La base di riferimento è quindi commisurata all’ammontare dell’IVA a debito risultante:

  • dalla liquidazione IVA relativa al mese di dicembre 2014, per i contribuenti mensili;
  • dalla liquidazione IVA relativa al quarto trimestre 2014, per i contribuenti trimestrali “speciali” (o “per natura”) di cui all’art. 74 co. 4;
  • dalla dichiarazione annuale relativa al 2014 (UNICO 2015), per i contribuenti trimestrali “per opzione” di cui all’art. 7 del D.P.R. 542/99.

Tenendo presente che nel caso in cui, tra il periodo d’imposta precedente e l’attuale, si sia verificato il passaggio di regime:

  • da trimestrale a mensile, si deve considerare un terzo del versato per l’ultimo trimestre 2014 (acconto più versato in sede di dichiarazione);
  • da mensile a trimestrale, si deve necessariamente eseguire la somma inerente ai versamenti di ottobre, novembre e dicembre (acconto e saldo) 2014.

I riferimenti dichiarativi – Per chi adotta il metodo storico, la determinazione dell’acconto IVA 2015 può avvenire moltiplicando l’88% all’eventuale importo dell’Iva a debito risultante dall’ultima liquidazione del 2014, individuabile:

  • nel rigo VH12 della dichiarazione annuale Iva 2015, relativa al 2014, per i contribuenti che versano l’Iva con periodicità mensile;
  • per quelli trimestrali che hanno avuto un saldo Iva 2014 a debito, nella somma dell’importo pagato come acconto Iva relativo al 2014 (rigo VH13) e quello pagato come saldo 2014 (rigo VL38), al netto degli interessi passivi dell’1% pagati per quest’ultimo (rigo VL36);
  • per quelli trimestrali che hanno chiuso il 2014 con saldo Iva a credito, dalla differenza tra l’acconto 2014 versato (rigo VH13) e il credito Iva annuale 2014 (rigo VL33).

Metodo previsionale – Chi sceglierà invece di adottare il metodo previsionale, determinerà l’acconto sulla base della stima delle operazioni che verranno effettuate fino alla chiusura del 2015.

Se si prevede di dover liquidare:

  • per il mese di dicembre del 2014 (contribuenti mensili), o;
  • per il quarto trimestre 2015 (contribuenti trimestrali “speciali”), o
  • per la dichiarazione del 2015 (contribuenti trimestrali “per opzione”),

un importo a titolo di acconto IVA inferiore a quello versato nel 2014, l’acconto dell’88% è calcolato su tale minore importo.

In pratica, il contribuente deve fare una stima delle fatture attive da emettere e di quelle passive da ricevere entro la fine dell’anno.

Al fine di rendere omogenei l’importo relativo al “dato storico” e quello “previsionale”, quest’ultimo deve essere considerato al netto dell’eventuale eccedenza detraibile riportata dal mese o dal trimestre precedente.

Metodo analitico – L’atro metodo a disposizione è quello analitico. L’acconto, nella misura del 100%, emerge da una liquidazione periodica aggiuntiva, ottenuta sommando algebricamente i seguenti elementi:

  • (con segno +) l’IVA a debito relativa alle operazioni annotate (o che avrebbero dovuto essere annotate) nei registri IVA per il periodo tra il 1° dicembre e il 20 dicembre 2015 (contribuenti mensili) e tra il 1° ottobre e il 20 dicembre 2015 (contribuenti trimestrali);
  • (con segno +) l’IVA a debito relativa alle operazioni effettuate tra il 1° novembre ed il 20 dicembre, ma non ancora annotate non essendo decorsi i termini di emissione della fattura o di registrazione;
  • (con segno -) l’IVA a credito relativa agli acquisti e alle importazioni annotati nel registro degli acquisti nel periodo compreso tra il 1° dicembre e il 20 dicembre 2015 (contribuenti mensili) e tra il 1° ottobre e il 20 dicembre (contribuenti trimestrali);
  • (con segno -) l’IVA a credito relativa alle operazioni intracomunitarie, per le quali la corrispondente IVA a debito è stata già considerata (per effetto della doppia registrazione);
  • (con segno -) l’eventuale IVA a credito riportata dalla liquidazione relativa al periodo precedente (mese di novembre o terzo trimestre).

Autore: redazione fiscal focus

Rimborsi IVA: l’individuazione dei contribuenti a rischio

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

La nuova normativa concernente la possibilità di richiedere i rimborsi IVA senza presentazione di garanzie è stata più volte sotto la lente dell’Amministrazione Finanziaria. Prima con la C.M. 32/E/2014 e successivamente con la C.M. 6/E/2015 e C.M. 35/E/2015, sono stati forniti importanti chiarimenti. Tra i vari chiarimenti forniti dall’Amministrazione Finanziaria si vuole porre l’attenzione sull’individuazione dei contribuenti a rischio, ovvero coloro che non possono fruire delle condizioni agevolative previste dalla novellata normativa e sono comunque tenuti alla presentazione della garanzia, per rimborsi di ammontare superiore ad euro 15.000,0. I c.d. contribuenti a rischio sono:

  • i soggetti passivi che esercitano un’attività d’impresa da meno di 2 anni, diversi dalle imprese start-up innovative di cui all’art. 25, D.L. 179/2012, conv. con modif. dalla L. 221/2012;
  • i soggetti passivi ai quali, nei 2 anni antecedenti la richiesta di rimborso, sono stati notificati avvisi di accertamento o di rettifica da cui risulti, per ciascun anno, una differenza tra gli importi accertati e quelli dell’imposta dovuta o del credito dichiarato superiore:
    1. al 10% degli importi dichiarati se questi non superano Euro 150.000;
    2. al 5% degli importi dichiarati se questi superano Euro 150.000 ma non superano Euro1.500.000;
    3. all’1% degli importi dichiarati, o comunque a Euro 150.000, se gli importi dichiarati superano Euro 1.500.000.

Per quanto riguarda la prima casistica, va puntualmente determinato lo svolgimento dell’attività d’impresa da meno di due anni. In tal senso va evidenziato che la formulazione della norma fa esclusivo riferimento allo svolgimento di attività d’impresa; pertanto, il suddetto limite non si riferisce ai soggetti che svolgono attività di lavoro autonomo.

Per gli esercenti arti e professioni, dunque, la richiesta di rimborsi di importo superiore ad euro 15.000,00 potrà avvenire senza la necessaria presentazione della garanzia, a patto che sull’istanza da cui emerge il credito si appone il visto di conformità o la sottoscrizione alternativa dell’organo di controllo e si presenta la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà.

Sempre in merito al computo dei due anni dall’inizio di svolgimento dell’attività che qualificata il contribuente a “rischio” con relativo obbligo di presentare la garanzia per le richieste di rimborso d’importo superiore ad euro 15.000,00, l’Amministrazione Finanziaria ha chiarito che per il computo dei due anni deve farsi riferimento all’effettivo svolgimento dell’attività d’impresa, che ha inizio con la prima attività effettuata e non con l’apertura della partita Iva.

Viene chiarito inoltre che il termine dei due anni si riferisce alla data di richiesta del rimborso annuale o trimestrale.

In termini pratici, un contribuente che presenta la richiesta di rimborso in data 30.06.2016, non dovrà presentare la polizza fideiussoria se ha svolto la prima attività d’impresa il 30.06.2014 o in data anteriore.

Sono tenuti alla presentazione della garanzia anche i soggetti passivi ai quali, nei 2 anni antecedenti la richiesta di rimborso, sono stati notificati avvisi di accertamento o di rettifica da cui risulti, per ciascun anno, una differenza tra gli importi accertati e quelli dell’imposta dovuta o del credito dichiarato superiore a determinate soglie

Sulla verifica di tale requisito, già con la C.M. 32/E/2014 l’Amministrazione Finanziaria aveva avuto modo di chiarire che per la verifica dell’assenza di avvisi di accertamento o di rettifica l’intervallo dei due anni deve essere calcolato dalla data di richiesta del rimborso.

A titolo esemplificativo, per una richiesta di rimborso presentata il 15 marzo 2016, qualsiasi atto di accertamento o rettifica notificato prima del 15 marzo 2014 non verrà preso in considerazione, mentre rileveranno la presenza di atti di accertamento o di rettifica notificati dal 15 marzo 2014 al 14 marzo 2016.

Veniva inoltre precisato che gli atti da considerare ai fini della verifica del requisito in commento, non sono solo gli avvisi di accertamento e rettifica ai fini IVA, ma anche quelli relativi agli altri tributi amministrati dall’Agenzia delle entrate.

Si rileva, altresì, che nel computo degli atti da considerare al fine del calcolo degli importi accertati si deve tener conto di tutti quelli notificati nei due anni antecedenti la richiesta di rimborso, prescindendo dall’esito degli stessi, con eccezione degli atti annullati in autotutela o oggetto di sentenze favorevoli al contribuente passate in giudicato.

Autore: redazione fiscal focus

NUOVO BILANCIO:NEL CONTO ECONOMICO NIENTE SEZIONE STRAORDINARIA

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

A seguito delle novità introdotte con il D.Lgs. n.139/2015 nel nuovo conto economico non è più prevista, tra l’altro, l’indicazione degli oneri e dei proventi straordinari.

Dal 2016, pertanto, questi componenti di reddito dovranno essere riclassificati tra le voci ordinarie di costi e di ricavi del conto economico.

Ma perché questa scelta del Legislatore?

Ebbene, come noto, il D.Lgs. n.139/2015 recepisce le novità introdotte dalla Direttiva 2013/34/UE, con la quale si è cercato di adeguare il sistema informativo di bilancio alle attuali esigenze delle società di capitali.

Soprattutto con riferimento agli oneri e proventi straordinari si è rilevato come la loro esposizione in bilancio fosse spesso dettata da valutazioni soggettive del redattore. Ecco quindi il motivo per il quale il legislatore comunitario ha deciso di eliminare tale sezione dal conto economico, tenendo altresì conto delle disposizioni dettate dai principi contabili internazionali.

L’informativa da fornire in nota integrativa

Come poter dare evidenza, dunque, degli eventi straordinari che hanno inciso sulla determinazione del reddito?

Il Legislatore ha a tal fine previsto che la nota integrativa preveda una nuova, specifica, indicazione, relativa, appunto, ai costi e ricavi di entità o incidenza particolare.

Giova tuttavia di essere ricordato che, già in passato, l’articolo 2427 c.c. richiedeva l’esposizione della composizione delle voci “oneri straordinari” e “proventi straordinari” nella nota integrativa, se di ammontare apprezzabile.

Cosa è cambiato rispetto la vecchia formulazione?

In linea di massima è possibile affermare che il nuovo testo dell’articolo 2427 c.c. individua espressamente i casi in cui si può parlare di oneri e proventi straordinari, senza limitarsi più, come in passato, a rinviare alle voci del conto economico.

Pertanto, in virtù delle modifiche introdotte deve ritenersi ormai assodato che la straordinarietà del componente di reddito non è determinata dalla sua fonte ma dall’eccezionalità:

  • del suo importo
  • o della sua incidenza.

La congiunzione “o” lascia inoltre comprendere che questi due aspetti sono alternativi, ragion per cui sarà sufficiente l’eccezionalità dell’importo dell’onere/provento, oppure della sua incidenza, non essendo invece necessaria la compresenza dei due requisiti.

L’ ”eccezionalità”

La nuova definizione di oneri e proventi straordinari, tuttavia, apre la strada ad alcune incertezze, soprattutto in merito all’effettiva portata del carattere dell’ “eccezionalità”.

Quando può dirsi che l’entità o l’incidenza siano eccezionali?

Sicuramente sarà necessario attendere la riformulazione dei principi contabili nazionali per avere un quadro più completo.

Tuttavia, quello che è certo è che l’eccezionalità dovrà essere valutata con riferimento alla singola realtà aziendale.

Come sottolineato già da alcuni Autori potrebbe pertanto accadere che un costo/provento di carattere eccezionale per un’impresa potrebbe non esserlo per la controparte.

La definizione fornita dall’Oic 12

L’attuale principio OIC 12 fornisce una definizione di attività straordinaria che, come già detto, si discosta molto da quanto previsto dal D.Lgs. n. 139/2015.

Come già anticipato, infatti, i principi contabili nazionali si soffermano sulla fonte del provento/onere, senza tenere in considerazione l’entità o l’incidenza.

Più precisamente viene chiarito che “l’attività straordinaria include i proventi e gli oneri la cui fonte è estranea all’attività ordinaria della società. Sono considerati straordinari i proventi e gli oneri che derivano da:

  1. a) eventi accidentali ed infrequenti;
  1. b) operazioni infrequenti che sono estranee all’attività ordinaria della società.” 
    Autore: Lucia Recchioni

Accessibile via computer o cellulare, ci troveremo i nostri dati sanitari, referti, farmaci assunti. Ma potremo caricarci anche le informazioni dello smartwatch, sul nostro stile di vita. Il decreto che dà il via entra in vigore il 26 novembre (SPID)

STA PER ARRIVARE il primo luogo unico digitale per la nostra salute: con tutti i dati sanitari, i farmaci e i referti, le informazioni sulla nostra attività fisica. Accessibili via internet, da computer o cellulare. Si chiama Fascicolo sanitario elettronico e dopo tanti mesi di rinvii il Governo ha appena pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto che ne dà il via e che entrerà in vigore il 26 novembre. Il decreto chiede alle Regioni di fare il Fascicolo entro il 31 dicembre, ma ci sono dubbi che la data sarà rispettata, anche per via degli stessi ritardi nella pubblicazione del decreto. Alcune Regioni però sono già avanti (Lombardia, Emilia-Romagna, Provincia di Trento, Toscana) e le altre seguiranno.
Vediamo che cosa potremo farci, ma anche gli ostacoli che restano da superare per la realizzazione.

I contenuti del fascicolo. Sappiamo che il Fascicolo conterrà i link ad alcuni dati necessari (che dovranno esserci per forza) e ad altri invece facoltativi. Nel primo gruppo ci sono i dati identificativi, i referti, i verbali di pronto soccorso, le lettere di dimissione, il profilo sanitario sintetico, il dossier farmaceutico, il consenso o diniego a donazione organi e tessuti. Nei dati facoltativi, che potranno essere inseriti da medici, strutture sanitarie o dal paziente stesso, ci sono prescrizioni, farmaci assunti, vaccinazioni, certificati medici, esenzioni, “bilanci di salute”, tra le altre e numerose cose previste dal decreto. “Sarà uno strumento abilitante non solo per la cura ma anche per il benessere di tutti noi”, dice Roberto Moriondo, responsabile dei rapporti con le Regioni presso il Comitato di indirizzo dell’Agenzia per l’Italia Digitale. “I pazienti potranno infatti scaricare sul fascicolo i propri dati di attività fisica, che vengono dalle macchine della palestra o dal proprio smartwatch”, aggiunge.

Punto unico di monitoraggio per diagnosi e cura. È comodo e utile di per sé avere un posto unico con tutti i nostri dati di interesse sanitario. Lo è per noi, per tenere sotto controllo alcuni parametri; ma lo è anche per il nostro medico curante o il medico del pronto soccorso, per esempio, per migliorare la pratica di diagnosi e terapia. In particolare può essere utile durante le emergenze, appunto al pronto soccorso, per capire quali medicinali somministrare o quali no. Si possono evitare così anche classici errori, in ospedale, come la somministrazione di medicinali a cui il paziente è allergico oppure destinati a un’altra persona (a causa di dati errati). Il fascicolo è una novità complementare con la ricetta elettronica, di cui pure il ministero della Salute ha pubblicato questa settimana il decreto attuativo. Il medico curante potrà prescrivere un medicinale, un esame o una terapia associandone il codice al codice fiscale del paziente. Potremo quindi andare in farmacia o in un centro medico (per esami e terapie) senza ricetta fisica, ma soltanto con un promemoria fornito dal medico (su carta semplice). Fascicolo e ricetta elettronica assicurano insomma una centralizzazione e razionalizzazione delle informazioni, con risparmio di costi e un minore rischio di errori, rispetto all’uso della carta. Centralizzazione significa anche che i nostri dati sono disponibili a tutti i medici e ospedali del Paese. Quando cambieremo città per curarci, non dovremo più portarci dietro lastre, referti (anche in forma di CD), con il rischio- anche- che qualche informazione sia persa.

Tempistiche e modalità di accesso. Veniamo ai punti critici. I tempi: al momento non si sa quante Regioni riusciranno a rispettare la data del 31 dicembre. Tutte stanno affrontando infatti problemi a coinvolgere i medici di famiglia (che chiedono di essere pagati un extra, per questo servizio). In certi casi, inoltre aziende sanitarie e ospedaliere non sono ancora del tutto informatizzate e quindi non possono agevolmente alimentare il fascicolo dei propri pazienti. Meno critiche – ma pure ancora da completare – le modalità di accesso. “La Provincia di Trento, che ha il più avanzato esempio di fascicolo sanitario elettronico già in uso, contente ai cittadini l’accesso via computer dotato di smart card. Il che non è molto comodo. Sta ora sperimentando un accesso via codici o token, forniti dal sistema sanitario nazionale”, dice Moriondo. Il tutto sarà a puntino solo con il debutto di Italia Login e del Sistema pubblico dell’identità digitale, progetti che permetteranno un accesso unico e semplificato a tutti i servizi della PA (compresi quelli sanitari).

La repubblica di ALESSANDRO LONGO

Frode fiscale e aggravante della transnazionalità

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Penale, sentenza depositata il 19 novembre 2015

La Corte di Cassazione (Sez. 3. Pen.), con la sentenza n. 45935/15 pubblicata ieri, si èespressa in merito alla circostanza aggravante speciale prevista dall’art. 4 della Legge n. 146 del 2006, nell’ambito di un procedimento nel quale le imputazioni provvisorie hanno riguardato i reati di associazione a delinquere per commettere una serie indeterminata di reati contro la pubblica amministrazione e fiscali, corruzione di funzionari esteri, evasione fiscale.

I giudici penali di legittimità hanno “bacchettato” il giudice di merito per aver applicato l’aggravante della transnazionalità malgrado la genericità sul punto delle imputazione provvisorie. Di conseguenza è stato parzialmente accolto il ricorso proposto da uno dei soggetti coinvolti nel suddetto procedimento. Precisamente l’ordinanza gravata è stata annullata relativamente all’applicazione dell’art. 4 L. 146 del 2006, con rinvio per nuovo esame.

La Sezione Terza Penale di Piazza Cavour ha evidenziato – a beneficio del giudice del rinvio – che la transnazionalità non è un elemento costitutivo di un’autonoma fattispecie di reato, ma una qualità riferibile a qualsiasi delitto, a condizione che sia punito con la reclusione non inferiore nel massimo a quattro annie sia riferibile a un gruppo criminale organizzato, anche se operante solo in ambito nazionale, e ricorra, in via alternativa, una delle seguenti situazioni:

  • il reato sia commesso in più di uno Stato;
  • il reato sia commesso in uno Stato, ma con parte sostanziale della sua preparazione, pianificazione, direzione o controllo in un altro Stato;
  • il reato sia commesso in uno Stato, con implicazione di un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato;
  • il reato sia commesso in uno Stato, con produzione di effetti sostanziali in altro Stato.

Il Supremo Collegio ha poi ricordato:

  • che il riconoscimento del carattere transnazionale, di per sé, non comporta alcun aggravamento di pena, ma produce gli effetti sostanziali e processuali previsti dalla legge n. 146 del 2006 agli articoli 10 (Responsabilità amministrativa degli enti), 11 (Ipotesi speciali di confisca obbligatoria e confisca per equivalente), 12 (Attività di indagine a fini di confisca)e 13 (Attribuzione di competenze al procuratore distrettuale antimafia).
  • che l’aggravante per i reati transnazionali è applicabile anche al delitto di associazione per delinquere se alla commissione del reato ha contribuito un gruppo criminale organizzato in attività criminali in più di uno Stato, il quale è configurabile in presenza: di stabilità di rapporti tra gli adepti; minimo di organizzazione senza formale definizione di ruoli; non occasionalità o estemporaneità della stessa; costituzione in vista anche di un solo reato o per il conseguimento di un vantaggio finanziario o di altro vantaggio materiale;
  • che il gruppo criminale organizzato è un quid pluris rispetto al mero concorso di persone, ma si diversifica anche dall’associazione a delinquere ex art. 416 c.p. perché può trattarsi di un insieme di persone legate da rapporti stabiliti che abbia costituito un’organizzazione autonoma e distinta da quella alla quale è riferibile il reato, impegnata in attività illecite in più di uno Stato, anche minimale e priva di una formale definizione di ruoli, sebbene con occasionale o estemporanea.
Autore: redazione fiscal focus

IMU – TASI: novità dell’ultim’ora

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Continuano a susseguirsi le novità per ciò che riguarda le imposte sulla casa. Tra le novità dell’ultima ora si segnala l’equiparazione all’abitazione principale e quindi esente da TASI:

  • la casa coniugale assegnata al coniuge in caso di separazione, divorzio o annullamento del matrimonio;
  • gli immobili delle cooperative edilizie a proprietà indivisa adibite a prima casa dai soci;
  • gli alloggi sociali;
  • gli immobili posseduti dal personale delle forze armate.

Ma questa non è stata l’unica novità che ha riguardato le tasse sul mattone.

Già nella prima versione del DDL di Stabilità 2016 è stata prevista l’assimilazione per legge all’abitazione principale degli immobili concessi in comodato dal soggetto passivo ai parenti in linea retta entro il primo grado. La naturale conseguenza di tale previsione normativa, che dovrà essere confermata dai due rami del Parlamento, è l’esclusione dell’ambito applicativo di IMU e TASI delle seconde case di proprietà concesse in comodato a figli/e.

Via la corsa alla registrazione dei contratti comodato ad uso gratuito, dunque, per scongiurare di dover ancora fare i conti con le suddette tasse. Ma questo adempimento non sarà affatto indolore, dato che ai fini fiscali sarà necessaria la redazione del contratto per iscritto. Il contratto di comodato di beni immobili redatto in forma scritta è annoverato tra gli atti soggetti a registrazione in termine fisso, con applicazione dell’imposta in misura fissa indipendentemente dal fatto che sia stato redatto con atto pubblico o con scrittura privata autenticata.

Ma questa non sarà l’unica condizione da rispettare.

Infatti ci si potrà sottrarre al pagamento delle tediose imposte sul mattone, al verificarsi delle seguenti condizioni:

  • sarà innanzitutto necessario che l’immobile concesso in uso non sia annoverato tra gli immobili di lusso, ovvero accatastato nelle categorie A1, A8 e A9.;
  • per ciò che attiene il soggetto comodatario questo dovrà fissare nell’immobile ottenuto in comodato la propria residenza e inoltre sempre il comodatario non deve possedere un altro immobile ad uso abitativo in Italia;
  • il soggetto concedente deve invece aver adibito nel 2015 lo stesso immobile come abitazione principale. Inoltre tale soggetto non deve possedere un altro immobile ad uso abitativo in Italia.

La presenza di tutte le condizioni deve essere confermata dal soggetto passivo (proprietario o titolare di altro diritto reale) con la presentazione di apposita dichiarazione.

Che le condizioni sopra citate si verifichino congiuntamente è assai improbabile: un padre deve aver adibito un immobile ad abitazione principale nel 2015 e poi nel 2016 il padre lascia l’immobile che viene adibito ad abitazione principale dal figlio. La formulazione della norma ci lascia increduli, e conferma la tendenziale confusione del Legislatore che per evitare combattere potenziali comportamenti elusivi si ingegna nel creare mostri normativi. Per fortuna ancora il danno non è stato fatto. La questione si potrà risolvere in Parlamento, sempre che qualcuno ne abbia reali intenzioni.

Tra le altre novità sugli immobili si segnala l’applicazione dell’IMU e della TASI agli immobili ubicati nelle città “ad alta tensione abitativa e concessi in locazione sulla base di contratti a canone concordato, quindi ubicati nelle città “ad alta tensione abitativa”.

Autore: redazione fiscal focus