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Quadro RW. L’integrativa non evita la sanzione

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Sentenza della CTR Lombardia in tema di omessa dichiarazione d’investimenti all’estero

La sanzione prevista per l’omessa compilazione del quadro “RW” è applicabile anche nel caso in cui il contribuente abbia integrato la dichiarazione. È quanto emerge dalla sentenza n. 3778/67/15 della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia (Sez. Staccata di Brescia) secondo cui, peraltro, il raddoppio dei termini per l’accertamento previsto dal D.L. 78 del 2009 con riferimento agli investimenti in Paesi a fiscalità privilegiata ha carattere processuale ed è pertanto suscettibile di applicazione retroattiva.

Dopo aver ricevuto un questionario dell’Ufficio, il contribuente ha presentato dichiarazione integrativa per l’anno d’imposta 2006 allo scopo di porre rimedio all’omessa dichiarazione di investimenti all’estero, stante la partecipazione in una società elvetica. La presentazione dell’integrativa con il riferimento al quadro RW non ha evitato la notifica di un atto di contestazione per violazione del D.L. 167/90, con irrogazione della sanzione. Dal che la proposizione del ricorso davanti alla competente CTP, la quale ha annullato l’atto di contestazione ritenendo, da un lato, che l’Ufficio non potesse usufruire del raddoppio dei termini per l’accertamento e, dall’altro, che la presentazione della dichiarazione integrativa (ex art. 2, comma 8, D.P.R. 322/98) aveva inciso sulla possibilità di applicare la sanzione per l’omessa dichiarazione d’investimenti all’estero nonostante fosse già stata intrapresa l’attività accertativa.

Ebbene, la CTR ha preso le distanze dal ragionamento decisionale del Collegio di prime cure.

Secondo l’amministrazione appellante, la CTP non ha considerato che il raddoppio dei termini per l’accertamento, riferito agli investimenti in Paesi a fiscalità privilegiata, ha carattere “processuale”, con conseguente applicabilità della nuova normativa anche ad annualità precedenti per le quali non fossero ancora scaduti i termini di accertamento. In ogni caso, la presentazione della dichiarazione integrativa non è circostanza capace di incidere sulla sanzione di cui all’art. 5 del D.L. 167/90; dunque il contribuente avrebbe dovuto ricorrere al ravvedimento operoso oppure alla definizione agevolata ex art. 16 D.Lgs. n. 472/97.

I suddetti motivi d’appello dell’Agenzia delle Entrate hanno trovato ingresso presso i giudici bresciani. Questi, infatti, hanno sostenuto ‘”l’evidentissimo carattere processuale del raddoppio del termine per l’accertamento” e, inoltre, che l’integrazione della dichiarazione ha rilevanza ai fini della ridefinizione della materia imponibile “ma senza che ciò ridondi sulla sanzione correlata alla mancata (tempestiva) dichiarazione”. Infine, la CTR esclude che la mancata compilazione del quadro RW costituisca violazione formale, “perché se è vero che essi non danno luogo direttamente a materia imponibile, è altrettanto vero che costituiscono un ‘segnale di attenzione’, a maggior ragione rilevante se si considera che evidenziano dati (…) che per definizione non potrebbero essere desumibili, neppure aliunde o incidentalmente, dalla Amministrazione fiscale”.

Insomma, nella specie l’AdE ha ottenuto la riforma della sentenza di prime cure che aveva accolto il ricorso introduttivo del contribuente. Le spese del giudizio sono state compensate tra le parti.

Autore: redazione fiscal focus

APPELLO INAMMISSIBILE SE INCOMPLETO IL DEPOSITO

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

E’ inammissibile l’appello principale se la parte omette di depositare, presso la segreteria della Commissione tributaria regionale, copia della ricevuta di spedizione dell’appello eseguita per posta, anche se sono prodotti, in sede di udienza, i soli avvisi di ricevimento delle raccomandate.

Questo è quanto deciso dalla CTR di Catanzaro, con sentenza n. 1537/15, depositata in data 22 ottobre 2015, con la quale è stato dichiarato inammissibile l’appello presentato dall’Agenzia delle entrate per i motivi suesposti.

La costituzione in giudizio

L’articolo 53, comma 2, del D. Lgs. n. 546/1992, dispone che l’appellante, entro trenta giorni dalla proposizione dell’appello, deve costituirsi in giudizio secondo le modalità previste dall’articolo 22, commi 1, 2 e 3, del citato decreto. Pertanto, egli deve depositare presso la segreteria della Commissione tributaria regionale:

  1. copia dell’appello spedito alla controparte, con allegata la fotocopia della ricevuta della raccomandata a. r. di spedizione postale (possibilmente con la cartolina di ritorno), ovvero
  2. copia dell’atto di appello consegnato alla controparte, insieme con la fotocopia della ricevuta di consegna diretta, ovvero
  3. originale dell’atto di appello notificato a mezzo Ufficiale giudiziario (in questo caso alla controparte è stata notificata copia conforme all’originale).

Qualora l’appello sia stato proposto mediante spedizione postale o consegna diretta, l’appellante deve dichiarare la conformità dell’atto depositato o spedito presso la segreteria della Commissione e quello consegnato o spedito alla controparte.

La sentenza

I giudici dell’appello hanno ritenuto inammissibile l’impugnazione posta in essere dall’Agenzia delle entrate, in quanto “l’atto di appello (in copia od in originale), in assenza della ricevuta della spedizione per raccomandata, non risponde allo schema legale previsto ed è altresì inidoneo al raggiungimento del suo scopo, ossia: a) la tempestiva costituzione in giudizio dell’appellante, b) l’impedimento in giudicato della sentenza impugnata”.
Peraltro, scrivono i giudici, il mancato deposito della ricevuta di spedizione, non può essere sanato mediante la tradiva produzione del documento in sede di udienza di trattazione.

Riflessioni

La decisione presa dalla Regionale merita particolare attenzione. Si premette che, l’articolo 22, comma 1, del decreto n. 546/1992, richiamato dal menzionato articolo 53, prescrive che, presso la segreteria della Commissione tributaria regionale, deve essere depositata, oltre alla copia dell’appello, anche la fotocopia della ricevuta di spedizione per raccomandata a mezzo del servizio postale.
L’Agenzia delle entrate, con la circolare n. 36/E del 3 aprile 2001, ha chiarito che il ricorso in appello si intende proposto al momento della spedizione. Da questo momento decorrono i termini per la costituzione in giudizio del ricorrente/appellante. Per la regolare costituzione, quando l’appello è proposto tramite servizio postale, la norma richiede il deposito della sola ricevuta di spedizione, prescindendo dalla prova del perfezionamento della procedura di notifica, costituita dall’avviso di ricevimento. Questo è giustificato dal fatto che, spesso, l’avviso di ricevimento torni nella materiale disponibilità del ricorrente in una data successiva a quella entro cui lo stesso deve costituirsi in giudizio.
Nel caso della sentenza in commento, l’Ufficio ha depositato i soli avvisi di ricevimento, ma non la ricevuta di spedizione dell’appello che, invece, costituisce il documento essenziale per poter dimostrare il rispetto dei termini necessari per proporre il ricorso in appello. D’altro canto, il mancato deposito della ricevuta di spedizione, provoca l’inesistenza della notifica e della conseguente inammissibilità dell’atto introduttivo del giudizio di appello. In altri termini, i giudici di secondo grado, senza la “presa visione” della ricevuta di spedizione, non hanno la possibilità di stabilire se l’appello è stato prodotto nei termini di legge.
Pertanto, si condivide la decisione della Regionale, che ha applicato pedissequamente il dettato normativo disposto dal citato articolo 22, laddove è previsto che l’inammissibilità del ricorso è causata anche dal mancato deposito della fotocopia della ricevuta di spedizione, nel nostro caso, dell’appello.
Per completezza di argomento, va ricordato che, in precedenza, l’articolo 53, comma 2, secondo periodo, del D. Lgs n. 546/1992, prevedeva che l’atto di appello fosse depositato anche presso l’ufficio di segreteria della commissione tributaria che aveva pronunciato la sentenza impugnata. L’articolo 36 del D. Lgs n. 175/2014, ha eliminato tale adempimento per gli appelli notificati dal 13 dicembre 2014, corrispondente alla data di entrata in vigore del decreto.

Autore: Francesco Barone

RESPONSABILI DEL BOLLO PER AUTO IN LEASING

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

A chi spetta il pagamento del tributo

Con la sentenza 3526/27/2015 CTR Lombardia pronunciata il 19 giugno 2015 (deposito del 29 luglio) viene stabilito che l’utilizzatore è l’unico contribuente responsabile al versamento della tassa sulla circolazione alla Regione (“bollo auto”) in caso di leasing.

La norma

Tutto ruota sull’interpretazione dell’articolo 7 della Legge 99/2009, in vigore dal 15 agosto 2009, il quale stabilisce che, in caso di locazione finanziaria, il pagamento del tributo non ricada più sul concedente (società di leasing), ma solo sull’utilizzatore.

La normativa sopra indicata ha previsto che il soggetto passivo va identificato con chi materialmente utilizza il bene. Nello specifico, quindi sono da considerarsi soggetti passivi gli usufruttuari, gli acquirenti con patto di riservato dominio, ed il locatario (in caso di leasing o noleggio).

Sulla questione va sottolineato che era intervenuto anche il Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) che con una specifica Nota del 27 giugno 2012 aveva stabilito che, non vi era alcuna soggettività passiva della società di leasing nel pagamento del bollo auto, poiché lo stesso era ad esclusivo carico del locatario.

La solidarietà passiva

Nel merito della questione è appena il caso di ricordare che la solidarietà passiva si verifica quando più debitori sono tutti obbligati per la medesima prestazione in modo che ciascuno di essi può essere costretto all’adempimento per l’intero tributo e il pagamento di uno libera tutti gli altri.

In ambito fiscale il classico esempio di solidarietà passiva si verifica nel campo dell’imposta di registro dove debitore principale è l’acquirente, ma in via di regresso potrebbe essere chiamato al pagamento pure il venditore, per cui entrambi sia pur a diversi livelli sono “responsabili solidali” per il tributo.

L’obbligazione solidale rappresenta una maggior garanzia per il soggetto che è creditore. Il vincolo solidale, infatti, rende più sicuro il diritto dell’ente creditore.

La nota dell’Agenzia delle Entrate

Sul punto sia pur in maniera non esplicita è possibile trovare una presa di posizione anche dell’Agenzia delle entrate (vedasi agg.2012 “Guida al pagamento del bollo auto e moto 2010) che ha avuto modo di esprimere lo stesso concetto sviluppato dal Mef nella nota (sopracitata) del 27/06/2012, ossia che l’unico soggetto responsabile del tributo sia l’utilizzatore.

Nonostante questo, però, molte Regioni fra cui, in primo luogo Lombardia ed Emilia Romagna, hanno protratto la richiesta di pagamento della tassa anche alle società di leasing diversamente invocando la presenza di un regime di responsabilità solidale con l’utilizzatore, provocando così, un nutrito contenzioso nel merito.

La norma di interpretazione autentica.

Sulla questione si deve ora segnalare l’approvazione di una norma di interpretazione autentica (art. 9 comma 9 bis Dl 78/2015) che dovrebbe mettere fine ad ogni tipo di contesa.

L’articolo citato stabilisce, infatti, che in caso di contratto di leasing il contribuente tenuto al pagamento della tassa automobilistica è solo l’utilizzatore non prevedendo alcuna responsabilità solidale del concedente.

L’unica eccezione a tale regola viene ammessa solo nell’ipotesi in cui il concedente provveda, a seguito di accordo fra le parti, ad effettuare il versamento cumulativo dei bolli auto dovuti per i periodi di tassazione compresi nella durata dei contratti di leasing stipulati secondo le modalità stabilite dall’Ente competente (circolare serie fiscale 23/2015 Assileia).

In relazione a quanto evidenziato vi è così l’auspicio che anche i funzionari della regione si conformino con il chiaro orientamento espresso dal legislatore (nonché dalla giurisprudenza), e questo non solo in rapporto alla gestione delle nuove pratiche (dove si rende possibile l’intervento in autotutela), ma anche con un’opportuna rinuncia al contenzioso ove esistente.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

La delega “in bianco” blocca l’accertamento

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Sentenza della CTP di Caserta che fa proprio il più recente orientamento della SC in materia di sottoscrizione degli atti di accertamento

La Sezione Tributaria della Cassazione con le sentenze n. 22810 e 22803 del 9 novembre 2015 ha enunciato importanti principi in tema di sottoscrizione degli avvisi di accertamento. Per la Suprema Corte, se da un lato sono validi gli atti sottoscritti dai funzionari delle Agenzie fiscali decaduti dall’incarico dirigenziale per effetto della sentenza n. 37/2015 della Corte costituzionale, dall’altro deve ritenersi affetto da nullità l’avviso di accertamento firmato sulla base di una delega “in bianco”, cioè priva del nominativo del soggetto delegato dal capo dell’ufficio.

In Cass. n. 22810/2015 si legge che l’art. 42 del D.P.R. 600/73 impone sotto pena di nullità che l’atto sia sottoscritto dal “capo dell’ufficio” o “da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato e che la norma quindi non richiede che il capo dell’ufficio o il funzionario delegato abbia a rivestire anche una qualifica dirigenziale. E allora, essendo la materia tributaria governata dal principio di tassatività delle cause di nullità degli atti fiscali e non occorrendo, ai meri fini della validità di tali atti, che i funzionari (delegati o deleganti) possiedano qualifiche dirigenziali, ne consegue che la sorte degli atti impositivi formati anteriormente alla sentenza della Corte costituzionale n. 37/2015, sottoscritti da soggetti al momento rivestenti funzioni di capo dell’ufficio, ovvero da funzionari della carriera direttiva appositamente delegati, e dunque da soggetti idonei ai sensi dell’art. 42 del D.P.R. n. 600 del 1973, non è condizionata dalla validità o meno della qualifica dirigenziale attribuita per effetto della censurata disposizione di cui art. 8, 24° comma, del D.L. n. 16/2012.

In Cass. 22803/15, invece, si precisa che non è decisiva la modalità di attribuzione della delega di firma – che può essere conferita o con atto proprio o con ordine di servizio – purché vengano indicate:

  • le ragioni della delega (ad esempio carenza di personale, assenza, vacanza o malattia)
  • il termine di validità
  • il nominativo del soggetto delegato.

Conseguentemente deve essere considerata nulla la cosiddetta delega in bianco (priva del nominativo soggetto delegato)non essendo possibile verificare agevolmente da parte del contribuente se il delegatario avesse il potere di sottoscrivere l’atto impugnato e non essendo ragionevole attribuire al contribuente una tale indagine amministrativa al fine di verificare la legittimità dell’atto”.

Ebbene, questi principi hanno trovato immediata applicazione presso i giudici di merito. È il caso della CTP di Caserta che, con la sentenza n. 7443/14/15 (pubblicata l’11 novembre), ha annullato alcuni avvisi di accertamento per imposte (Irpef, Iva, Irap per il 2008) avendo rilevato il difetto di sottoscrizione lamentato in ricorso dal contribuente.

Nel caso di specie è risultato che gli atti impugnati non erano stati sottoscritti dal Capo dall’Ufficio ma un funzionario che, per effetto della sentenza n. 37/15 della Consulta, era decaduto dalla posizione di dirigente. Alla luce dell’interpretazione secondo la quale l’art. 42 del D.P.R. 600 non richiede la qualifica di dirigente in capo al soggetto che ha apposto la firma, per la CTP di Caserta si è trattato di indagare se il soggetto sottoscrittore fosse o meno in possesso di una valida delega di firma. Profilo che ha portato all’accoglimento del ricorso del contribuente, posto che l’Amministrazione non ha provato, com’era suo onere, che il soggetto sottoscrittore fosse munito di una delega “non in bianco”, bensì con la precisa indicazione del funzionario legittimato a firmare l’atto.

La CTP osserva, per un verso, che “per la sottoscrizione degli atti impositivi non è richiesto da alcuna norma, tanto più a pena di nullità, che il soggetto apponente la firma sia un dirigente, essendo sufficiente che costui sia il capo dell’ufficio o un funzionario, delegato da questi, appartenente alla terza area”, e per l’altro che, “in buona sostanza, ai fini di un valido conferimento, la delega deve contenere le ragioni e le cause che l’hanno resa necessaria, il termine di validità, il nominativo del delegato. Orbene, nessuna prova, in questa fase di giudizio, viene offerta da parte resistente, per cui l’atto tributario deve ritenersi nullo per difetto di sottoscrizione”.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Avviso all’amministratore di fatto. No all’impugnazione

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Una decisione della CTP di Frosinone

Il presunto amministratore “di fatto” non è legittimato a impugnare l’avviso d’accertamento per maggiori imposte emesso a carico della società. È quanto emerge dalla sentenza n. 764/03/15 della Commissione Tributaria Provinciale di Frosinone.

La controversia è originata da un avviso di accertamento per maggiori imposte rivolto a una SRL. Poiché l’atto è stato notificato anche al soggetto ritenuto dall’Ufficio finanziario amministratore “di fatto”, questi ha proposto impugnazione davanti alla competente CTP di Frosinone che, però, l’ha respinta richiamando i principi enunciati dalla Cassazione con riguardo a un caso similare.

Per il collegio frusinate, la notifica degli avvisi di accertamento oggetto di controversia è stata eseguita non già per estendere al presunto amministratore di fatto la pretesa tributaria – atteso che soggetto accertato era solo la società -, ma solo in considerazione del ruolo pregnante che, a giudizio degli accertatori, egli continuava ad avere anche dopo la formale uscita dalla compagine sociale e dalla carica di amministratore; dunque a maggior tutela del contribuente.

La Suprema Corte, con la sentenza n. 26491/14, così si è espressa: “Preliminarmente va rilevato che soggetto passivo dell’avviso di accertamento è la società, e che l’atto impositivo è stato soltanto notificato allo […] nella qualità di amministratore di fatto. L’originario ricorso innanzi alla Ctp è stato proposto da […] in proprio e non quale legale rappresentante della società, con motivi di censura inerenti peraltro non l’atto impositivo, ma la qualità, a lui attribuita in sede di notifica dell’atto, di amministratore di fatto della medesima. Il ricorrente era quindi privo della legittimazione a proporre in proprio l’impugnazione dell’atto impositivo, indirizzato, come si è visto, alla società e non a lui personalmente. Il conseguente difetto di ‘legitimatio ad causam’ è rilevabile di ufficio anche in sede di legittimità, essendo la Corte di cassazione dotata di poteri officiosi in tutte le ipotesi in cui il processo non poteva essere iniziato o proseguito e dovendo escludersi la formazione del giudicato implicito, per la decisione nel merito della controversia, nei casi in cui vi sia carenza assoluta di ‘potestas iudicandi’ da parte di qualunque giudice (Cass. 4 aprile 2012, n. 5375; 9 febbraio 2012, n. 1912). Alla luce di tutto quanto sopra esposto, decidendo sul ricorso, va dichiarata l’inammissibilità dell’atto introduttivo del giudizio e la sentenza impugnata (sulla quale soltanto può pronunciare questo giudice) va cassata senza rinvio a norma dell’ultima parte dell’art. 382 c.p.c., restando in tal modo travolta anche la sentenza di primo grado”.

E allora la CTP di Frosinone ha concluso per l’inammissibile dell’atto introduttivo del giudizio, con compensazione delle spese processuali.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Raddoppio. Denuncia in tempi stretti

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Una sentenza dei giudici tributari di Napoli

Il raddoppio dei termini per l’accertamento opera solamente ove la denuncia di reato sia trasmessa alla competente Procura della Repubblica entro la scadenza dei termini ordinari previsti in materia d’imposte dirette e IVA, rispettivamente, dagli articoli 43 D.P.R. 600/73 e 57 del D.P.R. 633/72, e ciò è vero anche per gli atti emessi prima dell’entrata in vigore della disposizioni del D.Lgs. n. 128/2015.
È quanto emerge dalla sentenza n. 22591/14/15 della Commissione Tributaria Provinciale di Napoli.
Il Collegio giudicante ha accolto il ricorso di una SRL in relazione a un accertamento a fini IRES, IVA e IRAP per il 2006. L’Ufficio ha spiccato i relativi avvisi usufruendo dell’allungamento dei termini per l’accertamento avendo ipotizzato, in capo alla contribuente, il reato di dichiarazione fraudolenta ex art. 2 D.Lgs. n. 74/2000; ma proprio sotto tale profilo l’operato dell’Ufficio è stato delegittimato dai giudici: la denuncia inoltrata all’autorità giudiziaria, come evidenziato dalla società ricorrente, recava la data del 6 dicembre 2012, “data nella quale era già intervenuto il termine di decadenza per l’accertamento d’imposta anno 2006”.
Sul raddoppio dei termini per l’accertamento, la società contribuente ha evidenziato che, anche in presenza di modifiche introdotte dall’art. 2 del D.Lgs. n. 128, l’Ufficio non aveva dato alcuna prova del deposito e/o della trasmissione della ipotesi di reato ex art. 331 c.p.p. alla Procura e che, comunque, era intervenuta la decadenza dal potere impositivo “stante sulla presunta denuncia la data del 7.12.2012 oltre i termini (31.12.2011)”. Ebbene, a riguardo i giudici partenopei scrivono: “[…] la società lamenta una violazione della disciplina del raddoppio dei termini, sotto il duplice profilo: a) della mancata allegazione della denuncia penale (così da comportare anche una violazione dell’articolo 7 dello Statuto del contribuente); b) del mancato inoltro della denuncia penale entro i termini di decadenza dei termini ordinari di accertamento. L’argomento del raddoppio dei termini è stato recentemente oggetto di riforma da parte del legislatore che ha dapprima impartito ordine al governo con la legge delega 11 marzo, n. 23, poi recepita con l’emanazione del D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128 che, all’articolo 2, introduce la disposizione per cui il raddoppio non opera qualora la denuncia da parte dell’amministrazione finanziaria, in cui è ricompresa la Guardia di finanza, sia presentata o trasmessa oltre la scadenza ordinaria dei termini di cui ai commi precedenti.Sebbene la disposizione normativa non contempli un effetto retroattivo, facendo invece salvi gli effetti degli atti già notificati alla data di entrata in vigore, un filone consistente della giurisprudenza tributaria ha inteso che tale adempimento, l’invio della denuncia entro la scadenza degli ordinari termini d’accertamento, rappresenti un elemento imprescindibile per l’applicazione del raddoppio indipendentemente da una sua esplicitazione normativa. Ciò perché, diversamente opinando, l’utilizzo del raddoppio dei termini si porrebbe come una condizione strumentale, volta unicamente alla riapertura di periodi d’imposta già definiti. In altre parole, il mancato tempestivo inoltro della denuncia penale da parte del pubblico operatore, si dovrebbe leggere come sintomo di un utilizzo strumentale e pretestuoso della disciplina, in contrasto con la ratio perseguita dal legislatore quando ha introdotto il raddoppio termini. In senso conforme si è espressa la CTR di Roma nella richiamata sentenza n. 3571 nei confronti della ricorrente, ma anche CTP di Milano (sentenza n. 4670/26/15), CTP di Bergamo (sentenza n. 266/02/15), CTP di Novara (sentenza n. 24/03/15), solo per citarne alcune. Da ciò consegue che, nel caso di specie, l’accertamento risulta emesso oltre il periodo di decadenza del potere impositivo, in violazione dell’articolo 43 del DPR n. 600/73”.

Autore: Redazione Fiscal Focus

Niente IRAP per il promotore con collaboratore familiare

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

In tema imposta regionale sulle attività produttive, l’ausilio di un collaboratore familiare non è elemento di per sé idoneo a configurare l’autonoma organizzazione, quindi non determina l’assoggettabilità a IRAP dei redditi di un lavoratore autonomo.

È quanto emerge dalla sentenza n. 8008/04/15 della Commissione Tributaria Provinciale di Catania.

Il collegio etneoha accolto il ricorso di un promotore finanziario avverso il silenzio/rifiuto formatosi sulla sua istanza di rimborso di quanto versato a titolo di IRAP per quattro annualità d’imposta. Il contribuente, forte della giurisprudenza in materia (su tutte C. Cost. n. 156/2001), ha evidenziato di avere svolto, negli anni considerati, l’attività in assenza di un’organizzazione di capitale o lavoro altrui.

Ebbene, l’adita CTP di Catania ha ritenuto illegittimo il diniego dell’Agenzia delle Entrate.

La pretesa del promotore finanziario si è fondata sulla sentenza n. 156/2001 della Corte costituzionale secondo cui, a differenza di quanto avviene per l’attività imprenditoriale, l’IRAP non di applica indistintamente a tutti i professionisti e lavoratori autonomi, ma solo a quelli che operano con un’organizzazione di capitale o lavoro altrui.

Il concetto enunciato dalla Consulta è stato ribadito e chiarito dalla Corte di Cassazione; per esempio, dalla sentenza n. 22592 del 2012 che afferma: “È infatti principio consolidato che, in tema di Irap, l’esistenza di un’autonoma organizzazione, che costituisce il presupposto per l’assoggettamento a imposizione dei soggetti esercenti arti e professioni, postula che l’attività abituale e autonoma del professionista si avvalga di un’organizzazione dotata di un minimo di autonomia che potenzi e accresca l’attività produttiva”.

Nella fattispecie in esame, secondo i giudici tributari catanesi, a fronte delle affermazioni del contribuente, l’Ufficio non ha fornito alcuna prova del fatto che lo studio professionale fosse dotato di un’organizzazione autonoma, né sono stati indicati gli elementi in cui si sarebbe articolata tale organizzazione. “Al contrario” – si legge in sentenza – “il ricorrente ha prodotto due comunicazioni dell’Agenzia delle entrate da cui risulta che: 1) per gli anni d’imposta 2008 e 2009, l’ufficio ha riconosciuto la mancanza di un’autonoma organizzazione, e quindi l’esonero dall’Irap; 2) per gli anni 2006 e 2007 ha negato tale esonero, basandolo però sull’esistenza di un collaboratore familiare. Francamente l’ausilio di un solo collaboratore familiare appare troppo poco perché possa configurarsi quell’organizzazione dotata di un minimo di autonomia potenzi e accresca l’attività produttiva […]”.

Quanto all’argomento del fisco fondato sull’esistenza di elementi negativi, da 40mila a 60mila euro all’anno, la CTP ha rilevato che nelle dichiarazioni dei redditi relative agli anni in contestazione, il ricorrente ha precisato che si trattava di spese prevalentemente afferenti alle trasferte che lui effettuava di continuo sul territorio nazionale al fine di promuovere la sua attività.

In conclusione, la Commissione catanese di primo grado ha accolto il ricorso del promotore finanziario, cui spetta il rimborso di quanto richiesto (con gli interessi).

Autore: redazione fiscal focus

Iscrizione d’ipoteca. Asseverazione della comunicazione da parte di Equitalia

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Sono validi agli effetti della procedura di riscossione dei tributi i certificati, le visure e qualsiasi atto e documento amministrativo rilasciati, tramite sistemi informatici o telematici, al concessionario del servizio della riscossione dei tributi qualora contengano apposita asseverazione del predetto concessionario della loro provenienza.

È quanto ha ricordato la Commissione Tributaria Regionale della Calabria nella sentenza n. 1379/01/15.
La Commissione di primo grado ha respinto il ricorso del contribuente confermando, per l’effetto, l’impugnato provvedimento d’iscrizione d’ipotecaria. Nel successivo giudizio d’appello il contribuente ha lamentato l’erroneità della decisione di prime cure perché l’impugnazione era stata dichiarata inammissibile senza considerare che la documentazione attestante la notifica della comunicazione di avvenuta iscrizione d’ipoteca era stata prodotta da Equitalia in copia semplice, non avente alcun valore probatorio.
Ebbene, anche il giudizio d’appello si è chiuso in senso favorevole al concessionario, alla stregua delle seguenti osservazioni.
La CTR catanzarese ha ritenuto la regolarità della comunicazione di avvenuta iscrizione ipotecaria perché questo documento è stato prodotto da Equitalia nel giudizio di primo grado “in copia conforme all’originale, siccome contenente apposita asseverazione del predetto concessionario della sua provenienza (v. attestazione di conformità all’originale – sottoscritta dall’agente di riscossione – sulla comunicazione di avvenuta iscrizione ipotecaria, sull’allegato dettaglio degli addebiti e sull’avviso di ricevimento in data [omissis], prodotta da Equitalia con allegazione al fascicolo di primo grado)”.
L’attestazione di conformità, apposta dall’agente della riscossione sulla copia dei documenti prodotti, attribuisce agli stessi la stessa efficacia degli originali, atteso che tale potere è espressamente previsto dall’art. 5, comma 5, D.Lgs. n. 669/96, che recita: “Sono validi agli effetti della procedura di riscossione dei tributi i certificati, le visure e qualsiasi atto e documento amministrativo rilasciati, tramite sistemi informatici o telematici, al concessionario del servizio della riscossione dei tributi qualora contengano apposita asseverazione del predetto concessionario della loro provenienza”.
E allora la CTR ha ritenuto l’appello del contribuente meritevole di rigetto “in quanto il ricorso di primo grado proposto dal contribuente porta la data del 13/04/2011, dalla regolare notifica della comunicazione di avvenuta iscrizione ipotecaria”.
Il soccombente paga le spese del giudizio.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS