Archivi categoria: Normativa del lavoro

Jobs Act dei lavoratori autonomi: è tempo di rafforzare le tutele

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

La Lapet chiede una riduzione dell’aliquota contributiva della GS INPS al 24%, mediante un decremento progressivo di un punto percentuale annuo

È risaputo che da anni i lavoratori autonomi iscritti alla Gestione separata INPS sono vittime di una forte pressione contributiva, che spesso porta al conseguente abbandono dell’attività professionale intrapresa per trovare nuovi sbocchi lavorativi. La Lapet, infatti, ha confermato che – oggi più che mai – è necessario un intervento per ovviare a tale situazione, anche alla luce dei dati che vedono nel 2014 un calo di quasi il 10%, (-8,6%) rispetto all’anno precedente, di iscritti alla Gestione separata INPS. Inoltre, mentre i collaboratori sono diminuiti del 2,4 %, i professionisti hanno registrato un calo ben più marcato del 30,1%.

“Un trend negativo che non deve stupire – ha commentato Roberto Falcone presidente nazionale Lapet – Era facilmente prevedibile che, dopo il boom degli anni passati, il perdurare della forte pressione contributiva, avrebbe portato alla fuga dalla gestione separata, con il conseguente incremento del sommerso. È dunque giunto il momento di intervenire a favore di tutti quei professionisti che tra l’altro, in questo periodo di recessione, continuano a contribuire seriamente alla creazione di ricchezza nazionale”.

Nuove professioni – Sul punto, una recente indagine svolta da CNA Professioni ha evidenziato che negli anni della crisi il numero dei professionisti è aumentato in maniera significativa, in particolar modo quello dei professionisti non organizzati in ordini o collegi. Si tratta delle nuove professioni, quelle di cui dalla Legge n. 4/2013. “Per questo motivo servono interventi normativi organici, concreti e tempestivi, realmente in grado di liberare le energie positive di un numero crescente di professionisti. – ha aggiunto Giorgio Berloffa presidente Cna Professioni – È evidente, infatti, nonostante l’ampia portata di detti fenomeni economici e sociali, il ritardo del nostro Paese a dotarsi di un sistema organico di misure rivolte a ottemperare esigenze e peculiarità delle attività dei genuini prestatori di lavoro autonomo, i veri professionisti. Per tale motivo guardiamo con fiducia le misure contenute nel ddl Stabilità 2016 e collegato. Tra queste, in materia previdenziale, il blocco dell’aliquota contributiva al 27 % anche per 2016, rappresenta certamente un intervento molto importante”.

Ridurre aliquota INPS – Al riguardo, è doveroso ricordare che l’attuale normativa (art. 2, comma 57, L. n. 92/2012 c.d. Riforma Fornero) prevede un incremento delle aliquote contributive, in maniera indiscriminata, per tutti i lavoratori iscritti alla gestione separata INPS, fino al 33% a decorrere dall’anno 2018. Incremento introdotto con il dichiarato intento di contrastare il fenomeno del rapporto di lavoro subordinato, mascherato da attività di collaborazione coordinata e continuativa e a progetto.

È superfluo affermare che il legislatore avrebbe dovuto prevedere una diversa disciplina per i professionisti iscritti alla gestione separata, i quali da tale fenomeno risultano totalmente estranei e la cui genuina attività autonoma non può essere assimilata ad eventuale attività fraudolenta di collaborazione coordinata e continuativa. – ha aggiunto Falcone – Riteniamo pertanto necessario introdurre misure strutturali, che riconfigurino il complessivo onere contributivo e non norme di proroga, anno per anno”.

Difatti, la Lapet sostiene da anni la volontà di introdurre un sistema previdenziale che preveda un onere contributi pari al 24 %, con un decremento progressivo di 1 punto percentuale annuo. “L’aliquota al 24 % – ha precisato Falcone – da un lato è rispettosa del principio di equità contributiva nei confronti di tutti i soggetti iscritti, dall’altro consente l’adeguatezza delle future prestazioni pensionistiche”.

Rimborsi chilometrici: esenzione condizionata

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Con la R.M. 92/E del 30.10.2015, l’Amministrazione Finanziaria analizza il regime fiscale dei rimborsi chilometrici, ribadendo quanto già sostenuto nei precedenti documenti di prassi (Circolare n. 326/E del 1997 e Risoluzioni n. 54/E del 1999, n. 191/E del 2000, n. 232/E del 2002 e n. 53/E del 2009) ovvero che i rimborsi chilometrici erogati per l’espletamento della prestazione lavorativa in un comune diverso da quello in cui è situata la sede di lavoro, sono esenti da imposizione, sempreché, in sede di liquidazione, l’ammontare dell’indennità sia calcolato in base alle tabelle ACI, avuto riguardo alla percorrenza, al tipo di automezzo usato dal dipendente e al costo chilometrico ricostruito secondo il tipo di autovettura. Detti elementi dovranno risultare dalla documentazione interna conservata dal datore di lavoro.

Nel caso sottoposto al vaglio dell’Agenzia, una società assicurativa, che si avvale tra i propri dipendenti di alcune figure professionali che svolgono frequentemente le proprie mansioni in trasferta, in particolare al di fuori del territorio comunale ove è ubicata la sede di lavoro di assegnazione (cd. missione temporanea) anche attraverso l’utilizzo dell’autovettura personale, chiede lumi sulla deducibilità delle suddette spese.

La società in questione al fine di determinare i rimborsi da erogare ai dipendenti utilizza un particolare meccanismo informativo, ponendo a confronto i chilometri calcolati “dalla sede di lavoro alla località di missione” (di seguito “prima percorrenza”) con quelli “dal domicilio alla località di missione” (di seguito “seconda percorrenza”) operando come segue:

  • quando il percorso per raggiungere la località di missione, calcolato a partire dall’abitazione, è più breve rispetto a quello calcolato partendo dalla sede di lavoro (il calcolo della “seconda percorrenza” risulta minore della “prima percorrenza”), l’indennità chilometrica spettante viene interamente riconosciuta in regime di esenzione fiscale e contributiva;
  • quando, invece, il percorso per raggiungere la località di missione, calcolato a partire dall’abitazione, è più lungo rispetto a quello calcolato partendo dalla sede di lavoro (il calcolo della “seconda percorrenza” risulta maggiore della “prima percorrenza”), l’indennità chilometrica, seppur corrisposta in ragione dell’intero percorso, è assoggettata a tassazione, fiscale e previdenziale, per la sola quota riferibile alla maggiore distanza percorsa; ciò nel presupposto che l’importo tassato è da considerarsi quale rimborso erogato per il tratto abitazione-sede lavoro.

L’istante giustifica il proprio comportamento in ragion del fatto che iI rimborso delle spese di viaggio per il tragitto abitazione-sede di lavoro, a suo parere, costituisce un ammontare fiscalmente rilevante ai sensi dell’art. 51 del TUIR, dal momento che il costo sostenuto al riguardo risulta già forfettariamente “rimborsato” con il riconoscimento delle detrazioni per lavoro dipendente di cui all’art. 13 del TUIR.

Su tale questione interviene l’Agenzia, che partendo dal principio di onnicomprensività per i redditi di lavoro dipendente ex articolo 49 del TUIR, ribadisce innanzitutto che per le trasferte fuori del territorio comunale sono previsti tre distinti sistemi di tassazione in ragione del tipo di rimborso (analitico, forfetario o misto) scelto e non è possibile ipotizzare, accanto alle fattispecie individuate dal Legislatore tributario nel comma 5 dell’art. 51 del TUIR, nuovi e diversi sistemi di calcolo degli importi che non concorrono al reddito.

Ciò detto, viene chiarito che:

  • le indennità o i rimborsi di spese per le trasferte nell’ambito del territorio comunale, tranne i rimborsi di spese di trasporto, comprovate da documenti provenienti dal vettore, concorrono a formare il reddito;
  • per quanto concerne il regime fiscale da applicare ai rimborsi spese corrisposti sotto forma di indennità chilometrica, in linea con i precedenti interventi, l’Amministrazione Finanziaria ha chiarito che i rimborsi chilometrici erogati per l’espletamento della prestazione lavorativa in un comune diverso da quello in cui è situata la sede di lavoro, sono esenti da imposizione, sempreché, in sede di liquidazione, l’ammontare dell’indennità sia calcolato in base alle tabelle ACI, avuto riguardo alla percorrenza, al tipo di automezzo usato dal dipendente e al costo chilometrico ricostruito secondo il tipo di autovettura. Detti elementi dovranno risultare dalla documentazione interna conservata dal datore di lavoro.

Applicando tale ultimo principio al caso in esame, viene chiarito che:

  • laddove la distanza percorsa dal dipendente per raggiungere, dalla propria residenza, la località di missione risulti inferiore rispetto a quella calcolata dalla sede di servizio, con la conseguenza che al lavoratore è riconosciuto, in base alle tabelle ACI, un rimborso chilometrico di minor importo, quest’ultimo è da considerare non imponibile ai sensi dell’articolo 51, comma 5, secondo periodo, del TUIR;
  • nell’ipotesi in cui la distanza percorsa dal dipendente per raggiungere, dalla propria residenza, la località di missione risulti maggiore rispetto a quella calcolata dalla sede di servizio, con la conseguenza che al lavoratore viene erogato, in base alle tabelle ACI, un rimborso chilometrico di importo maggiore rispetto a quello calcolato dalla sede di servizio, la differenza è da considerarsi reddito imponibile ai sensi dell’articolo 51, comma 1, del TUIR.
Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Accertamento. Per l’IRAP il termine non raddoppia

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Le violazioni non hanno rilevanza penale

Il raddoppio dei termini per l’esercizio dell’attività accertatrice, in caso di violazioni che comportano l’obbligo di denuncia all’Autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 331 c.p.p., non opera con riguardo all’IRAP, poiché le dichiarazioni che costituiscono oggetto materiale dei reati di cui al D.Lgs. n. 74/2000 sono solamente quelle relative alle imposte sui redditi e all’IVA.

È quanto ha affermato la Commissione Tributaria Provinciale di Como nella sentenza n. 514/02/15.

Nel caso di specie la CTP ha ritenuto operante il raddoppio dei termini di cui all’art. 43 D.P.R. n. 600/1973 per la notifica dell’accertamento oggetto di causa, eccetto che per la pretesa relativa all’IRAP.

Per la Cassazione (sentenza n. 4906 del 2015) – hanno evidenziato i giudici comaschi – è errata l’inclusione dell’IRAP nella quantificazione dell’imposta evasa non trattandosi di un’imposta sui redditi in senso tecnico.

Inoltre, le dichiarazioni costituenti l’oggetto materiale del reato di cui all’articolo 4 D.Lgs. n. 74/2000 (contestato nella fattispecie) sono solamente le dichiarazioni dei redditi e le dichiarazioni annuali IVA (v. circolare del Ministero delle finanze n. 154/E del 4/8/2000, che motiva l’esclusione della dichiarazione IRAP con la natura reale di siffatta imposta, che perciò considera non incidente sul reddito).

L’articolo 4 D.Lgs. n. 74/2000, che configura un reato di pericolo concreto, tutela il bene giuridico patrimoniale dalla percezione del tributo ed è all’indebito vantaggio d’imposta, deducibile dalle correlate dichiarazioni annuali, che deve farsi riferimento per l’individuazione del profitto del reato (Cass., Sez. 3 pen. 11147/2011). “Delle imposte evase” – si legge allora in sentenza– “come indicate dall’agenzia dovrà tenersi conto pertanto di quanto sopra menzionato con riferimento all’esclusione dell’Irap (vedi sul punto anche Ctp Lombardia Brescia, sezione X, 16/4/2014, n. 34) non essendo legittimo il raddoppio dei termini per la notifica degli avvisi di accertamento di cui all’art. 43 terzo comma dpr 29/9/1973 n. 600 con riferimento all’imposta succitata. Il raddoppio dei termini è invece legittimo per le altre imposte ai fini reddituali e Iva, essendo stato chiaramente specificato dalla Corte costituzionale con la sentenza del 25/7/2011 n. 247 che il raddoppio dei termini di decadenza dal potere di accertamento previsto dal dl n. 223/2006 è cagionato da un fattore obiettivo, rinvenibile nell’obbligo di presentazione della denuncia penale (…)”.

Insomma, poiché il raddoppio dei termini opera in presenza di violazioni tributarie per le quali esiste un obbligo di denuncia per uno dei reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000 e poiché le violazioni relative all’IRAP non comportano tale obbligo di denuncia all’autorità giudiziaria è da escludere che l’istituto in parole possa operare per questo tributo.

Imposta di successione: le novità per la dilazione

Premessa – Ai sensi della formulazione originaria del comma 1 art. 38 D.lgs. n. 346/1990, al contribuente che riceve avviso di liquidazione con cui l’Agenzia delle Entrate liquida l’imposta di successione, può essere concesso di eseguire il pagamento nella misura non inferiore al 20% delle imposte, delle sanzioni amministrative e degli interessi di mora, nel termine di 60 giorni dalla notifica dell’avviso di liquidazione e versare il rimanente importo in 5 rate annuali posticipate. La dilazione è richiesta alla stessa Agenzia delle Entrate e da questa accordata o negata entro novanta giorni dalla data della richiesta stessa.

Sugli importi dilazionati sono dovuti, con decorrenza dalla data di concessione della dilazione, gli interessi.
Ad ogni modo la dilazione è concessa a condizione che sia prestata idonea garanzia mediante ipoteca o cauzione in titoli di Stato o garantiti dallo Stato al valore di borsa, o fideiussione rilasciata da istituto o azienda di credito o polizza fideiussoria rilasciata da impresa di assicurazioni autorizzata. Gli atti e le formalità relativi alla costituzione e alla estinzione di queste garanzie sono soggetti all’imposta di registro e ipotecaria in misura fissa.
Inoltre, il contribuente ha in ogni caso diritto di ottenere la dilazione se offre di iscrivere ipoteca su beni o diritti compresi nell’attivo ereditario di valore complessivo superiore di almeno un terzo all’importo da dilazionare, maggiorato dell’ammontare dei crediti garantiti da eventuali ipoteche di grado anteriore iscritte sugli stessi beni e diritti.Le nuove regole per la dilazione – Con la pubblicazione in Gazzetta ufficiale n. 55 del 7 ottobre 2015 del d.lgs. n. 159/2015 (“Misure per la semplificazione e razionalizzazione delle norme in materia di riscossione, in attuazione dell’articolo 3, comma 1, lettera a), della legge 11 marzo 2014, n. 23”), è sostanzialmente modificato il predetto art. 38 del d.lgs. n. 346/1990.
In particolare, sulla base del novellato art. 38, fermo restando la necessità di eseguire, entro 60 giorni dalla notifica, il versamento di almeno il 20% dell’importo indicato nell’avviso di liquidazione, l’erede, dall’entrata in vigore del decreto, può rateizzare il restante importo in modo automatico senza la necessità di ottenere l’autorizzazione da parte dell’ufficio dell’Agenzia delle Entrate.
Il numero delle rate è fissato in 8 trimestrali (prima erano 5 rate annuali). Tuttavia, per importi superiori a ventimila euro, il numero massimo di rate trimestrali è fissato in 12. Inoltre, la dilazione non è ammessa per importi inferiori a 1.000 euro e non occorre più prestare garanzia.
Sugli importi dilazionati sono dovuti gli interessi, calcolati dal primo giorno successivo al pagamento del 20% dell’imposta liquidata. Le rate trimestrali nelle quali il pagamento è dilazionato scadono l’ultimo giorno di ciascun trimestre. La decadenza del beneficio – Il d.lgs. n. 159/2015 interviene modificando anche le cause di decadenza dal beneficio della rateizzazione. Prima della modifica, il comma 5 dell’art 38 disponeva che il contribuente, salva l’applicazione delle sanzioni stabilite per il ritardo nel pagamento, decadeva dal beneficio della dilazione se non provvedeva al pagamento delle rate scadute entro 60 giorni dalla notificazione di apposito avviso. Era tuttavia in facoltà dell’ufficio competente concedere una nuova dilazione.
In base al nuovo comma 3 del predetto art. 38, invece, è il mancato pagamento della somma pari al 20% dell’imposta liquidata, entro il termine di 60 giorni dalla notifica dell’avviso di liquidazione, ovvero il mancato pagamento di una delle rate entro il termine di pagamento della rata successiva, che fa decadere l’erede dalla rateazione con la conseguenza che l’importo dovuto, dedotto quanto versato, è iscritto a ruolo con relative sanzioni e interessi.Il lieve inadempimento – E’, tuttavia, introdotto il concetto del “lieve inadempimento, in base al quale, il contribuente non decade dalla rateizzazione in due ipotesi:
a) insufficiente versamento della rata, per una frazione non superiore al 3% e in ogni caso, a euro 10mila;
b) tardivo versamento della somma iniziale pari al 20%, non superiore a sette giorni.

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Finanziamenti soci: necessaria la prova scritta

La documentazione utile per il corretto inquadramento

Premessa – La disciplina normativa relativa al finanziamento da parte dei soci, cerca di porre un freno alla sottocapitalizzazione delle “piccole” società. L’inquadramento del finanziamento soci non è agevole: in concreto può oscillare tra capitale di rischio e capitale di credito. Tale difficile classificazione, oltre ad essere possibile causa di contenzioso tra le parti, può ingenerare problemi di natura fiscale. 
Versamento da pare di soci – Nella prassi è in uso, soprattutto nelle società di piccole e medie dimensioni, sopperire al fabbisogno finanziario, oltre che con il ricorso a terzi (banche, fornitori), anche con l’acquisizione della disponibilità direttamente dai soci sia sotto forma di finanziamento che sia sotto forma di versamenti atipici

Finanziamento – Il finanziamento dei soci, è una operazione distinta da quella del conferimento di capitale di rischio. Con l’acquisizione di capitali tramite il finanziamento dei soci, la società si obbliga a remunerare il capitale ricevuto (se non è prevista la gratuità) pattuendone il rimborso, con una operazione che, per giurisprudenza e dottrina consolidate, è assimilabile al contratto di mutuo, di cui apprende la disciplina dettata dall’art. 1813 e seguenti del Codice Civile. In termini generali, gli apporti dei soci rappresentano erogazioni a vantaggio della società partecipata per accrescerne la dotazione finanziaria, o anche patrimoniale, necessaria per l’equilibrato svolgimento della gestione.
Individuazione – Sul piano concreto, se da un lato è facile individuare il conferimento di capitale sociale da parte del socio, dall’altro non è sempre agevole accertare se un versamento effettuato dal socio a favore della società rappresenti un reale apporto di capitale proprio o una operazione di finanziamento concessa alla società.

Convenienza – Nella prassi, invero, spesso accade che i versamenti dei soci trovino giustificazione non nella incapacità dell’azienda di acquisire credito da terzi, ma in calcoli di convenienza, tra cui, ad esempio l’arbitraggio fiscale dato dal risparmio di imposta in capo alla società, per la deduzione dal reddito di impresa degli interessi passivi maturati, se maggiore delle imposte dovute dai soci sugli interessi percepiti. Può risultare utile anche per la volontà dei soci di non superare la soglia minima del capitale sociale prevista per l’obbligatorietà del collegio sindacale e, quindi, per ottenere un risparmio in termini di costi amministrativi di gestione e per evitare le verifiche di legge che competono all’organo di controllo. Altro aspetto da considerare è la volontà di sottrarre al rischio imprenditoriale i capitali investiti nell’impresa, considerato che le somme versate a titolo di finanziamento sono rimborsabili dalla società senza i vincoli di legge dettati per il rimborso del capitale di rischio, perché l’operazione è assimilabile al contratto di mutuo.

Accordo scritto – Non di rado, nella pratica corrente, il rapporto di finanziamento non viene regolato da alcun accordo scritto e il suo trattamento si può dedurre esclusivamente dal comportamento concludente delle parti e dall’iscrizione di tale operazione tre i debiti esposti in bilancio d’esercizio. Tale modo di operare può ingenerare problemi di natura fiscale.

Comunicazione – Tali problematiche si riverberano anche per l’adempimento in scadenza a fine mese riguardante la comunicazione dei beni/finanziamenti soci. L’ottemperanza a tale obbligo tributario può costringere la società a raccogliere e mettere in ordine i documenti necessari ed effettuare una ulteriore utile verifica sulla correttezza di questi ultimi e del comportamento contabile relativo al finanziamento.

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

ASPI per lavoratori sospesi: prorogata fino alla fine dell’anno

Dietrofront del Ministero del Lavoro sull’erogazione dell’ASpI per lavoratori sospesi: nella prestazione rientrano anche le cessazioni intervenute dal 23.10 al 31.12 di quest’anno.

L’”indennità di disoccupazione ASpI per lavoratori sospesi” spetta anche per periodi di sospensione dell’attività attivati entro il 23 settembre e fino al 31 dicembre 2015, nel limite massimo di 20 milioni di euro. A tal fine, è necessario che la relativa istanza sia stata presentata nel termine ultimo di 20 giorni dall’inizio delle sospensioni, vale a dire entro il 12 ottobre 2015.

A darne notizia è il Ministero del Lavoro con la circolare n. 27/2015.

ASpI per lavoratori sospesi – La Riforma Fornero (L. n. 92/2012) all’art. 3, co. 17 ha riconosciuto – in via sperimentale per ciascuno degli anni 2013, 2014 e 2015 – l’indennità ASpI anche per i lavoratori sospesi per crisi aziendali od occupazionali. La durata massima del trattamento, in tal caso, non può superare 90 giornate da computare in un biennio mobile. A tal fine, sono state dedicate risorse finanziarie per un importo non superiore a 20 milioni di euro per ciascuno dei suddetti anni.

Stop all’ASpI – Ora, a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 148/2015 (24 settembre 2015), è stata prevista l’abrogazione della suddetta norma. Ragione per cui, l’INPS – su parere concorde del Ministero del Lavoro – non potrà più erogare prestazioni di “indennità di disoccupazione ASpI per lavoratori sospesi” per le giornate di sospensione intervenute dal 24 settembre 2015.

Cosa significa tutto questo? La risposta è rinvenibile tra le righe del messaggio n. 6024/2015. In pratica, per le richieste di “indennità di disoccupazione ASpI per lavoratori sospesi”, per periodi che contengono anche le giornate successive al 23 settembre 2015, la procedura INPS, al momento della liquidazione delle suddette indennità, automaticamente prenderà in considerazione solo i periodi fino al 23 settembre 2015, ultimo giorno di vigenza della normativa.
Quindi le aziende, i consulenti e gli Enti bilaterali hanno potuto presentare le domande di indennità di disoccupazione ASpI per lavoratori sospesi, fino alla data del 12 ottobre 2015, corrispondente al 20° giorno successivo al 23 settembre 2015 (ultimo giorno utile di sospensione).

Dietrofront del MLPS – Tuttavia, spiega il Ministero del Lavoro, tale interpretazione incide su fattispecie già perfezionate, determinando un evidente vuoto di tutele, a causa del venir meno di una misura prevista, seppur in via sperimentale, sino a tutto il 2015. Alla luce di ciò, secondo la Direzione generale degli ammortizzatori sociali sarebbe più opportuno assumere un’ interpretazione estensiva della norma, che pone in particolare rilievo la validità degli impegni assunti dalle parti in sede di consultazione sindacali, attraverso accordi stipulati prima dell’entrata in vigore della norma abrogativa, che abbiano previsto l’inizio delle sospensioni entro la medesima data e sino al 31.12.2015, e le cui istanze siano state presentate entro il 20° giorno successivo al 23 settembre 2015, ultimo giorno utile di inizio delle sospensioni, fermo restando, naturalmente, il limite di spesa pari a 20 milioni di euro per l’anno 2015.

In altri termini, entro la data del 23 settembre 2015 è necessario che sia stato stipulato l’accordo con la previsione delle sospensioni entro la medesima data e sino al 31 dicembre 2015, e che la relativa istanza sia stata presentata nel termine ultimo di 20 giorni dall’inizio delle sospensioni, vale a dire entro il 12 ottobre 2015.

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Professionisti “senza cassa”: nuovo blocco dell’aliquota INPS

Per il terzo anno consecutivo il Governo blocca l’aliquota della Gestione separata INPS al 27,72%

Il Governo corre in aiuto ai liberi professionisti non assicurati presso altre forme pensionistiche obbligatorie iscritti alla gestione separata INPS (art. 2, co. 26 della L. n. 335/1995). Per questi ultimi, infatti, l’aliquota contributiva dovuta per il 2016 rimane fissata nella stessa misura del 2015, ossia al 27,72%.
A prevederlo è l’attuale bozza del Ddl Stabilità 2016, che sottrae temporaneamente per il terzo anno consecutivo i professionisti iscritti alla Gestione separata INPS alla tabella di marcia prevista dalla Riforma Fornero (art. 2, comma 57, L. n. 92/2012).
Per quest’anno, infatti, si doveva pagare il 28,72% come previsto dal “Decreto Milleproroghe” (L. n. 11/2015), fino ad arrivare al 33,72% nel 2018.

Soggetti interessati – L’obbligo assicurativo a favore dei lavoratori iscritti alla Gestione separata INPS prende le mosse dalla riforma previdenziale del Governo Dini (L. n. 335/1995), che ha istituito presso l’INPS una previdenza obbligatoria, finalizzata a tutelare tutte quelle figure professionali emergenti, privi di appositi albi (i c.d. “senza cassa”).

Ai sensi dell’art. 2, co. 25-33 della L. n. 335/1995, i soggetti tenuti all’iscrizione alla Gestione separata INPS, sono coloro che percepiscono le seguenti categorie di reddito:
• redditi derivanti dall’esercizio abituale e professionale di un’attività di lavoro autonomo per la quale non è stata prevista una specifica cassa previdenziale. Si tratta di tutti i professionisti senza Albo, degli iscritti ad Albi per i quali non è prevista una Cassa di previdenza e, dei professionisti iscritti ad Albi per i quali è prevista la Cassa di previdenza ma risultano essere esonerati dalla stessa;
• redditi derivanti dai rapporti di collaborazione a progetto o di collaborazione coordinata e continuativa, nonché i redditi derivanti da rapporti di lavoro autonomo occasionale che superano la soglia dei 7.000 euro (limite rivalutato dal D.Lgs. n. 81/2015);
• redditi derivanti da attività di vendita a domicilio ex art. 36, L. n. 426/71;
• redditi derivanti da altre specifiche attività che sono state ricondotte a questa forma previdenziale. Si pensi, a tal proposito, agli assegni di ricerca, alle borse per dottorati di ricerca, ai redditi percepiti dagli amministratori locali, agli associati in partecipazione e ai prestatori di lavoro occasionale accessorio.

Blocco aliquota INPS – Il progressivo incremento dell’aliquota contributiva IVS degli iscritti alla Gestione separata INPS, fa parte della tabella di marcia introdotta dalla Riforma Fornero (art. 2, comma 57, L. n. 92/2012), successivamente modificata dal D.L. Sviluppo (art. 46-bis, comma 1, lett. g, del D.L. n. 83/2012, convertito nella L. n. 134/2012), dalla Legge di Stabilità 2014 (art. 1, comma 491 e 744 della L. n. 147/2013) dal Decreto Milleproroghe (art. 10-bis del D.L. n. 192/2014) e da ultimo dal Ddl Stabilità 2016.

A tal proposito, si ricorda che il “Decreto Milleproroghe” (L. n. 11/2015) all’art. 10-bis ha previsto che: “Per i lavoratori autonomi, titolari di posizione fiscale ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, iscritti alla Gestione separata di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, che non risultino iscritti ad altre gestioni di previdenza obbligatoria ne’ pensionati, l’aliquota contributiva, di cui all’articolo 1, comma 79, della legge 24 dicembre 2007, n. 247, e successive modificazioni, è del 27 per cento per gli anni 2014 e 2015, del 28 per cento per l’anno 2016 e del 29 per cento per l’anno 2017”.

Ora, alla luce della recente Manovra Finanziaria, tale incremento contributivo è destinato a subire profondi cambiamenti, a cominciare dall’anno prossimo quando l’aliquota INPS sarà bloccata al 27,72%.

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

730: le risposte del Fisco ai Caf

Circolare n. 34/E del 22 ottobre 2015

Premessa – CAF e professionisti chiamano, Fisco risponde. Arrivano le risposte delle Entrate alle ulteriori richieste di chiarimenti sulla dichiarazione precompilata. Con la circolare n. 34/E pubblicata ieri, infatti, l’Agenzia sgombra il campo dai dubbi sorti sul visto di conformità infedele e sulla tempistica di presentazione dei modelli 730 originario e rettificativo. 
Sanzione visto infedele – La disposizione secondo cui il contribuente non è soggetto ad attività di accertamento, iscrizione a ruolo e riscossione per crediti il cui ammontare non superi 30 euro, vale anche ad escludere la punibilità per l’apposizione del visto infedele sulla relativa dichiarazione. L’ammontare di tale limite è stato innalzato a 30 euro a decorrere dal 1° luglio 2012. Il nuovo limite si applica anche per escludere la punibilità del visto infedele, per l’attività posta in essere dagli uffici a decorrere da tale data, anche se relativa a pregressi periodi d’imposta.

Come presentare il modello rettificativo – Nel caso in cui il Caf o il professionista presentino la dichiarazione rettificativa entro il 10 novembre, pagheranno la sola sanzione ridotta e non anche imposte e interessi, purché il versamento venga effettuato entro la stessa data. Rimane fermo che, se il modello rettificativo sia presentato per correggere un 730 originario presentato tardivamente, ossia dopo la scadenza del 23 luglio, sarà dovuta anche la sanzione per la ritardata presentazione dello stesso.

Sulla tardività vale la proroga – E’ il 23 luglio 2015 il termine superato il quale la presentazione del modello 730 s’intende effettuata tardivamente. E’ sempre da questa data quindi che decorre il termine per regolarizzare la violazione della tardività. Le Entrate chiariscono che il riferimento temporale, nel caso della tardività dei modelli, coincide con il termine prorogato dal Dpcm del 26 giugno 2015 per la presentazione del 730. Scelta questa che, prevedendo più tempo per il corretto svolgimento dei relativi adempimenti e tendendo conto delle esigenze dei contribuenti e dell’Amministrazione Finanziaria, ha consentito ai Caf e ai professionisti di completare la trasmissione in via telematica delle dichiarazioni presentate entro i termini previsti.

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Riscossione: nuova possibilità di rateizzazione

Premessa – I contribuenti che avevano perso la possibilità di rateizzare i debiti con il fisco, perché erano decaduti, hanno la possibilità di richiedere di nuovo un piano di rateizzazione. Lo annuncia Equitalia in una nota. La domanda, che si può presentare da ieri fino al 21 novembre, riguarda i contribuenti “decaduti” negli ultimi 2 anni.

Novità riscossione – E’ di fatto diventato operativo il Decreto Legislativo che prevede le “Misure per la semplificazione e razionalizzazione delle norme di materie di riscossione” che, tra l’altro, prevede a regime anche la possibilità, per le nuove rateizzazione, di essere sempre riammesso alle rate (ma saldando subito le rate scadute) e lo stop ai pagamenti in caso di sospensione da parte di un giudice. Ecco come Equitalia spiega le novità scattate ieri.

Nuova finestra per i vecchi piani revocati. – Chi è decaduto dal piano di rateizzazione tra il 22 ottobre 2013 e il 21 ottobre 2015, può chiedere nuovamente una dilazione delle somme non versate fino a un massimo di 72 rate mensili. Occorre presentare la domanda entro il 21 novembre. I moduli sono disponibili allo sportello o nella sezione Rateizzazione – Modulistica presente nell’Area Cittadini e nell’Area Imprese del sito www.gruppoequitalia.it.

Limiti – Ci sono però alcuni limiti alle regole generali sulla rateizzazione: il nuovo piano concesso non è prorogabile e si decade in caso di mancato pagamento di due rate anche non consecutive.

Riammissione per le nuove rateizzazioni – Per i piani concessi a partire dal 22 ottobre 2015, la rateizzazione decade con il mancato pagamento di cinque rate anche non consecutive. Tuttavia, pagando le rate che risultano scadute, si può chiedere un nuovo piano di dilazione e riprendere i pagamenti.

Stop ai pagamenti in caso di sospensione. – Il contribuente che ha ottenuto una sospensione giudiziale o amministrativa può interrompere i pagamenti delle rate, limitatamente ai tributi interessati, per tutta la durata del provvedimento. Allo scadere della sospensione può chiedere di rateizzare il debito residuo fino a un massimo di 72 rate.

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Stabilità 2016: le news sul fronte lavoro

Sgravio contributivo mini per il 2016: importo ridotto al 40% per 24 mesi

Il 15 ottobre scorso, il Consiglio dei Ministri ha dato il via libera alla Legge di Stabilità 2016. Tra le tante misure contenute nella Manovra Finanziaria, che ora si appresta ad affrontare l’esame del Parlamento e dell’Unione Europea, poche ma significative risultano quelle previste sul fronte lavoro. Le novità, in particolare, vanno: dallo sgravio contributivo anche per il 2016 (in misura ridotta) all’aumento della soglia della “no tax area” per i pensionati, nonché alla settima salvaguardia per gli esodati. Importanti novità anche per il c.d. “opzione donna”, che viene esteso anche per il 2016. 
Sgravio contributivo – Sul fronte degli sgravi contributivi concessi per i neo assunti a tempo indeterminato, introdotto dalla Legge di Stabilità 2015 (art. 1, co. 118 della L. n. 190/2014), il Governo conferma la volontà di stabilizzare l’incentivo anche per le assunzioni effettuate nel 2016, ma in misura e durata ridotta. Infatti, in luogo dell’originario sgravio massimo di 8.060 euro, dovrebbe trovare posto una riduzione dei contributi al 40% per 24 mesi, e non più 36 mesi come finora previsto. Una misura che secondo le stime dell’Esecutivo porterà complessivamente a un alleggerimento pari a 834 milioni nel 2016 per salire a 1,5 miliardi nel 2017.

Sul punto, è possibile osservare come le scelte governative determineranno probabilmente una corsa allo sgravio contributivo, in quanto i datori di lavoro che intendessero assumere un lavoratore a tempo indeterminato – e lo faranno entro il 31 dicembre 2015 – godranno dello sgravio in misura intera (8.060 euro) e per una durata di 3 anni complessivi, anziché 2.

Pensionati – Buone nuove anche per i pensionati. Infatti, è previsto un leggero aumento delle soglie di reddito della “no tax area”, che dovrebbe passare:
• dagli attuali 7.750 euro a 8.000euro, per i pensionati con età anagrafica superiore ai 75 anni;
• dagli attuali 7.500 euro a 7.750 euro, per i pensionati con età anagrafica inferiore ai 75 anni.
Settima salvaguardia – Si riapre invece, come promesso, la partita sulla settima operazione di “salvaguardia” degli esodati, ossia quei soggetti che non hanno ancora maturato i requisiti della Legge Fornero per accedere al pensionamento. Al riguardo, per avere maggiore certezze circa i soggetti interessati ed i criteri di accesso bisognerà attendere che il testo venga approvato definitivamente. Per finanziare la settima “salvaguardia” verranno utilizzate le risorse non impiegate nelle precedenti salvaguardie chiuse.
Opzione donna – A sorridere saranno anche le quote rosa. Infatti, il regime sperimentale per le donne (c.d. “opzione donna”) che intendono lasciare il lavoro con 35 anni di contributi e 57-58 anni di età (e la pensione calcolata con il metodo contributivo) viene esteso al 2016, anno in cui devono essere maturati i requisiti.

Part time – Infine, per quanto concerne la flessibilità in entrata l’intento dell’Esecutivo è quello di accompagnare i lavoratori più anziani al pensionamento in maniera attiva. In pratica, chi intende chiedere il part-time potrà farlo senza che l’interessato riceva penalizzazione sul trattamento previdenziale che andrà a percepire, in quanto lo Stato si farà carico dei contributi figurativi. In tal caso, sarà Il datore di lavoro a dover corrispondere in busta paga al lavoratore la quota dei contributi riferiti alle ore non prestate, che si trasformeranno quindi in salario netto.

Autore: Redazione Fiscal Focus

Professionisti. Prescrizione quinquennale per la Cassa

Le sanzioni connesse al mancato versamento dei contributi previdenziali alla Cassa professionale si prescrivono in cinque anni.
È quanto ha chiarito la Corte di Cassazione – Sesta Sezione (L) – con la sentenza n. 20585/15, pubblicata il 13 ottobre.

Nel caso esaminato, una Cassa di previdenza ha ottenuto un’ingiunzione di pagamento nei confronti di un proprio iscritto e l’originaria pretesa (oltre 70mila euro) è stata ridotta drasticamente dai giudici di merito nel giudizio di opposizione instaurato dall’intimato. Dal che il ricorso per cassazione in quanto, ad avviso dell’ente previdenziale, le sanzioni dovevano ritenersi assoggettate al termine decennale di prescrizione e non già quinquennale; ma la Cassazione ha respinto il ricorso perché “le sanzioni civili costituiscono una conseguenza automatica, legalmente predeterminata, dell’inadempimento o del ritardo e assolvono una funzione di rafforzamento dell’obbligazione contributiva alla quale si sommano”. Pertanto il credito vantato dall’ente previdenziale “ha la stessa natura giuridica dell’obbligazione principale e, pertanto, resta soggetto al medesimo regime prescrizionale”, ossia quinquennale.

Gli ermellini hanno osservato che l’art 3, comma 9, della legge n. 335 del 1995, prevedendo che le contribuzioni di previdenza e di assistenza sociale obbligatoria si prescrivono in dieci anni per quelle di pertinenza del Fondo pensioni lavoratori dipendenti e delle altre gestioni pensionistiche obbligatorie – termine ridotto a cinque anni con decorrenza 1 gennaio 1996 (lettera a) – e in cinque anni per tutte le altre contribuzioni di previdenza e di assistenza sociale obbligatoria (lettera b), ha regolato l’intera materia della prescrizione dei crediti contributivi degli enti previdenziali, con conseguente abrogazione, per assorbimento, delle previgenti discipline differenziate, sicché è venuta meno la connotazione di specialità in precedenza sussistente per i vari ordinamenti previdenziali.
La giurisprudenza di legittimità ha ritenuto quindi operante la prescrizione quinquennale per varie ipotesi di sistemi previdenziali categoriali: ad esempio ingegneri e architetti, commercialisti e geometri (Cass. n. 4050/2014; n. 9525/2002; n. 11140/2001 etc.).

Il tenore della disposizione di cui all’art. 3, comma 9, della legge n. 335 del 1995, secondo i supremi giudici, non lascia spazio a interpretazioni diverse: da essa si evince che il legislatore ha inteso regolare l’intera materia della prescrizione dei crediti contributivi degli enti previdenziali, con riferimento a tutte le forme di previdenza obbligatoria, comprese quelle per i liberi professionisti. Infatti la previsione di cui alla lettera b), riferita a “tutte le altre contribuzioni di previdenza e di assistenza sociale obbligatoria”, è onnicomprensiva e non lascia fuori nessuna forma di previdenza obbligatoria. Né può ritenersi che l’art. 3, comma 10, contenga il richiamo a una disposizione in tema di sospensione dei termini di prescrizione (art . 2, comma 19, D.L. n. 463/83, conv. con mod. in L. n. 638/83), che non si applicherebbe ai liberi professionisti. Tale circostanza, infatti, non esclude la portata generale e organica della normativa in questione, la quale si applica a “tutte” le contribuzioni di previdenza e di assistenza obbligatorie, comprese quelle relative ai liberi professionisti.

Gli ermellini hanno poi avuto modo di ricordare che, per i contributi relativi al periodo precedente la data di entrata in vigore della legge 395, è stato mantenuto il termine decennale di prescrizione in presenza di atti interruttivi o di procedure iniziate nel rispetto della normativa precedente. Per le contribuzioni successive a detto periodo, invece, la situazione delle Casse non appare dissimile da quella degli altri enti di previdenza e assistenza obbligatoria, onde un’eventuale diversità di trattamento con riguardo al termine di prescrizione sarebbe ingiustificata e irragionevole.

Autore: Redazione Fiscal Focus

Semplificazioni nei rapporti di lavoro: focus dei CdL

I CdL completano l’analisi sul “Decreto Semplificazioni”: pari opportunità, cessione ferie e permessi, comunicazioni telematiche e lavoro estero le principali novità

Nel giro di pochi giorni, arriva dalla Fondazione Studi CdL la terza circolare (la n. 21/2015) che analizza il provvedimento sulle “semplificazioni” (D.Lgs. n. 151/2015), entrato in vigore il 24 settembre 2015. Tra le novità più importanti, vi è da segnalare la previsione che obbliga alla trasmissione telematica alla DTL competente dei contratti collettivi di secondo livello qualora si intenda fruire di benefici contributivi e di altre agevolazioni connesse alla stipula. 
Diverse misure, invece, sono rinviate a decreti attuativi quali il Libro Unico del Lavoro (LUL) ed il completamento del processo di unificazione, standardizzazione ed informatizzazione delle comunicazioni inerenti i rapporti di lavoro.
Ancora, parte la cessione di ferie e permessi dei lavoratori. In buona sostanza, i lavoratori potranno cedere a loro colleghi una quota per assistere figli minori che per le particolari condizioni di salute necessitano di cure costanti. Misura, condizioni e modalità per l’effettiva possibilità di disporre la cessione sono affidate ai contratti collettivi.

Puntuale, poi, l’analisi delle novità in materia di pari opportunità. “Telematizzare i processi informativi e di comunicazione”, spiega Rosario De Luca, Presidente della Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro, “è un’attività che dovrebbe portare ad un’ampia e più efficace interlocuzione. Non può essere invece utilizzata per chiudersi e schermarsi dietro un indirizzo email da cui far partire risposte istituzionali sì ma anonime. Telematizzare i processi non può voler dire impedire il contatto fisico tra gli utenti e la P.A. Anzi, tutt’altro. L’innovazione”, continua, “deve portare benefici e non complicare i rapporti; e questo dipende esclusivamente dagli attori, da coloro che a valle devono applicare le norme.

Comunicazioni telematiche – Le novità concernenti le comunicazioni telematiche, disciplinate dagli art. 14 e 16 del decreto in trattazione, prevedono che i benefici contributivi e le altre agevolazioni connesse alla stipula di contratti collettivi di secondo livello (aziendali o territoriali) debbano essere depositati in via telematica alla DTL competente. Mentre all’articolo 16 è previsto il completamento del processo di unificazione, standardizzazione ed informatizzazione delle comunicazioni inerenti i rapporti di lavoro. Si ricorda come il sistema in prima battuta era applicabile alle comunicazioni di instaurazione, trasformazione, proroga e cessazione dei rapporti di lavoro ed altre esperienze lavorative assimilate, che i datori di lavoro privati, ivi compresi quelli agricoli, le agenzie di somministrazione, gli enti pubblici economici e le pubbliche amministrazioni sono tenuti ad effettuare ai servizi per l’impiego, ora il provvedimento vuole generalizzare linguaggio e modalità delle comunicazioni.

In merito alla comunicazione delle singole chiamate del lavoro intermittente è stato istituito il modulo “UNI_Intermittenti” per il quale sono previste delle specifiche modalità di invio definite dal decreto interministeriale del 27 marzo 2013. Da ultimo il Ministero del Lavoro ha sospeso l’utilizzo delle nuove modalità di comunicazione telematica della prestazione di lavoro accessorio, previste dall’articolo 49, comma 3 del D.Lgs. n. 81/2015, anche se per ora continuano ad applicarsi le precedenti modalità (Ministero del Lavoro nota n. 3337/2015).
LUL – Per quanto riguarda il Libro Unico del Lavoro, all’art. 15 è previsto che – a decorrere dal 1° gennaio 2017 – il datore di lavoro è obbligato a tenerlo in modalità telematiche presso il Ministero del Lavoro.

Lavoro estero – Altra semplificazione concerne la preventiva autorizzazione per impiegare lavoratori italiani o comunitari nei paesi extraUE, che ora viene meno grazie all’art. 18 del D.Lgs. n. 151/2015. Si liberalizza di fatto la circolazione della manodopera anche al di fuori dei confini UE abrogando la norma che prevedeva una preventiva serie di adempimenti in capo ai lavoratori ed alle aziende interessate ad assumere o a trasferire all’estero lavoratori italiani o comunitari.

Cessione ferie e riposi – è previsto, inoltre, l’eventuale riconoscimento, compatibilmente con il diritto ai riposi settimanali ed alle ferie annuali retribuite, della possibilità di cessione fra lavoratori dipendenti dello stesso datore di lavoro di tutti o parte dei giorni di riposo aggiuntivi spettanti in base al contratto collettivo nazionale in favore del lavoratore genitore di figlio minore che necessita di presenza fisica e cure costanti per le particolari condizioni di salute.
Nello specifico l’articolo 24 prevede che, fermo restando l’indisponibilità dei diritti previsti dal decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, l’eventuale quota aggiuntiva di ferie e/o di permessi possono essere ceduti dai lavoratori aventi diritto ad altri lavoratori dipendenti dello stesso datore di lavoro. Tale possibilità è tuttavia consentita esclusivamente per le seguenti finalità: assistenza di figli minori che per le particolari condizioni di salute necessitano di cure costanti.

Reperibilità durante la malattia – L’art. 25 del D.Lgs. n. 151/2015, rimanda ad un successivo decreto del Ministero del Lavoro che vada a regolare le casistiche di esenzione dal controllo di reperibilità durante lo stato di malattia. Allo stato attuale, infatti, le Unità Sanitarie predispongono un servizio idoneo ad assicurare entro lo stesso giorno della richiesta, anche se domenicale o festivo, in fasce orarie di reperibilità, il controllo dello stato di malattia dei lavoratori dipendenti per tale causa assentatisi dal lavoro e accertamenti preliminari al controllo stesso anche mediante personale non medico, nonché un servizio per visite collegiali presso poliambulatori pubblici per accertamenti specifici.

Autore: Redazione Fiscal Focus

Sgravi per assunzioni. Sanzioni per evasione contributiva

Cassazione Lavoro, sentenza depositata il 15 ottobre 2015

Fornire all’INPS un quadro della consistenza dell’obbligo contributivo non conforme al vero integra l’ipotesi di denuncia infedele, con la conseguenza che l’istituto previdenziale può legittimamente applicare all’azienda il regime sanzionatorio previsto per l’evasione contributiva. 
È quanto emerge dalla sentenza n. 20845/15 della Sezione Lavoro della Suprema Corte.

Ricorre per Cassazione l’INPS, in una controversia riguardante un verbale ispettivo nei confronti di una società alla quale è stato contestato di aver fruito di sgravi contributivi senza averne diritto.

La società ha riconosciuto il proprio debito nel corso dell’ispezione, salvo poi contestare la validità dell’atto di ricognizione per un vizio riguardante la sua sottoscrizione; ma il documento è stato ritenuto inoppugnabile dalla Corte d’appello, che ha pure dichiarato la non spettanza degli sgravi per i dipendenti assunti dalla società negli anni 2000, 2001 e 2002. La Corte territoriale ha ravvisato un’ipotesi omissione contributiva, con applicazione delle relative sanzioni.
Ebbene, proprio con riguardo al regime sanzionatorio, l’INPS ha lamentato l’errore di diritto del giudice di merito e la Suprema Corte ha accolto tale censura.

Gli ermellini hanno ricordato l’orientamento, oramai pacifico, secondo cui, in tema di obbligazioni contributive nei confronti delle gestioni previdenziali e assistenziali, l’omessa o infedele denuncia mensile all’INPS (attraverso i cosiddetti modelli DM10) di rapporti di lavoro o di retribuzioni erogate, ancorché registrati nei libri di cui è obbligatoria la tenuta, concretizza l’ipotesi di “evasione contributiva” di cui alla L. n. 388 del 2000, art. 116, comma 8, lett. b), e non la meno grave fattispecie di “omissione contributiva” di cui alla lett. a) della medesima norma, che riguarda le sole ipotesi in cui il datore di lavoro, pur avendo provveduto a tutte le denunce e registrazioni obbligatorie, ometta il pagamento dei contributi.

Si deve ritenere che l’omessa o infedele denuncia configuri occultamento dei rapporti o delle retribuzioni o di entrambi e faccia presumere l’esistenza della volontà datoriale di realizzare tale occultamento allo specifico fine di non versare i contributi o i premi dovuti. Conseguentemente, grava sul datore di lavoro inadempiente l’onere di provare la mancanza dell’intento fraudolento – quindi la sua buona fede -, onere che non può, tuttavia, reputarsi assolto in ragione dell’avvenuta corretta annotazione dei dati, omessi o infedelmente riportati nelle denunce, sui libri di cui è obbligatoria la tenuta.

In tale contesto spetta al giudice del merito accertare la sussistenza, ove dedotte, di circostanze fattuali atte a vincere la suddetta presunzione, con valutazione intangibile in sede di legittimità ove congruamente motivata.

Ebbene, secondo gli ermellini, ha ragione la controricorrente INPS quando sostiene che le sanzioni applicabili alla società sono quelle per l’ipotesi evasione contributiva e non quelle, più lievi, previste per il caso di omissione contributiva, come invece sostenuto dalla Corte d’appello: “e difatti”, scrivono i supremi giudici, “l’autoliquidazione degli sgravi operata dal datore di lavoro, che ha fornito all’istituto previdenziale un quadro della consistenza dell’obbligo contributivo non conforme al vero, integra l’ipotesi di denuncia infedele”.

La società, peraltro, non ha assolto all’onere di provare la mancanza dell’intento fraudolento e, quindi, sulla base di specifiche risultanze fattuali, l’effettiva trasparenza del proprio comportamento.

Insomma, la Suprema Corte rigetta il ricorso principale della società, mentre accoglie quello incidentale dell’INPS e, decidendo la causa nel merito, dichiara che per il calcolo delle sanzioni ricorre l’ipotesi di evasione contributiva. Conferma nel resto la statuizione del giudice di secondo grado.

Autore: Redazione Fiscal Focus

Controlli a distanza liberalizzati a metà

Di recente sono venuto a conoscenza che è stato modificato l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori. Quali sono le nuove norme introdotte in merito ai controlli a distanza? Il datore di lavoro deve sempre richiedere l’accordo con le rappresentanze sindacali aziendali?

Il D.Lgs. n. 151/2015, entrato in vigore il 24 settembre 2015, all’art. 23 riscrive l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori (L. n. 300/1970), riordinando una materia rimasta per troppo tempo immacolata. Le novità, infatti, si inseriscono in un contesto di ammodernamento della disciplina al contesto attuale, senza rivoluzionare del tutto la materia.

Innanzitutto, non servirà più l’autorizzazione del sindacato o del Ministero del Lavoro per controllare a distanza i lavoratori mediante telefonini, tablet, pc o comunque strumenti di lavoro dati in uso al dipendente. In compenso, il datore di lavoro dovrà rispettare le norme previste dal Codice della privacy (D.Lgs. n. 196/2003) e informare preventivamente i lavoratori mediante la redazione di un regolamento aziendale nel quale vengono spiegati punto per punto i limiti di utilizzo di tali strumenti.

In precedenza, il vecchio art. 4 dello Stato dei Lavoratori (L. n. 300/1970) consentiva l’installazione di impianti e apparecchiature di controllo, dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, esclusivamente se:

• richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro;
• previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna.

Dopo l’intervento del suddetto decreto legislativo, l’art. 4 ne esce in sostanza “parzialmente” liberalizzato. Infatti, se da un lato cade l’autorizzazione sindacale o amministrativa, restano comunque in piedi sia il rispetto del Codice della privacy e in particolare il provvedimento del Garante del n. 13 del 1° marzo 2007 sia la preventiva informazione ai lavoratori dei limiti di utilizzo delle apparecchiature di controllo.

A tal proposito, è importante sottolineare come la semplificazione sta anche nel fatto che la norma rimette al datore di lavoro la decisione di intendere uno strumento “necessario” per controllare a distanza i propri dipendenti. È quindi molto facile dedurre che la categoria degli strumenti in genere utilizzati a tale fine, sarà ben presto allargata, alla luce anche di una tecnologia che facilmente riesce a reperire informazioni utili al datore di lavoro.

Infine, è importante sottolineare come le informazioni raccolte dal datore di lavoro “sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro”, quindi potenzialmente anche a fini disciplinari.

Autore: Redazione Fiscal Focus

Pedinare il lavoratore con gps e investigatore: si può!

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 20440/2015

Vietato distrarsi durante gli orari di lavoro. Il datore di lavoro, infatti, può installare un gps nell’auto aziendale oppure incaricare un’agenzia investigativa privata per tracciare i movimenti del dipendente e verificare che quest’ultimo ottemperi correttamente ai propri doveri lavorativi. Non è concesso, quindi, al lavoratore fermarsi al bar o alle tavole calde durante il proprio turno di lavoro, pena il licenziamento
È quanto si legge nella sentenza n. 20440/2015 della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione.

Il caso – La vicenda riguarda il licenziamento di un lavoratore per essersi allontanato dalla sede aziendale – con un’autovettura della società – in orario lavorativo e per essersi trattenuto al bar o nei locali di una tavola calda “per conversare, ridere o scherzare coi colleghi”. Il licenziamento è stato dichiarato legittimo dalla Corte d’appello, in quanto il dipendente aveva l’incarico di dare disposizioni agli operai e di verificare lo svolgimento del ritiro dei rifiuti indifferenziati, con una pausa di lavoro dalle ore 9 alle 9.10. Pertanto è stato lecito il controllo svolto dal datore, al di fuori dei locali aziendali, tramite guardie giurate o con investigatori privati e con l’uso di uno strumento per la localizzazione e la verifica degli spostamenti degli automezzi (Gps – Global positionig system). Rispetto al comportamento addebitato, il lavoratore aveva autonomia operativa, ma era anche tenuto al rispetto dei limiti temporali della pausa. Inoltre, dalla relazione investigativa e da molteplici testimonianze erano risultati gli abbandoni del lavoro fuori orario senza adeguata giustificazione, anche al di fuori dei territori di competenza. Detti comportamenti, nonché i precedenti, costituivano in definitiva giusta causa di risoluzione del rapporto di lavoro poiché minavano in radice il nesso fiduciario necessariamente intercorrente tra le parti.

Il lavoratore impugna la sentenza e ricorre in Cassazione, sostenendo l’illegittimità del licenziamento per via della violazione degli artt. 2, 3, 4 dello Statuto dei Lavoratori (L. n. 300/1970). Tali norme, in particolare impongono modi d’impiego, da parte del datore di lavoro, delle guardie giurate, del personale di vigilanza e di impianti e attrezzature per il controllo a distanza. I relativi divieti riguardano il controllo sui modi di adempimento dell’obbligazione lavorativa ma non anche comportamenti del lavoratore lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale.

La sentenza – Gli Ermellini respingono il ricorso del lavoratore e giudicano legittimo il licenziamento. Infatti, in merito alla violazione degli articoli appena menzionati, i Giudici sostengono che “non sono vietati i cosiddetti controlli difensivi, intesi a rilevare mancanze specifiche e comportamenti estranei alla normale attività lavorativa nonché illeciti”. Ma non solo. La sentenza conferma altresì la possibilità per il datore di lavoro di poter eseguire i controlli anche mediante agenzie investigative private. Ciò tanto più vale quando il lavoro dev’essere eseguito, come nel caso di specie, al di fuori dei locali aziendali, ossia in luoghi in cui è più facile la lesione dell’ interesse all’esatta esecuzione della prestazione lavorativa e dell’immagine dell’impresa, all’insaputa dell’imprenditore.

Dunque, è assolutamente legittimo installare il gps all’interno dell’automobile aziendale, e i dati raccolti possono essere utilizzate poi in sede di giudizio contro il dipendente, al fine di provarne l’infedeltà e procedere così al suo licenziamento. Stesso discorso vale per il monitoraggio degli spostamenti del lavoratore mediante agenzie investigative private, purché tale attività sia finalizzata a verificare eventuali comportamenti lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale.

Insomma è vietato distrarsi durante gli orari di lavoro, alla luce anche delle molteplici possibilità di cui i datori di lavoro possono avvalersi per licenziare il proprio dipendente. Basti pensare che anche una semplice foto scattata magari dal collega può essere utile per provare l’inadempienza dell’attività lavorativa.

Autore: Redazione Fiscal Focus