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Rinuncia al finanziamento al riparo dal prelievo al 3%

Rinunce ai finanziamenti da parte dei soci enunciate in atti di ricapitalizzazione sempre più nel mirino del Fisco. Di recente molti soci che hanno deliberato la riduzione del capitale sociale per perdite, contestualmente ricostituito attraverso la rinuncia a precedenti finanziamenti erogati alla società, si vedono recapitare avvisi di liquidazione di imposta di registro proporzionale nella misura del 3% degli importi finanziati, oltre ai relativi interessi.

In genere, la delibera di riduzione per perdite e di ricapitalizzazione mediante rinuncia a finanziamenti viene assoggettata a imposta di registro in misura fissa, in quanto atto assimilabile a un aumento del capitale sociale mediante conferimento di denaro. Vediamo, quindi, di capire su quali ragioni l’ufficio fonda la sua pretesa e quali sono le possibili valutazioni da fare per sostenere la difesa o per prevenire l’accertamento.

L’accertamento
Sull delibera con la quale il capitale sociale viene ridotto per perdite, e contestualmente ricostituito mediante rinuncia ai crediti vantati dai soci verso la società, si applica l’imposta di registro in misura fissa. Attenzione, però: in forza dell’articolo 22 del Dpr 131/1986 , al momento della sua registrazione l’ufficio verifica, se nella stessa delibera, vengono richiamati altri atti (non registrati), quali ad esempio finanziamenti dei soci alla stessa società. Infatti, gli atti enunciati in altri atti sottoposti a registrazione devono essere, a loro volta, assoggettati a imposta di registro.

Dunque, se l’atto di finanziamento soci enunciato nella delibera di ricapitalizzazione non è già stato registrato, l’ufficio procede con la notifica ai soci e alla società (in qualità di coobbligata) di un avviso di liquidazione, finalizzato ad assoggettare il medesimo atto a imposta di registro nella misura del 3%, a norma dell’articolo 9 della Tariffa, parte I, allegata al Dpr 131/1986.

La possibile difesa
In questi casi è essenziale verificare se dalla delibera societaria presentata per la registrazione possano effettivamente desumersi gli elementi fondamentali del finanziamento, quali, ad esempio, l’ammontare della somma finanziata, le parti coinvolte, e così via. Nel caso in cui tali elementi non dovessero essere evidenti, è opportuno impugnare l’atto, chiedendo al giudice di merito di dichiararne l’illegittimità per violazione e falsa applicazione dell’articolo 22.

Affinché possa trovare applicazione l’imposta di registro anche sull’atto enunciato, è necessario che:
 l’atto enunciante consenta di individuare gli elementi essenziali dell’atto enunciato;
 l’atto enunciato sia posto in essere tra le stesse parti intervenute nell’atto enunciante e che non sia stato registrato.

Le scelte preventive
Al fine di attenuare il rischio crescente di contestazione, sarebbe opportuno valutare la possibilità di strutturare le operazioni di ricapitalizzazione non ancora effettuate in modo diverso.

Si potrebbe, ad esempio, decidere di operare il rimborso dei finanziamenti ai soci prima dell’adozione della delibera di aumento del capitale. In questo modo, poi, i soci possono operare il successivo conferimento in società del denaro rimborsato. È ovvio, tuttavia, che in ipotesi di crisi societaria tale soluzione potrebbe apparire difficilmente praticabile, dal momento che la società potrebbe non disporre del denaro da rimborsare ai soci.

In alternativa, si potrebbe procedere con uno “spacchettamento” degli atti: in particolare, dopo aver deliberato la sola ricapitalizzazione, l’aumento dovrebbe essere sottoscritto dai soci mediante la rinuncia al precedente finanziamento. In tal modo, si potrebbe evitare di presentare alla registrazione una delibera assembleare che effettui anche la rinuncia e, quindi, enunci il finanziamento. Anche questa scelta, tuttavia, non rende immune da rischi: alla delibera di ripianamento delle perdite andrà allegata la situazione patrimoniale della società, dalla quale potrebbe indirettamente desumersi la presenza del finanziamento.

Infine, laddove non vi sia opposizione dei soci, potrebbe essere opportuno contabilizzare già all’origine i finanziamenti dei soci come «conferimenti in conto capitale», in modo che essi non vadano a confluire nelle poste passive di bilancio, ma compaiano tra le poste di patrimonio netto.

Liti pendenti, il concetto di «atto impositivo» al test di quelli liquidatori

La nuova disposizione finalizzata alla chiusura delle liti fiscali pendenti impone un’attenta valutazione derivante dalla struttura della norma nella parte in cui delimita il perimetro di applicazione ai soli atti qualificati come impositivi.
Tale contesto lascia intravedere che le controversie riguardanti atti con i quali l’agenzia delle Entrate si è limitata a liquidare le somme dovute in esito a quanto dichiarato dai contribuenti, resterebbero prive di una soluzione bonaria. L’ultima conferma, in tal senso, arriva dalla Cassazione con lasentenza n. 7099 del 13 marzo 2019 .
Tra queste situazioni potrebbero rientrare, ad esempio, l’avviso di liquidazione dell’imposta di registro e dell’imposta principale di successione e donazione, così come le cartelle che fanno seguito agli avvisi bonari.

Per il momento, quindi, ci sono perplessità sulla possibilità di definire gli atti con i quali l’ufficio richiede il pagamento dell’imposta principale (ad esempio, registrazione d’ufficio, richiesta di registrazione di atti giudiziari), dell’imposta suppletiva e dell’imposta complementare diversa da quella di un maggior valore accertato (ad esempio, decadenza dalle agevolazioni tributarie).
Tuttavia, se nei precedenti provvedimenti di pacificazione fiscale l’amministrazione finanziaria aveva prevalentemente escluso che la semplice attività liquidatoria avesse la connotazione di attività impositiva, rimane comunque margine per far rientrare nel novero degli atti impositivi, attraverso un’attenta lettura sistematica delle norme e degli indirizzi giurisprudenziali, anche quei provvedimenti che per la prima volta esternalizzano la pretesa tributaria.
A questo proposito, la linea di demarcazione tra l’ atto che ha natura impositiva e quello che non ce l’ha non può essere ricavata dalla semplice denominazione del provvedimento, ma deve essere verificata sulla base della sostanza e sull’incidenza che lo stesso produce nella sfera patrimoniale del contribuente.
Su questi presupposti l’agenzia delle Entrate chiarì, in merito alla chiusura delle liti fiscali minori (circolare 48/E 2011), che in tema di liquidazione dell’imposta principale di successione, affinché l’atto avesse natura impositiva, occorreva che dal contenuto finale dell’atto amministrativo tributario si ricavasse l’esercizio dell’attività discrezionale e valutativa dell’ufficio di carattere non seriale.

In quell’occasione, inoltre, in merito all’imposta di registro fu anche precisato, richiamando un precedente giurisprudenziale di legittimità (Cassazione 20731/2010), che all’avviso di liquidazione non può essere esclusa la natura di atto impositivo quando questo è destinato ad esprimere per la prima volta una pretesa maggiore rispetto a quella applicata al momento della registrazione.
In sostanza, per essere definibile, bisogna guardare alla natura sostanziale del rapporto giuridico d’imposta che si intende chiudere. In altre parole, l’atto rientra nella sanatoria tutte le volte che dal suo contenuto si evincono passaggi cognitivi e valutativi necessari per arrivare alla formazione del provvedimento tributario. E questo può avvenire anche quando oggetto del giudizio è un avviso di liquidazione in quanto primo atto con cui viene richiesta l’imposta.
Da tale contesto emerge chiaramente come una valutazione oggettiva e consapevole non può prescindere, per coloro che intendo attivare la procedura agevolativa, da un intervento chiarificatore che specifichi le singole fattispecie rientranti nell’ambito della sanatoria.

 Fonte “Il sole 24 ore”

Nelle società tra professionisti i soci sono solo persone fisiche

La presenza di Stp o Sta nel capitale elude il divieto di partecipazioni multiple
Nulla osta alla presenza di soci di Stp in una associazione professionale
A uno studio professionale associato (o associazione professionale) possono partecipare solo professionisti persone fisiche: non una società tra professionisti (Stp) né un’altra associazione professionale. Lo si afferma in un parere espresso dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili (prot. PO 169/2018 del 18 marzo 2019).
L’argomentazione del Cndcec è argomentata inizia rilevando che chi è socio di una Stp non può essere socio di altra Stp: lo vieta l’articolo 10, comma 6, legge 183/2011, il quale prescrive che «la partecipazione ad una società è incompatibile con la partecipazione ad altra società tra professionisti». Da ciò discenderebbero le seguenti considerazioni:
la norma contiene espressioni di carattere generale, non riferite cioè ai soci professionisti della Stp: quindi, essa dovrebbe riferire il divieto in essa contenuto sia ai soci professionisti che ai soci non professionisti;
se è vero che un socio di Stp non può partecipare ad altra Stp, allora, se una Stp fosse partecipata da altra Stp, i soci della Stp partecipante sarebbero “indirettamente” soci della Stp partecipata, con ciò di fatto eludendosi il divieto;
il socio di Stp può svolgere la professione anche in forma individuale (in quanto nessuna norma lo vieta);
il socio di Stp può partecipare a una associazione professionale (anche in questo caso perché non esistono norme che lo impediscano).
Ancora, la normativa applicabile alla professione forense (l’articolo 4, comma 2, della legge 247/2012 e il Dm 23/2016) espressamente consente, con espressioni evidentemente generalizzabili pure con riferimento ad altre professioni:
la possibilità di costituire studi professionali multidisciplinari composti prevalentemente da avvocati, in associazione con professionisti appartenenti ad altri Ordini professionali, quali individuati dal predetto decreto 23/2016;
la possibilità che un avvocato si associ in uno studio associato tra professionisti esercenti una professione diversa da quella forense.
Da tutto questo articolato panorama normativo discende, secondo il Cndcec (sia pure «prudenzialmente»), che il sistema non tollera altro che le associazioni professionali composte da professionisti persone fisiche e che pertanto non è ammesso che a una associazione professionale prenda parte una Stp o un’altra associazione professionale.
Altra recente notizia in materia è che l’Ordine degli avvocati di Milano (parere 24/19 del 12 marzo 2019) ha affermato che un avvocato che non sia socio di una Stp (la quale, a sua volta, non abbia la professione forense nel suo oggetto sociale) non può praticare l’avvocatura nell’ambito della società; e, ove vi assuma la carica di amministratore, non può ricevere deleghe gestionali. Ovviamente, una Stp senza l’attività forense nell’oggetto sociale e senza soci avvocati, ma con un avvocato nell’organo amministrativo, non può essere iscritta all’Ordine degli avvocati.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Fonte “Il sole 24 ore”
Angelo Busani

Mancato incasso Iva, la nota di variazione solo sul tributo

Principio di neutralità: la rettifica non riguarda il reddito imponibile
La nota di variazione Iva in diminuzione, emessa a causa del mancato incasso dell’imposta addebitata – a norma dell’articolo 60, comma 7, del Dpr 633/1972, dal cedente al cessionario – a seguito del pagamento dell’imposta dovuta in base a un atto di accertamento o rettifica, può avere a oggetto il solo tributo e non, in proporzione, tributo e imponibile. Lo ha affermato la Direzione Regionale delle Entrate della Toscana, con la risposta a interpello 911-67/2019, con riferimento al caso di seguito descritto.
Un’impresa ha per lungo tempo ceduto dei beni a un proprio cliente, escludendo di comprendere nell’imponibile indicato nelle fatture emesse l’importo di un contributo ambientale dovuto in relazione a tali vendite a un ente pubblico, in quanto addebitato da quest’ultimo direttamente all’acquirente e da questi regolarmente pagato a detto ente. Il Fisco ha contestato al cedente la mancata applicazione dell’Iva all’importo corrispondente al predetto contributo, sul presupposto che, in base alla legge che lo disciplinava, esso gravava sul cedente, indipendentemente dal fatto che fosse materialmente pagato dall’acquirente, ricorrendo in tal caso la fattispecie prevista dall’articolo 13, comma 1, del Dpr 633, secondo cui la base imponibile Iva è costituita anche dai «debiti, dagli oneri e dalle spese verso terzi accollati al cessionario o committente». L’impresa cedente, ritenendo fondato il rilievo, ha prestato acquiescenza all’avviso di accertamento emesso nei suoi confronti, provvedendo al pagamento delle imposte delle sanzioni e degli interessi da esso recati e, conseguentemente, a norma dell’articolo 60, comma 7, ha addebitato in via di rivalsa al cessionario l’imposta assolta. Poiché quest’ultimo non ha pagato il tributo addebitatogli nemmeno a seguito di un’azione esecutiva, si sono realizzati i presupposti per l’emissione, da parte dell’impresa cedente di una nota di variazione Iva in diminuzione, a norma dell’articolo 26, comma 2, del Dpr 633. Ciò posto, si è trattato di stabilire se tale nota potesse avere a oggetto solo l’imposta non percepita dal cedente, che avrebbe così potuto recuperare integralmente l’importo versato al Fisco a tale titolo, ovvero dovesse riguardare, in proporzione, non solo l’imposta ma anche il relativo imponibile, dovendosi riconsiderare l’intera cessione nel suo complesso. Assumendo che il contributo ambientale ammontasse a 100, essendo applicabile l’aliquota del 22% si trattava di stabilire se la nota di variazione, emessa a causa del mancato incasso di un importo pari a 22, riguardasse solo l’Iva ovvero dovesse avere a oggetto l’imponibile per 18,0328 e l’imposta per 3,9672, pari al 22% di 18,0328.
L’agenzia delle Entrate, ritenendo che in caso contrario verrebbe violato il principio di “neutralità” cui è informata la disciplina dell’Iva, e manifestando un indirizzo opposto a quello espresso dall’Aidc con la norma di comportamento 195, ha chiarito che la variazione può riguardare il solo tributo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Fonte “Il sole 24 ore”
Giulio Andreani

Il controllo interno «doc» prepara la trasmissione dei corrispettivi

I contribuenti con più punti cassa devono avere una dichiarazione di conformità
Per gli operatori maggiori l’obbligo scatta dal 1° luglio 2019
Processi amministrativi e contabili interni e sistemi informatici da far certificare come conformi prima o contestualmente all’entrata in funzione dei registratori o server telematici; i termini per la conformità sono in ogni caso stabiliti al 1° gennaio 2020 per tutti gli esercenti e al 1° luglio 2019 per i contribuenti con volume d’affari oltre i 400mila euro, compresi gli operatori che avevano optato per la trasmissione opzionale dei corrispettivi prevista per la Gdo dalla legge 311 del 2004. Queste le principali indicazioni rese dall’agenzia delle Entrate con la risposta a consulenza giuridica 13 pubblicata ieri, 20 marzo 2019: in assenza di puntuali indicazioni contenute nelle specifiche tecniche versione 6.0 di agosto 2018, sono stati in questo modo individuati i termini entro cui gli esercenti con più punti cassa per singolo punto vendita devono ottenere la dichiarazione di conformità di processi e sistemi informatici aziendali coinvolti nella memorizzazione e trasmissione telematica dei corrispettivi. Gli operatori interessati infatti, oltre alla certificazione con cadenza annuale del proprio bilancio di esercizio, devono dotarsi non solo di un processo di controllo interno, conforme al modello 231/2001, ma richiedere e ottenere il rilascio, da parte di una società di revisione o degli enti (istituti universitari o Cnr) abilitati, di tale dichiarazione di conformità prima dell’avvio della trasmissione telematica e, successivamente, con cadenza triennale. Ai fini della certificazione, occorre garantire che il processo di controllo interno rispetti una serie di requisiti minimi tra cui, essenzialmente, la verifica che a ogni documento di vendita (corrispettivo) corrisponda un incasso in contanti o con strumenti tracciabili. Il controllo di processo interno, secondo le specifiche tecniche, deve essere effettuato a livello di singola cassa, cassiere e forme di pagamento. Eventuali differenze e eccezioni devono essere riconciliate con idonea documentazione da conservare elettronicamente, in base al Dm 17 giugno 2014, per dieci anni. Allo stesso modo occorre predisporre e conservare elettronicamente la documentazione amministrativa che descrive tale processo interno, da strutturare in una serie di fasi.
Per far fronte all’obbligo dei corrispettivi telematici non è sufficiente una attenta valutazione del fornitore delle apparecchiature che permettono la memorizzazione e la trasmissione, ma occorre al contrario partire dall’analisi delle necessità aziendali, verificare canali, modalità e struttura di vendita, considerando l’interfacciamento con Erp e applicativi aziendali già utilizzati e gestire le problematiche per la corretta documentazione di resi, abbuoni, sconti o acquisti con utilizzo di gift card. Il tutto in un quadro regolamentare che deve essere completato quanto prima, con il rilascio degli ulteriori decreti ministeriali attuativi che definiranno con precisione soggetti e operazioni interessate i quali, non necessariamente, coincideranno con quanto finora stabilito per scontrini e ricevute fiscali dal Dpr 696 del 1996.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Fonte “Il sole 24 ore”
Alessandro Mastromatteo
Benedetto Santacroce

La sanatoria degli errori formali «assorbe» la definizione delle liti

Con 200 euro si può chiudere anche la vertenza ancora sotto giudizio
Con l’alternativa meno costosa si verificherà la cessazione del contendere
La sanatoria delle irregolarità formali potrà essere utilizzata in luogo della definizione delle liti pendenti qualora le violazioni risultino “comuni” ad entrambe le sanatorie.
La sanatoria delle irregolarità formali (articolo 9 del Dl 119/2018) contempla le violazioni che non incidono sulla determinazione dell’imponibile e/o sul pagamento del tributo e si riferisce alle irregolarità commesse per ciascun periodo d’imposta. Il comma 7 dell’articolo 9 stabilisce che risultano escluse dalla regolarizzazione le violazioni contestate in atti divenuti definitivi alla data del 19 dicembre 2018. Il punto 1.3.3. del provvedimento del 15 marzo aggiunge che la sanatoria non si applica alle violazioni formali oggetto di rapporto pendente al 19 dicembre 2018, in riferimento al quale sia intervenuta pronuncia definitiva oppure altre forme di definizione agevolata antecedentemente al versamento della prima rata della somma dovuta per la regolarizzazione.
Ciò significa, in sostanza, che gli effetti della sanatoria, pur riguardando il singolo periodo d’imposta, si estendono agli atti di contestazione emessi dall’Agenzia e non divenuti definitivi al 19 dicembre 2018 e, se il rapporto risultava pendente a tale ultima data, non divenuti definitivi prima del 31 maggio 2019 (data di versamento della prima rata).
In tutto questo va considerato che la definizione agevolata delle liti pendenti (articolo 6 del Dl 119/2018) prevede la possibilità di definizione delle controversie riguardanti esclusivamente le sanzioni non collegate al tributo, con il pagamento del 15% del valore della controversia in caso di soccombenza dell’Agenzia e con il pagamento del 40% negli altri casi.
Chiaramente, le sanzioni non collegate al tributo sono quelle che, nella gran parte dei casi, scaturiscono da violazioni che non rilevano ai fini della determinazione della base imponibile e sul pagamento del tributo, rientranti nella sanatoria delle irregolarità formali di cui all’articolo 9 del Dl 119/2018. Si sottolinea che ciò vale «nella gran parte dei casi», per significare, ad esempio, che le violazioni da quadro RW, oggetto di un atto “pendente” secondo la nozione stabilita dall’articolo 6 del Dl 119/2018, può essere definito soltanto con quest’ultima forma di definizione (essendo tali violazioni espressamente escluse dalla sanatoria delle irregolarità formali).
Tuttavia, altri contenziosi pendenti – in base all’articolo 6 – per violazioni che rientrano tra quelle incluse nella sanatoria delle irregolarità formali, possono certamente essere definite con i 200 euro previsti da tale ultima sanatoria. Questo alla condizione che l’atto non risulti definitivo in base alle disposizioni previste dall’articolo 9.
Evidentemente, non aderendo alla definizione delle liti pendenti, non si avrà l’estinzione del processo in base a quanto previsto dalle disposizioni delle liti pendenti. Si dovrà però successivamente realizzare la cessazione della materia del contendere, a norma dell’articolo 46 del Dlgs 546/1992.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Fonte “Il sole 24 ore”
Dario Deotto

Prestazioni sanitarie B2B con fattura elettronica

La conferma: i servizi B2C non sono documentabili attraverso l’e-fattura
Con la risposta ad interpello 78/2019 l’Agenzia conferma due principi: nessuna prestazione sanitaria B2C può essere documentata da e-fattura; le prestazioni sanitarie B2B vanno documentate con fattura elettronica.
Il quesito viene da un fisioterapista abilitato. Che tale attività rientri tra le professioni sanitarie è ormai indiscutibile, specie dopo che la legge di Bilancio 2019 ha previsto la sanatoria generalizzata dell’esercizio di professioni sanitarie minori ed ha abrogato l’articolo 1 legge 403/74, che disciplinava il massofisioterapista.
L’Agenzia, richiamando dettagliatamente le disposizioni vigenti, ha confermato che per il 2019:
le prestazioni sanitarie effettuate nei confronti di persone fisiche non vanno mai fatturate elettronicamente via Sdi, a prescindere dal soggetto (persona fisica, società) che le eroga e dall’invio, o meno, dei relativi dati al Sistema tessera sanitaria. Questa interpretazione (come era stato già segnalato nella Guida facile alla Fattura elettronica del Sole 24 Ore del 24 gennaio) è l’unica rispettosa delle indicazioni del Garante della privacy nel provvedimento del 20 dicembre 2018 che impone: «In nessun caso sia emessa una fattura elettronica attraverso lo Sdi concernente l’erogazione di una prestazione sanitaria »;
qualora il professionista o la struttura sanitaria si avvalgano di terzi, che non fatturino direttamente all’utente, tali soggetti (fermi eventuali esoneri specifici), devono documentare il servizio B2B a mezzo fattura elettronica via Sdi.
L’Agenzia precisa infine che in ipotesi di divieto o esonero da fatturazione elettronica tramite Sdi, l’obbligo di documentazione fiscale può essere assolto in formato analogico, ma anche con fattura elettronica non-Sdi (ad es. il pdf via email). In tale ultimo caso però valgono le regole del Gdpr, per cui dovrà essere fatta molta attenzione al rispetto delle misure di sicurezza anche informatica a garanzia della privacy.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Fonte “Il sole 24 ore”
Marcello Tarabusi

Arriva il nuovo modello RLI per registrare le locazioni

Si può usare da subito il nuovo modello o impiegare il vecchio sino al 18 maggio
Dal 19 maggio sarà accettato solo il modulo approvato con il provvedimento di ieri
Con il nuovo modello RLI cambiano le regole per la registrazione telematica dei contratti di locazione. L’agenzia delle Entrate ha diffuso ieri il provvedimento direttoriale del 19 marzo 2019 (Prot. n. 64442/2019): l’impiego del modello diventerà obbligatorio a partire dal 19 maggio 2019.
Diversamente dal precedente provvedimento, quello di ieri stabilisce che da oggi e sino al 18 maggio 2019 si potrà usare sia il nuovo che il vecchio modello, in vigore dal 19 settembre 2017 in base al provvedimento 112605/2017.
Il modello è presentabile solo in via telematica, direttamente dal contribuente o attraverso i soggetti abilitati alla trasmissione. Il modello RLI può essere usato anche dai soggetti non obbligati alla registrazione telematica dei contratti di locazione attraverso gli uffici dell’agenzia delle Entrate. Ora nel quadro “dati generali” sono entrate parecchie delle indicazioni contenute prima nella Sezione I ma di fatto non è stata introdotta alcuna notizia in più.
Le novità comunque ci sono. Vediamo le principali.
Va ricordato, anzitutto, che l’opzione per la cedolare secca è possibile da quest’anno anche per i contratti relativi a unità immobiliari commerciali di categoria catastale C/1 e relative pertinenze.
Nel quadro A, Sezione II, la casella «cedolare secca» è stata sostituita dalla casella «Tipologia di regime», dove si indica (come prima) il codice 1, 2 o 3 a seconda che, in caso di più locatori, tutti, alcuni o nessuno opti per questo regime fiscale. È stata anche introdotta la casella «tardività annualità successiva» che serve a indicare (codice 1) se si intende comunicare (in ritardo) che si vuole passare da Irpef a cedolare per l’annualità successiva. Attenzione: in questo caso non si può fare l’invio telematico ma occorre recarsi all’ufficio. Se nessuno cambia il regime si indica il codice 2 e l’invioè telematico senza problemi.
Nella Sezione III, invece, rispetto al modello del 2017, è sparita la casella «Soggetto subentrato».
Nel quadro B, Sezione I, è stata invece aggiunta per maggiore chiarezza la dicitura «subentrante» all’ultima casella a destra in alto, che prima era riservata sia al cessionario che al subentrante.
Nel quadro C la casella «Tipologia immobili» ha solo cambiato nome ma la regola di indicare prima l’immobile principale e poi la pertinenza è rimasta uguale. Così come è cambiato il nome del quadro D (ora «Regime di tassazione») ma la compilazione resta identica.
Già nel precedente nuovo modello era stato previsto il quadro E, inserito per rendere chiaro se, in relazione a una o più annualità del contratto sottoposto a registrazione, è prevista la corresponsione di un canone diverso in funzione della durata del contratto. E anche qui non sono cambiate le regole di compilazione.
Nel provvedimento di ieri è ricordato che il modello, se presentato su carta, va stampato con inchiostro nero.
Si può evitare di trasmettere in allegato il contratto se i locatori o i conduttori non sono più di tre (tutte persone fisiche), l’affitto riguarda una sola unità abitativa e non più di tre pertinenze e nel contratto non ci sono patti che non riguardano la locazione.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Fonte “Il sole 24 ore”
Saverio Fossati

Detrazioni Iva a rischio dopo la procedura esecutiva

L’effetto della mancata emissione della nota di accredito nei termini
La posizione delle Entrate riguarda anche le procedure concorsuali
La mancata emissione della nota d’accredito “nei termini” mette a rischio il recupero dell’Iva anche in caso di procedura concorsuale o esecutiva. Queste sono le conseguenze desumibili dalla risposta 55/2019, allineata alle conclusioni della precedente risposta n. 113 del 2018 in materia di note di variazione nel concordato preventivo “in continuità”. Per evitare tali effetti, occorre dunque conoscere la data che, secondo il Fisco, attesta l’infruttuosità della procedura. È a partire da tale data, infatti, che si può operare la variazione in diminuzione, tenendo presente che, in base al vigente articolo 19, comma 1, Dpr 633/72, l’imposta è recuperabile, al più tardi, con la dichiarazione relativa all’anno in cui il diritto è sorto e alle condizioni del momento in cui è sorto. Solo per le rettifiche i cui presupposti si sono manifestati ante 1° gennaio 2017, il termine per il recupero del tributo è quello della dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello di nascita del diritto, come previsto dalla precedente versione dell’articolo 19 (circolare n. 1/E/2018).
Per il fallimento è necessario che sia decorso il termine per le osservazioni al piano di riparto (circolare 77/E/2000) o, se non c’è riparto, quello per il reclamo al decreto di chiusura della procedura (risoluzione 195/E/2008). In caso di concordato preventivo, oltre alla sentenza che omologa la procedura, si deve considerare anche il momento in cui il debitore adempie gli obblighi assunti (circolare 8/E/2017 e risposta 113/2018). In vista della scadenza del 30 aprile, pertanto, occorre monitorare le procedure chiuse (nel senso precisato) nel 2018 e, se non si è già provveduto, è bene affrettarsi. L’emissione entro aprile della nota di variazione (elettronica) permette, infatti, previa registrazione in apposito sezionale, di esercitare la detrazione nella dichiarazione. Se questa è già stata presentata, pare possibile ricorrere alla dichiarazione correttiva nei termini, facendovi confluire il credito portato dalla nota in diminuzione nel frattempo emessa. Secondo le Entrate, invece, il recupero non sarà possibile dopo il 30 aprile, ricorrendo alla dichiarazione integrativa a favore.
Stante la regola “transitoria” per i casi in cui il presupposto della rettifica è maturato ante 1° gennaio 2017, sono recuperabili con il modello Iva 2019 anche i crediti d’imposta verso procedure concluse nel 2016, a condizione che la variazione (per la quale non opera il limite annuale dell’articolo 26, comma 3, Dpr 633/72) sia eseguita entro il prossimo 30 aprile. Soluzione che, invece, non pare ammessa per una procedura chiusa nel 2017, ove non sia stata emessa nota di credito entro aprile dell’anno scorso.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Fonte “Il sole 24 ore”
Pagina a cura di
Matteo Balzanelli
Massimo Sirri

Sanatoria per tutte le violazioni relative alle comunicazioni Iva

È possibile definire anche le sviste e le carenze sui dati per gli studi di settore
La regolarizzazione vale solo per violazioni che non impattano sull’imponibile
Il provvedimento 62274/2019, attuativo della sanatoria delle violazioni formali (articolo 9 del Dl 119/2018) varato venerdì dall’agenzia delle Entrate, non individua precisamente le fattispecie interessate dalla regolarizzazione, enunciando invece principi di carattere più generale: in particolare, la violazione, per essere considerata formale, non deve incidere sulla determinazione della base imponibile, dell’imposta e sul versamento del tributo precisando, a scanso di equivoci, che l’omessa presentazione delle dichiarazioni (imposte sui redditi, Irap o Iva), anche qualora non dovesse risultare alcuna imposta dovuta, non rientra nella sanatoria delle irregolarità formali, perché questa omissione rileva sempre ai fini della determinazione della base imponibile.
Per individuare esattamente le violazioni sanabili occorre quindi interrogarsi sulla precisa latitudine della sanatoria tenendo a mente che la definizione non è subordinata al solo pagamento della quota fissa di 200 euro per anno, ma anche alla regolarizzazione postuma della violazione.
Si possono senz’altro considerare formali e quindi rientranti nella sanatoria, tutte le violazioni che vengono punite dall’articolo 8 del Dlgs 471/1997 (violazioni relative al contenuto e alla documentazione delle dichiarazioni) con la sanzione fissa. È il caso, ad esempio, dell’omessa o irregolare presentazione dei dati afferenti l’applicazione degli studi di settore. Inoltre, sono da considerarsi formali e, quindi, rientranti nella sanatoria, la gran parte degli obblighi di comunicazione previsti dall’articolo 11 dello stesso Dlgs 471/1997, come, ad esempio, la comunicazione di sintesi delle liquidazioni periodiche, la comunicazione dei dati delle fatture e degli elenchi Intrastat. Rientrano, inoltre, sicuramente nella sanatoria anche le violazioni relative all’inversione contabile quando l’imposta è stata assolta dalla controparte (articolo 6, commi 9-bis1 e 9-bis2), l’omessa presentazione del modello F24 a saldo zero e diverse altre per le quali si rimanda alla tabella a fianco.
Il provvedimento precisa anche che rientrano nella sanatoria non solo le violazioni formali commesse dai contribuenti, ma pure quelle che riguardano i sostituti d’imposta, gli intermediari ed i soggetti, più in generale, tenuti alla comunicazione di dati fiscalmente rilevanti. In quest’ambito vanno quindi segnalate le eventuali violazioni commesse dagli intermediari abilitati nelle trasmissioni delle dichiarazioni dei propri assistiti, sanzionabili ai sensi dell’articolo 7-bis del Dlgs 241/1997 e quelle più in generale inerenti le varie comunicazioni all’anagrafe tributaria .
Più dubbia è l’applicabilità della sanatoria alle violazioni che non sono state già regolarizzate grazie al ricorso alla cosiddetta remissione in bonis. Ci riferiamo, ad esempio, all’accesso ai regimi fiscali opzionali, subordinati all’obbligo di preventiva comunicazione o di altro adempimento di carattere formale. Vista la posizione assunta nel provvedimento si potrebbe sostenere che queste violazioni possono aver inciso sulla determinazione della base imponibile, dell’imposta e sul versamento del tributo per cui resterebbero estranee alla sanatoria.
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Dario Deotto
Gian Paolo Ranocchi

Voucher monouso, tassazione al momento dell’emissione

Rilevante ai fini Iva l’individuazione di beni e servizi preacquisiti
Il multiuso è invece tassato solo al riscatto con passaggi intermedi fuori campo Iva
L’utilizzo dei voucher nel commercio e nel welfare aziendale ridetermina il momento di tassazione Iva delle singole operazioni, solo se lo stesso individua beni e servizi preacquisiti. Per comprendere appieno la problematica è in primo luogo necessario chiarire cosa rientra nella nozione di voucher e, di conseguenza, cosa – in aggiunta alle esclusioni previste dalla normativa comunitaria per i buoni sconto, i titoli di trasporto, i biglietti di ingresso a cinema e musei, i francobolli e altri titoli simili – ne è estraneo.
Anzitutto, un voucher, sebbene possa essere emesso per facilitare un processo di pagamento, non è uno strumento di pagamento. La distinzione fra le due fattispecie si fonda sull’esistenza o meno di un diritto preacquisito a ricevere beni o servizi. Più precisamente, gli strumenti di pagamento si distinguono dai voucher in quanto non incorporano tale specifico diritto, ma hanno l’unica finalità di effettuare un pagamento.
Il riscatto di un voucher contro la prestazione di beni o servizi non realizza un pagamento. Il riscatto rappresenta l’esercizio del diritto, che il voucher incorpora, a ricevere beni/servizi sorto in via anticipata (preacquisito) rispetto alla prestazione, ovvero sorto a seguito del pagamento corrisposto “a monte” all’atto dell’acquisto del voucher. Al contrario, uno strumento di pagamento non incorpora tale diritto. Uno strumento di pagamento per coprire il costo di beni o servizi conferisce al titolare il diritto a ricevere tali beni o servizi solo nel momento di effettuazione del pagamento realizzato tramite l’utilizzo del credito rappresentato dallo strumento in questione. Pertanto, uno strumento che non incorpora il diritto (preacquisito) a ricevere beni o servizi ma ne determina il sorgere contestualmente della sua presentazione per il riscatto non è un voucher ma è da assimilarsi a un mezzo di pagamento.
Va poi precisato che un voucher può non contenere l’indicazione specifica dei beni o servizi a cui dà diritto. Il nuovo articolo 6-bis del Dpr 633/72 stabilisce che un voucher deve indicare «i beni o i servizi da cedere o prestare o le identità dei potenziali cedenti o prestatori». L’uso della congiunzione disgiuntiva «o» suggerisce l’obbligo di menzionare almeno uno fra i beni/servizi e i cedenti/prestatori. Così, si ritiene riconducibile alla nozione di voucher un buono ad valorem da utilizzare presso un esercizio commerciale convenzionato che vende beni soggetti ad aliquote Iva diverse, contro beni scelti dal titolare del voucher all’atto del riscatto fra quelli in vendita. Un voucher con tali caratteristiche rientra fra i buoni multiuso dato che la prestazione (cessione di beni o prestazione di servizi) a cui dà diritto non è individuata con sufficiente precisione da poter fissare il corretto regime Iva già dal momento dell’emissione. Se, invece, un voucher incorpora il diritto a ricevere beni/servizi per i quali già all’atto dell’emissione si dispone di tutte le informazioni necessarie per applicare la appropriata disciplina Iva – in particolare, l’aliquota e il luogo di cessione/prestazione – il voucher è da ricondurre alla categoria dei monouso. La differenza fra le due tipologie è che il monouso è tassato all’atto dell’emissione come se con l’emissione si realizzasse la cessione del bene o la prestazione del servizio a cui il voucher dà diritto. Di conseguenza – come se venissero ceduti tali beni/servizi sottostanti – sono tassate anche tutte le cessioni intermedie del buono prima del riscatto, il quale avviene senza applicazione dell’Iva, essendo essa già stata corrisposta a monte (all’emissione). Al contrario, un voucher multiuso è tassato solo al riscatto, quando sono individuati i beni/servizi a cui dà diritto e, con questi, la relativa disciplina Iva. Di conseguenza, i passaggi intermedi del voucher, in quanto mere movimentazioni finanziarie, sono fuori campo Iva.
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A cura di
Matteo Mantovani
Benedetto Santacroce

Nel decreto sblocca-cantieri torna il superammortamento ed entra il taglio dell’Ires al 22,5%

Il decreto sblocca-cantieri si allarga e punta a prendere la forma di un provvedimento a tutto campo per la crescita: la vera «manovra-bis» nell’ottica del governo, chiamata non a correggere i conti ma a spingere il Pil.

Per farlo, nelle prime versioni conta 35 misure articolate in aree: fisco per la crescita, investimenti privati e investimenti pubblici. Nel primo capitolo si incontra la replica del super-ammortamento, per gli investimenti in beni strumentali fino a 2,5 milioni di euro effettuati dal 1° aprile al 31 dicembre. Escluse però autovetture, immobili e attrezzature «di lunga durata». Nel capitolo fiscale dovrebbe poi trovare spazio la riduzione progressiva dell’Ires con l’obiettivo di tagliarla dal 24 al 20 per cento, all’interno di un taglio al cuneo fiscale che comprende anche la stabilizzazione della riduzione del 30% ai premi Inail avviata per il 2019-21 dalla legge di bilancio. Ma la misura deve ancora risolvere il problema delle coperture per trovare una definizione. Sempre in campo fiscale, tra le novità in arrivo va segnalata l’eliminazione dell’obbligo di interpello per accedere al Patent Box, lo sconto fiscale sui beni immateriali, la proroga del credito d’imposta per ricerca e sviluppo, l’estensione delle agevolazioni per il rientro dei cervelli dall’anno d’imposta 2020. In cantiere anche una correzione necessaria per rimettere in moto il mercato dei Pir (Piani individuali di risparmio): si prevede una «rimodulazione progressiva della quota di investimenti qualificati» da destinare al Venture Capitale e all’Aim per arrivare «gradualmente alla percentuale del 3,5%» introdotta con la manovra.

Un’altra correzione arriva poi per la Flat Tax: i datori di lavoro che accedono alla tassa piatta dovranno comunque applicare le ritenute ai loro dipendenti.

Si studia poi un versante sugli investimenti locali, con una replica da 450 milioni per la spinta alla spesa in conto capitale dei Comuni fino a 50mila abitanti. Agli enti locali si estende poi il piano di dismissioni immobiliari.

Sotto esame anche i tempi di pagamento, in particolare nelle transazioni fra privati. Come forma di «moral suasion», si chiede alle aziende di dichiarare nelle scritture contabili i tempi medi utilizzati per pagare i propri fornitori, evidenziando quelli che sforano i tetti di legge.

Il provvedimento rappresenta nelle intenzioni del governo una sorta di antipasto al Def di aprile, nel quale potrebbero trovare posto anche i progetti più ampi di riforma fiscale. Ai tavoli del Mef si è tornati in questi giorni a parlare della trasformazione in sconto fiscale del bonus da 80 euro, oggi classificato come spesa pubblica. La mossa, complicata, non troverà spazio nel decreto, ma si riapre appunto in vista del Def.

In fatto di fisco, in prima fila c’è il taglio Ires per utili e riserve che vengono lasciati in azienda e non distribuiti ai soci. Sul tavolo c’è l’idea di un taglio dell’aliquota, che punta a ridurla di quattro punti. Non tutto subito, ma una parte delle coperture arriverebbe dall’addio alla mini-Ires, che si sta rivelando più complicata del previsto nelle sue traduzioni pratiche. A inizio settimana lo ha riconosciuto anche il sottosegretario all’Economia Massimo Garavaglia, all’assemblea delle piccole e medie imprese di Assolombarda. Di qui l’idea di utilizzare le risorse messe a bilancio per questa misura (1,1 miliardi per il 2019, 1,5 per il 2020 e 1,9 per il 2021) per avviare il taglio dell’aliquota: già per il 2019 si potrebbe scendere a 22,5%, per poi abbassarsi di un punto all’anno per arrivare a regime al 20% nel 2021-22. Questo è il calendario che si ricaverebbe dal quadro finanziario attuale; ma come sottolineato a Milano dallo stesso Garavaglia l’ambizione è quella di ridurre i tempi planando al 20% già con la manovra d’autunno. Saldi e clausole permettendo.

Errori formali, regolarizzazione entro il 2 marzo del 2020

Efficacia della sanatoria subordinata alla rimozione – anche se un po’ nebulosa – delle irregolarità o omissioni. Apertura anche alle violazioni commesse da sostituti d’imposta e intermediari abilitati. Sono alcuni degli aspetti più rilevanti contenuti nel provvedimento di ieri del direttore dell’agenzia delle Entrate (prot. 62274/2019) in attuazione della sanatoria delle irregolarità formali disciplinata dall’articolo 9 del Dl 119/2018.

Ambito applicativo

Le violazioni formali regolarizzabili sono quelle commesse fino al 24 ottobre 2018 da contribuenti, sostituti d’imposta, intermediari e chiunque sia tenuto ad adempimenti fiscalmente rilevanti. Il provvedimento, quindi, apre anche alle violazioni commesse dagli intermediari telematici.

Il primo elemento fondamentale per accedere alla regolarizzazione è che, per la violazione formale, risulti competente l’agenzia delle Entrate all’irrogazione della sanzione. Il secondo è che la violazione non incida sulla determinazione della base imponibile, dell’imposta e sul versamento del tributo. Il provvedimento precisa che l’omessa presentazione delle dichiarazioni (imposte sui redditi, Irap o Iva), anche qualora non dovesse risultare un’imposta dovuta, non rientra nella sanatoria.

La rimozione dell’errore

Il secondo presupposto per accedere alla sanatoria è la rimozione delle irregolarità od omissioni commesse per ciascuno dei periodi d’imposta per i quali si effettua il versamento dei 200 euro. Su questo aspetto, molto delicato, il provvedimento disciplina diverse casistiche in modo non chiarissimo (punto 2.7). Il termine ordinario entro cui la rimozione degli errori deve essere effettuata è il 2 marzo 2020. Si prevede però che se il soggetto interessato non ha effettuato per un giustificato motivo (quale possa essere è ignoto) la rimozione di tutte le violazioni formali dei periodi d’imposta oggetto di regolarizzazione, la sanatoria è comunque efficace se la rimozione avviene entro un termine fissato dall’Agenzia, che non può essere inferiore a 30 giorni. La rimozione va in ogni caso effettuata entro il 2 marzo 2020 in presenza di violazioni formali già constatate o per la quale sia stata irrogata la sanzione oppure comunque fatta presente (la violazione) all’interessato. È comunque chiaramente detto che l’eventuale mancata rimozione di tutte le violazioni formali non pregiudica gli effetti della regolarizzazione sulle violazioni formali correttamente rimosse. Quindi, in questo ginepraio si può dire che, la deadline per la rimozione dell’errore è il 2 marzo 2020. Che tutto ciò che è sanato entro tale data è attratto nella sanatoria (a condizione che siano versati i 200 euro). E che ci saranno casi in cui il soggetto che ha versato i 200 euro potrà far valere la sanatoria anche regolarizzando l’errore post-controllo nel termine che sarà fissato dall’Agenzia.

Il provvedimento stabilisce ulteriormente che la rimozione non va effettuata quando non sia possibile o necessaria avendo riguardo ai profili della violazione formale. Si evoca, a tale riguardo, le violazioni riguardanti l’errata applicazione dell’inversione contabile ma potremmo aggiungere, anche gli errori e le omissioni relativi alle comunicazioni periodiche Iva poi assorbite dalla dichiarazione annuale Iva.

Il provvedimento dispone il divieto della compensazione, anche se non stabilito dalla norma. Infine, sorprendentemente, si prevede che il differimento di due anni dei termini di accertamento per le violazioni commesse fino al 31 dicembre 2015, stabilito dal comma 6 dell’articolo 9, riguarda i Pvc anche successivi al 24 ottobre 2018. Davvero criptica – oltreché indeterminata – anche tale previsione.

Fonte “Il sole 24 ore”

La rivalutazione dei beni d’impresa «supera» il costo storico

Appuntamento con la rivalutazione dei beni dell’impresa nei bilanci del 2018 in chiusura; infatti, la legge di Bilancio 2019, con i commi 940-950, ha riaperto i termini per procedere alla rivalutazione.

L’aggiornamento dei valori è una opportunità da valutare, ad esempio, nel caso di imprese che detengono beni riscattati a seguito del contratto di leasing e tuttora impiegati nel processo produttivo; così pure la rivalutazione è opportuna per gli assets che nei prossimi anni saranno ceduti nonché per il riallineamento dei disavanzi di fusione imputati sul valore dei beni immobili.

La rivalutazione, infatti, consente di sostituire il costo storico del bene con il suo valore effettivo, determinando, in caso di cessione, una minore plusvalenza.

Le regole per rivalutare

Possono accedere alla rivalutazione dei beni di impresa i soggetti indicati nell’articolo 73, comma 1, lettere a) e b) del Tuir, ovvero società di capitali ed enti commerciali, a condizione che non adottino i principi contabili internazionali. Possono aderire tutti i soggetti che rientrano nel reddito di impresa, compresi i contribuenti in contabilità semplificata.

Sono rivalutabili i beni materiali e immateriali iscritti in bilancio alla data del 31 dicembre 2017, comprese le partecipazioni e con esclusione degli immobili alla cui produzione e/o scambio è diretta l’attività di impresa. La rivalutazione deve riguardare tutti i beni appartenenti alla stessa categoria omogenea e deve essere annotata nell’inventario e nella nota integrativa.

Tutti i passaggi per le rivalutazioni

Il maggior valore riconosciuto ai beni in sede di rivalutazione si considera riconosciuto ai fini fiscali con il versamento di una imposta sostitutiva, calcolata sui maggiori valori iscritti in bilancio, pari al 16% per i beni ammortizzabili e al 12% per quelli non ammortizzabili.

Il maggior valore attribuito ai beni per effetto della rivalutazione è riconosciuto, ai fini delle imposte sui redditi e Irap a partire dal terzo esercizio successivo a quello in cui è eseguita la rivalutazione; limitatamente ai beni immobili il maggior valore derivante dalla imputazione del disavanzo di fusione è riconosciuto dal 2020.

Ciò significa che, fino al raggiungimento del terzo anno successivo a quello di rivalutazione, alla fine dell’esercizio si calcolerà l’ammortamento sul costo del bene rivalutato ma, ai fini fiscali, non essendo riconosciuto questo valore, si dovrà effettuare una variazione in aumento. L’ammortamento civilistico eccedente quello fiscalmente ammesso comporta l’emersione di un costo temporaneamente indeducibile e quindi lo stanziamento delle imposte anticipate.

Contemporaneamente alla rivalutazione, è consentito effettuare l’affrancamento del saldo attivo, mediante il pagamento di un’imposta sostitutiva delle imposte sui redditi, dell’Irap e di eventuali addizionali pari al 10 per cento.

La rivalutazione deve essere eseguita nel bilancio o rendiconto dell’esercizio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2017, quindi in quello relativo all’anno 2018 la cui approvazione è generalmente prevista entro il prossimo 30 aprile 2019.

La rivalutazione secondo le modalità ormai consuete può avvenire secondo tre criteri alternativi:

1) rivalutazione del costo storico e del fondo di ammortamento, mantenendo inalterata l’originaria durata del processo di ammortamento;

2) rivalutazione del solo costo storico, determinando un allungamento del processo di ammortamento, se viene mantenuto inalterato il precedente coefficiente, oppure procedendo con l’incremento del coefficiente se si intende lasciare inalterata la durata del periodo di vita utile del cespite.

3) riduzione del fondo di ammortamento con conseguente stanziamento di ammortamenti su un costo analogo a quello originario.

Si ricorda che la circolare dell’Agenzia 14/E/2017 ha fornito chiarimenti in merito.

Fonte “Il sole 24 ore”

Paradisi fiscali, anche gli Emirati nella nuova lista nera Ue

Bruxelles. L’Italia non gradiva la presenza degli Eau nell’elenco, ma ha tolto la riserva dopo rassicurazioni Dalla black list limiti all’accesso dei fondi comunitari
Dopo un tira-e-molla dell’ultimo minuto, i Ventotto hanno approvato ieri qui a Bruxelles un sofferto aggiornamento della lista dei paradisi fiscali, ossia delle giurisdizioni con i quali eventuali rapporti finanziari saranno soggetti a particolare controllo da parte delle autorità comunitarie e nazionali. L’Italia ha tolto l’iniziale riserva contro la presenza nell’elenco degli Emirati Arabi Uniti, un paese che tra le altre cose è stato di recente azionista di Alitalia attraverso Etihad.
Nata nel dicembre del 2017, la nuova lista comprende ora 15 giurisdizioni, 10 aggiunte oggi e altre cinque già esistenti. I nuovi paesi nell’elenco messo a punto dalla Commissione europea e approvata dai Ventotto sono Aruba, il Belize, Barbados le isole Bermuda, Dominica, le isole Figi, le isole Marshall, il sultanato di Oman, le isole Vanuatu e gli Emirati Arabi Uniti. Questi si aggiungono alle Samoa americane, Samoa, Guam, le isole Vergini americane e Trinidad & Tobago.
In un primo tempo, l’Italia ha posto una riserva sulla presenza nell’elenco degli Emirati Arabi Uniti, convinta che il Paese stesse facendo abbastanza per garantire trasparenza fiscale. Parlando ieri prima della riunione ministeriale e dando nei fatti il via libera italiano, il ministro dell’Economia Giovanni Tria ha spiegato che la prossima approvazione di una serie di misure da parte del paese comporterà in ultima analisi una sua prossima uscita dalla lista. Il ministro Tria ha ottenuto di modificare le conclusioni della riunione, prevedendo che la lista possa essere aggiornata almeno una volta all’anno sulla base dei nuovi impegni da parte di paesi che vogliono uscire dalla lista dei paradisi fiscali. È da presumere che l’Italia voglia preservare i suoi rapporti con gli Emirati Arabi Uniti con cui ha profondi legami. Etihad è stato per alcuni anni azionista di Alitalia, mentre l’Eni ha appena rilevato una raffineria nel paese con un investimento di 3,3 miliardi di dollari.
Istituzioni finanziarie nei paesi inseriti nell’elenco non possono ricevere denaro comunitario nell’ambito del Fondo europeo di sviluppo sostenibile e del Fondo europeo per gli investimenti strategici (Efsi). Schemi fiscali che coinvolgono questi paesi dovranno essere denunciati alle autorità. Solo gli investimenti diretti in queste giurisdizioni (ossia il finanziamento di progetti sul campo) sono consentiti, allo scopo di preservare gli obiettivi di sviluppo e sostenibilità. Altri 34 Paesi sono su una lista cosiddetta grigia (compresa la Svizzera), perché si sono impegnati a modificare la loro legislazione nazionale. L’approvazione di ieri giunge dopo che la settimana scorsa i Ventotto hanno bocciato un altro elenco preparato dalla Commissione europea, questa volta comprendente le giurisdizioni che non collaborano a livello internazionale contro il riciclaggio di denaro sporco. Una netta maggioranza di paesi si è opposta alla presenza nella lista dell’Arabia Saudita.
La nuova lista di paradisi fiscali ha provocato le reazioni negative dell’organizzazione non governativa Oxfam a causa dell’assenza di alcuni paesi quali le Bahamas o le isole Cayman. D’altra parte, l’elenco comunitario si vuole più rigoroso di altre liste nere perché messo a punto con criteri più stringenti e più numerosi. La stessa Commissione europea si dice convinta che l’elenco nato nel 2017 stia contribuendo a maggiore trasparenza fiscale a livello internazionale. Sempre ieri, infine, i ministri hanno raggiunto un accordo sulle misure necessarie a semplificare le norme fiscali nelle vendite online. Le nuove regole garantiranno un’introduzione fluida delle nuove misure in materia di imposta sul valore aggiunto nel commercio elettronico concordate nel dicembre 2017 e destinate a entrare in vigore nel gennaio 2021. Dovrebbero anche aiutare i paesi a recuperare i cinque miliardi di euro di introiti fiscali persi nel settore ogni anno.
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Beda Romano

La società estinte prova a dribblare le pretese a titolo di sanzione

Estendere alle società le soluzioni elaborate con riferimento alla successione delle persone fisiche è utile ma vanno evitate distorsioni applicative.

A partire dal 2010, le sezioni unite della corte di Cassazione hanno a più riprese chiarito che il principio espresso dall’articolo 2495 del codice civile, nella sua formulazione vigente ancora oggi, trova applicazione sia per le società di capitali che per quelle di persone.

Pertanto, al momento della cancellazione di una società dal registro delle imprese, la medesima si estingue, a prescindere dal fatto che residuino rapporti giuridici non esauriti.

I debiti sociali, in particolare, non vengono meno, ma si trasferiscono in capo agli ex soci – sulla scorta di un fenomeno che la giurisprudenza di legittimità ha ricondotto a una successione, seppure sui generis – e, a determinate condizioni stabilite per legge, ai liquidatori, i quali rispondono dei debiti che, per loro colpa, non siano stati soddisfatti prima della chiusura della liquidazione.

Quanto alla posizione degli ex soci, peraltro, occorre distinguere il caso delle società di persone, di quelle di capitali e, per queste ultime, l’evenienza che si tratti di pendenze correlate all’assolvimento delle imposte dirette:
•gli ex soci delle società di persone (illimitatamente responsabili, durante societate) rispondono per intero e in solido tra loro delle pendenze sociali insoddisfatte;
•gli ex soci delle società di capitali, invece, sono ordinariamente tenuti al pagamento dei debiti sociali soltanto entro i limiti di valore di quanto ricevuto in forza del bilancio finale di liquidazione, mentre se i debiti insoddisfatti pertengono alle imposte dirette, i limiti della responsabilità si estendono al valore delle attribuzioni risalenti ai due periodi d’imposta precedenti l’apertura della fase liquidatoria.

Neppure i processi vanno incontro a estinzione per il venire meno della società che vi abbia assunto il ruolo di parte, ma proseguono previa riassunzione a opera o nei confronti degli ex soci; anche in questo caso, la dinamica è del tutto analoga a quella che si pone nei casi di successione a titolo universale nel diritto controverso.

Peraltro, occorre precisare che, per quanto riguarda i giudizi vertenti in materia tributaria, l’estinzione della società contribuente ha effetto soltanto decorsi cinque anni dalla cancellazione della stessa dal Registro delle imprese e il medesimo effetto concerne anche la soggettività dell’ente ai fini dell’eventuale soggezione all’accertamento e alla riscossione; pertanto, l’Amministrazione finanziaria potrà, entro i cinque anni dalla cancellazione, notificare atti impositivi e processuali alla società (sia essa di capitali o di persone) come se la stessa fosse ancora validamente costituita.

Infine, occorre soffermarsi sul destino delle pretese promananti dall’esercizio di poteri sanzionatori; per simili ipotesi, la giurisprudenza della corte di Cassazione è attualmente orientata nel ritenere che le stesse si estinguano con il venir meno dell’ente al quale sono state irrogate, in applicazione del principio, espresso nella materia tributaria dall’articolo 8 del Dlgs 472/1997, per cui le sanzioni non si trasmettono agli eredi di chi abbia commesso l’illecito.

Sennonché, si tratta di una soluzione che potrebbe meritare un ripensamento; ciò, per due distinti ordini di ragioni:
•da un lato, perché, seppure con riferimento a fattispecie diverse, la stessa giurisprudenza di legittimità ha affermato che l’articolo 8 citato non è suscettibile di applicazione in via analogica;
•dall’altro lato, perché si finirebbe per agevolare ingiustificatamente i partecipanti all’impresa associata, in quanto gli stessi, mediante un procedimento riconducibile alla loro volontà (qual è la messa in liquidazione) potrebbero beneficiare dell’effetto di «purgazione» dalle pretese sanzionatorie di un patrimonio a loro, in ultima analisi, riferibile.

Fonte “Il sole 24 ore”

La doppia partita del Fisco tra «pace» e alert preventivi

Partita doppia. Negli stessi giorni in cui dovranno decidere se sfruttare la chance della pace fiscale, molte famiglie, professionisti e imprese riceveranno dal Fisco 1,78 milioni di lettere per la compliance. Comunicazioni a cui il Piano delle performance 2019-21 dell’agenzia delle Entrate ricollega un recupero di gettito di 1,5 miliardi di euro.
Passate dalle 395mila del 2015 agli 1,89 milioni dell’anno scorso (dato preconsuntivo), le lettere per la compliancesono il simbolo della campagna per il “fisco amico” lanciata dal Governo Renzi. Di fatto, puntano a evidenziare le anomalie tra ciò che i contribuenti hanno dichiarato e quanto risulta dalle banche dati dell’Agenzia, sollecitandoli a mettersi in regola con uno sconto sulle sanzioni, tramite l’istituto ravvedimento operoso.
Dalla cedolare secca all’Iva
Il provvedimento del direttore delle Entrate del 15 febbraio scorso indica le tipologie di proventi su cui si concentrerà la prima tornata di comunicazioni. Redditi di fabbricati, compresi quelli soggetti alla cedolare secca. Redditi da partecipazione in società di persone e Srl a base ristretta. Assegni periodici, come quelli al coniuge. Redditi da lavoro dipendente. Pensiamo ad esempio al caso di un lavoratore che ha ricevuto due Certificazioni uniche (Cu) e non ha presentato la dichiarazione dei redditi.
L’esperienza degli ultimi anni, però, insegna che un gran numero di lettere per la compliance riguarerà l’Iva. Tributo che ha raccolto poco più del 50% delle segnalazioni inviate nel 2017, per esempio. E rispetto al quale le Entrate contano di far tesoro dei dati raccolti con la fattura elettronica, a partire dai 228 milioni di file Xml trasmessi al Sistema di interscambio da 2,3 milioni di titolari di partita Iva in occasione della liquidazione del 18 febbraio.
Le decisioni del 30 aprile e 31 maggio
Le lettere per la compliance non sono atti impositivi in senso tecnico e non sono impugnabili in modo autonomo. Il sito delle Entrate ricorda che chi ne riceve una “infondata” deve inviare al Fisco «eventuali elementi e documenti di cui l’Agenzia non era a conoscenza». In questi termini, le lettere non hanno nulla a che fare con la pace fiscale, che nelle sue varie articolazioni riguarda processi verbali di contestazione (Pvc), avvisi di accertamento, liti pendenti, cartelle esattoriali.
Eppure, le due campagne – compliance e pace fiscale – finiscono per intrecciarsi, almeno in parte. Riguardano gli stessi contribuenti. Vanno finanziate dagli stessi portafogli, già esposti ai primi effetti della recessione economica. Hanno un calendario sovrapposto, con le date chiave del 30 aprile (istanze di rottamazione-ter) e del 31 maggio (liti pendenti, errori formali, Pvc e violazioni doganali). Ma seguono, paradossalmente, logiche opposte: se le lettere per la compliance invitano cittadini e imprese a ravvedersi prima che sia troppo tardi, la pace fiscale – al contrario – sembra riaffermare che non è mai troppo tardi per riconciliarsi con le pretese del Fisco.
L’attesa per nuove sanatorie
Gli strumenti di contrasto all’evasione fiscale messi in campo di quest’anno dal Fisco derivano in parte da istituti lanciati alla fine della scorsa legislatura e confermati dall’attuale Governo, come la fattura elettronica, cui è stato anzi aggiunto l’invio automatico dei corrispettivi (per i grandi contribuenti dal prossimo 1° luglio e per tutti dal 2020). Mentre, per un altro verso, vengono riproposti istituti già utilizzati negli anni scorsi, dalla definizione delle liti pendenti alla rottamazione delle cartelle, arrivata alla terza edizione in due anni.
E c’è già chi scommette su un’estensione della rottamazione ai carichi affidati nel 2018 (ora si ferma al 31 dicembre 2017). O su un ampliamento alle imprese del saldo e stralcio – misura che prevede uno sconto anche sull’imposta, oltre che sulle sanzioni – sulla falsariga di quanto auspicato nei giorni scorsi dal vicepremier, Matteo Salvini. Di sicuro, nei prossimi 100 giorni si potrà capire se l’attesa per altre sanatorie avrà frenato l’appeal di quelle in corso.
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Cristiano Dell’Oste
Giovanni Parente

Contratto preliminare dal notaio per gli immobili in costruzione

Il Dlgs 14/2019 prevede l’atto pubblico o la scrittura privata autenticata
L’imperatività della norma indica che i contratti in forma diversa sono nulli
Nuove regole per le compravendite di “immobili da costruire”, vale a dire i contratti aventi a oggetto il trasferimento di edifici (o loro porzioni) per la cui costruzione sia stato richiesto il permesso di costruire e che siano ancora da edificare oppure la cui costruzione «non risulti essere stata ultimata versando in stadio tale da non consentire ancora il rilascio del certificato di agibilità».
Infatti, il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, recato dal decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, comporta alcune importanti innovazioni in questo delicato ambito, disciplinato dal Dlgs 20 giugno 2005, n. 122 il quale viene appunto modificato dal Codice della crisi d’impresa (articoli 389-391)
Queste nuove norme divengono applicabili (articolo 5, comma 1-ter, Dlgs 122/05) ai contratti aventi a oggetto “immobili da costruire” per i quali il relativo titolo abilitativo edilizio sia stato richiesto o presentato successivamente al 16 marzo 2019 (vale a dire il trentesimo giorno successivo a quello di pubblicazione in Gazzetta ufficiale del Codice sulla crisi d’impresa che infatti è stata effettuata il 14 febbraio 2019: articolo 389, comma 1).
È stato anzitutto modificato l’articolo 6 del Dlgs 122/05, il quale ora dispone che il contratto preliminare «ed ogni altro contratto che … sia comunque diretto al successivo acquisto in capo a una persona fisica della proprietà» di un immobile da costruire «devono essere stipulati per atto pubblico o per scrittura privata autenticata». L’innovazione apportata dalla norma consiste nel fatto che la legge attualmente vigente consente di stipulare questi contratti anche nella forma della scrittura privata non autenticata.
La legge non reca un’espressa sanzione per la violazione di questa prescrizione formale: si devono applicare, pertanto, le previsioni “generali”: vale a dire (dato che l’imperatività della norma è fuori discussione, in quanto il legislatore ricorre al verbo «devono») l’articolo 1418, comma 1 del Codice civile, per il quale è nullo il contratto contrario a norme imperative, e gli articoli 1325, n. 4), 1350, n. 13) e 1418, comma 2, del Codice civile, per i quali sono nulli gli atti stipulati in una forma diversa da quella prescritta dalla legge. La nullità in questione è “assoluta”: è insanabile (articolo 1423 del Codice civile), l’azione è imprescrittibile (articolo 1422 del Codice civile), può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse ed è rilevabile d’ufficio dal giudice (articolo 1421 del Codice civile). La prescrizione di forma in commento, per il “principio di simmetria delle forme” che vige nel nostro ordinamento, comporta che per atto pubblico o scrittura privata, a pena di nullità, debbano essere redatte anche la proposta e l’accettazione finalizzate alla stipula dei contratti in questione (e la modulistica delle agenzie va fuorilegge) nonché la procura che sia rilasciata in vista di essi.
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Angelo Busani

La riforma della crisi d’impresa riscrive il ruolo dei soci di Srl

La governance delle Srl dopo il nuovo Codice della crisi d’impresa. L’articolo 377 del Dlgs 14/2019 innova il primo comma dell’articolo 2475 del Codice civile (in tema di amministrazione della Srl), il quale, dal 16 marzo 2019 verrà a sancire che «la gestione dell’impresa (…) spetta esclusivamente agli amministratori». In realtà, saliente caratteristica della Srl (per la quale si differenzia dalla Spa) è la possibilità di affidare ai soci la gestione della società, o nella sua interezza o in singole sue esplicazioni. I riferimenti normativi sono, ad esempio:

a) l’articolo 2479, comma 1, del Codice civile (che il Dlgs 14/2019 non innova), per il quale «i soci decidono sulle materie riservate alla loro competenza dall’atto costitutivo, nonché sugli argomenti che uno o più amministratori o tanti soci che rappresentano almeno un terzo del capitale sociale sottopongono alla loro approvazione»;

b) l’articolo 2468, comma 3, del Codice civile (neanche questo innovato), il quale afferma «la possibilità che l’atto costitutivo preveda l’attribuzione a singoli soci di particolari diritti riguardanti l’amministrazione della società»;

c) l’articolo 2476, comma 7, del Codice civile (anch’esso non innovato), il quale afferma la responsabilità solidale (con gli amministratori) dei «soci che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi».

C’è da chiedersi, dunque, se il Codice della crisi d’impresa spazzi via questo panorama normativo e il principio in base al quale la riforma del 2003 ha riconosciuto la stretta attinenza dei soci della Srl con la gestione della società, stante il caratteristico rilievo che la figura del socio di Srl (a differenza di quello di Spa) assume nella vita sociale e nelle decisioni che essa adotta.

Se a questa domanda seguisse una risposta positiva, essa comporterebbe non solo la necessità di modificare un elevatissimo numero di statuti di Srl messi fuori-legge dal Dlgs 14/2019, ma anche una inconcepibile entrata a gamba tesa nella governance di tantissime Srl, ove i rapporti tra i soci sono regolamentati in base a un delicato equilibrio di poteri realizzato proprio conferendo a taluno di essi il diritto-dovere di gestire la società.

In altre parole, se il nuovo primo comma dell’articolo 2475 del Codice civile fosse da intendersi come incompatibile con i «diritti particolari» spettanti ai soci in tema di amministrazione della società, questi ultimi dovrebbero d’improvviso reputarsi espunti dagli statuti ove sono attribuiti e, con ciò, inesorabilmente cancellati. L’inammissibilità di questa conseguenza sospinge a dare risposta negativa alla questione che il Codice della crisi d’impresa pone, anche perché:

non sembra possibile che il legislatore abbia voluto effettuare, con il metodo dell’abrogazione tacita, una così radicale riforma di una caratteristica saliente del tipo Srl; vi è invece da credere che, se veramente il legislatore avesse voluto disporre una svolta così epocale, l’avrebbe prevista espressamente;

nemmeno pare possibile ritenere che, nell’innovare il primo comma dell’articolo 2475 del Codice civile, un legislatore così “tecnico” come quello della crisi d’impresa sia stato talmente maldestro da dimenticarsi norme “centrali” come gli articoli 2479, 2468 e 2476 del Codice civile.

Allora, la tematica in esame pare potersi comporre nel seguente modo: da un lato, si potrebbe ritenere che restino in vigore tutte le norme, attualmente vigenti (e non abrogate o modificate dalla riforma) che consentono di attribuire poteri gestori ai soci di Srl; d’altro lato, il Codice della crisi d’impresa è da intendere (il principio è espresso nel nuovo articolo 2086 del Codice civile) che tutti coloro i quali concorrano a formare le decisioni gestorie della Srl da ciò derivino il dovere di prestare la loro opera al fine di «istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale».

Fonte “Il sole 24 ore”

Nota di variazione Iva, il termine per l’emissione scatta dalla sottoscrizione del lodo

Dalla sottoscrizione e non dall’esecutività del lodo arbitrale che fa venir meno l’operazione scatta il termine di emissione della relativa nota di variazione Iva. Il termine ultimo per l’emissione della nota di variazione è determinata dall’articolo 19 del Dpr 633/72 e se già spirato non ammette mai la presentazione di una dichiarazione integrativa.

L’agenzia delle Entrate, con la risposta n. 55 di ieri (clicca qui per consultarla ), ha specificato alcuni principi relativi ai tempi ed ai modi di recupero dell’imposta relativa ad un’operazione correttamente fatturata, che è venuta meno in tutto o in parte. In particolare, l’Agenzia ha ribadito che la nota di variazione può essere emessa, anche oltre il decorso di un anno dal momento di effettuazione dell’operazione, in ipotesi di risoluzione, recesso e revoca del contratto che, nella pratica, si manifestano attraverso atti di accertamento negoziale o sentenze, tra cui fa rientrare anche il lodo arbitrale precisando, in questo ultimo caso, che il dies a quo per il computo del termine per l’emissione della nota di variazione è la data di sottoscrizione del lodo.

Una volta realizzatosi il presupposto per l’emissione della nota di variazione, occorre far riferimento al termine entro cui poter esercitare il diritto a detrazione dell’imposta che proprio dalla nota di variazione trae origine. Ebbene, in questo caso l’agenzia delle Entrate, richiamando la circolare 1/E del 2018 (in commento al Dl 50/2017), ha confermato che se i presupposti per l’emissione della nota di variazione si sono verificati ante 1° gennaio 2017, si applica la norma di cui all’art. 19, comma 1, vigente ratione temporis, secondo cui il diritto a detrazione poteva essere esercitato al più tardi con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto alla detrazione era sorto; mentre per tutte le note di variazione emesse successivamente a detta data, si applica l’art. 19 tutt’oggi vigente, secondo cui il diritto alla detrazione può essere esercitato al più tardi con la dichiarazione relativa all’anno in cui il diritto alla detrazione è sorto.

Con questa risposta, l’Agenzia ha sostanzialmente ribadito che il diritto a detrazione può essere correttamente esercitato con l’emissione della nota di variazione, secondo gli ordinari termini previsti dall’art. 19. Tuttavia, nel caso in cui la nota di variazione non sia stata emessa entro la suddetta data e i termini siano già spirati, non è possibile recuperare l’imposta versata presentando una dichiarazione integrativa a favore, in quanto, secondo l’Agenzia, mancano i presupposti per poter presentare la dichiarazione integrativa, non ravvisandosi alcun errore od omissione cui rimediare con riferimento all’anno di emissione della fattura originaria.

Per di più, non sarebbe nemmeno possibile sostenere che la mancata emissione della nota di variazione sia stato un errore commesso dal contribuente, che possa essere corretto; ciò in quanto l’emissione di una nota di variazione in diminuzione è una facoltà concessa al contribuente, cui lo stesso può rinunciare, e non un obbligo.

L’Agenzia conclude poi con un principio, secondo cui l’emissione di una nota di variazione produce effetti diversi dalla dichiarazione integrativa: mentre la prima assicura che sia rispettato il principio di neutralità dell’Iva, la dichiarazione integrativa consente il solo recupero dell’imposta versata in misura superiore, ma non anche il riversamento da parte di chi l’ha detratta.

Fonte “Il sole 24 ore”

Corsa contro il tempo sulle e-fatture di gennaio

Il regime transitorio: invio entro lunedì 18, per evitare le sanzioni
Chi rimedia per il 16 marzo dovrà sopportare la penalità piena per l’Iva
Ultimissimi giorni per l’emissione delle fatture relative alle operazioni effettuate nel mese di gennaio 2019; il termine per emetterle senza incorrere in sanzioni è quello della liquidazione del periodo di effettuazione dell’operazione, che per i contribuenti mensili scade lunedì 18 febbraio.
L’articolo 21 del Dpr 633/1972, nella sua attuale versione, prevede l’emissione della fattura al momento di effettuazione dell’operazione, che coincide con la consegna per le cessioni di beni e con il pagamento del corrispettivo per le prestazioni di servizi. Il comma 1 dell’articolo 21 prevede, poi, che la fattura si ha per emessa all’atto della trasmissione al cessionario/committente (tramite lo Sdi); per le fatture immediate, la data della fattura coincide con quella di effettuazione dell’operazione, mentre per le fatture differite la data della fattura è quella di emissione/trasmissione.
Tuttavia, per il primo semestre 2019 (prorogato al 30 settembre per i soggetti che liquidano l’Iva mensilmente), il comma 6 dell’articolo 1 del Dlgs 127/2015, come modificato dall’articolo 10 del Dlgs 119/2018, ha previsto la non applicazione di sanzioni se la fattura è emessa entro il termine della liquidazione del periodo di effettuazione dell’operazione. Dunque, considerato che il 16 febbraio (prorogato al 18 perché il 16 cade di sabato) scade il termine della liquidazione Iva di gennaio per i contribuenti mensili, entro questa data devono essere emesse le fatture relative alle operazioni effettuate nel mese di gennaio per non incorrere in sanzioni.
Nell’ipotesi in cui la fattura sia emessa e trasmessa successivamente alla scadenza della liquidazione periodica (quindi dopo il 18 febbraio), ma entro il termine della liquidazione successiva (quindi entro il 16 marzo), è possibile beneficiare della riduzione delle sanzioni dell’80%. La riduzione delle sanzioni non trova però applicazione con riferimento all’eventuale tardivo versamento dell’Iva.
Infatti, in occasione di Telefisco 2019, l’agenzia delle Entrate ha chiarito che le sanzioni oggetto della riduzione prevista dal citato comma 6 dell’articolo 1 del Dlgs 127/2015 sono, secondo la formulazione letterale della norma, quelle stabilite dall’articolo 6 Dlgs 471/1997. Pertanto, tra le sanzioni riconducibili a queste fattispecie non rientrano quelle relative all’omesso versamento dell’Iva da parte del cedente, che saranno applicate per intero, fermo restando il ravvedimento operoso.
Esemplificando, quindi:
un contribuente mensile che effettua un’operazione nel mese di gennaio 2019 e che trasmette la relativa fattura allo Sdi entro il termine della liquidazione del 18 febbraio non incorre in nessuna sanzione;
il contribuente che, invece, avendo effettuato l’operazione in gennaio, trasmette la fattura allo Sdi entro il 16 marzo (termine della liquidazione successiva) può beneficiare della sanzione ridotta dell’80% per la tardiva fatturazione, ma applicherà la sanzione piena (pari al 30%) per l’Iva che non ha versato correttamente il 18 febbraio; può scattare, inoltre, la sanzione per l’incompleta comunicazione delle liquidazioni Iva fissata da 500 a 2mila euro.
Per far confluire l’Iva che riguarda le fatture di gennaio nella liquidazione, relativamente alle fatture immediate la data della fattura coincide con quella di effettuazione dell’operazione e, pertanto, l’Iva di queste fatture ricade a debito nel mese di competenza; se la fattura è differita, come precisato dall’agenzia delle Entrate, la data della fattura è quella dell’emissione e trasmissione allo Sdi. Ne consegue che il programma gestionale, se la fattura contiene una data del mese di febbraio, deve riuscire a farla ricadere nella liquidazione di gennaio.
Le fatture di acquisto del mese di gennaio, ricevute entro il 15 di febbraio, devono essere registrate nel mese di ricevimento, ma l’Iva può essere portata in detrazione nel mese di effettuazione dell’operazione, dunque gennaio.
Fonte “Il sole 24 ore”

Crisi d’impresa, riforma al via Primo step gli organi di controllo

Sarà una rivoluzione, questa riforma (aldilà del fatto che il «fallimento» prenderà il nome di «liquidazione giudiziale»)? In effetti sono previste molte novità, ma a ben vedere sono poche quelle destinate a cambiare davvero lo spirito del diritto della crisi, che sembra rimanere centrato sul paradigma del debito e posto a tutela dei creditori, quale è sempre stato nella Storia (quantomeno nel diritto europeo continentale).
Allerta
Fra tutte le novità del decreto pubblicato ieri in Gazzetta (Dlgs 12 gennaio 2019 n. 14), solo due potrebbero incrinare questo paradigma. La prima è l’istituto dell’allerta, quale misura funzionale a far emergere la crisi ai primi albori, per effetto del suo rilevamento da parte di alcuni soggetti qualificati (gli organi di controllo, da un lato, e l’agenzia delle Entrate, l’Inps e l’agente della riscossione da un altro lato). Spetterà a questi soggetti indurre l’impresa ad adottare immediatamente le necessarie contromisure o a chiedere l’intervento degli organismi di composizione delle crisi presso le Camere di commercio. Qui risiede la novità più grande, nelle intenzioni, se è vero che, com’è stato osservato, è la prima volta in Italia che «il diritto della crisi d’impresa si interessa direttamente della crisi d’impresa, non per favorire la ristrutturazione indirettamente, bensì per favorirla direttamente e per favorire indirettamente semmai il superamento dell’insolvenza» (Fabrizio Di Marzio, «Fallimento. Storia di un’idea»).
Sovraindebitamento
La seconda novità è nelle norme sul sovraindebitamento, che regolano la crisi dei soggetti esclusi dalla liquidazione giudiziale (imprenditori commerciali privi dei requisiti dimensionali per poter esservi sottoposti, imprenditori non commerciali, comuni cittadini), ed è la esdebitazione senza utilità, consistente in una forma di liberazione del debitore dai suoi debiti anche in assenza di pagamenti a favore dei creditori. La ratio di questa novità, come spiega la relazione, non è solo quella di restituire il debitore alla piena vita, liberandolo dai debiti, ma anche quella di «reimmettere nel mercato soggetti potenzialmente produttivi». Il che significa guardare alla crisi del debitore non solo come alla crisi personale di un soggetto, ma come alla crisi di un centro di interessi intorno al quale ruotano altri interessi diffusi, diversi da quelli puri e semplici dei creditori.
Concordati e liquidazione
Ma le novità sono comunque molte, come si è detto, e riguardano tutte le procedure: sia i concordati, sia il fallimento (o meglio, la liquidazione giudiziale), sia la liquidazione coatta amministrativa. Quanto ai concordati, basti pensare per un verso all’introduzione del concordato preventivo di gruppo, che consentirà l’applicazione di un’unica procedura a fronte di situazioni di crisi riferibili a società diverse (sulla falsariga di quanto previsto fino ad oggi nell’ambito dell’amministrazione straordinaria); e per un altro verso, sempre in relazione al concordato preventivo, all’attribuzione al tribunale di poteri di controllo non solo formali ma anche nel merito, quale il potere di accertare la fattibilità del piano. Quanto alla liquidazione giudiziale, una delle novità più importanti è senza dubbio la previsione di un unico modello processuale di accertamento della crisi, cui saranno assoggettate tutte le categorie di debitori, di qualunque genere, al fine dell’individuazione della procedura adeguata al caso. Quanto alla liquidazione coatta amministrativa, la riforma elenca una serie di imprese assoggettabili esclusivamente a tale procedura, superando il principio vigente fino ad oggi, in virtù del quale invece l’assoggettamento alla liquidazione coatta anziché al fallimento poteva dipendere da un puro dato temporale.
Organi di controllo
Alcune novità riguardano anche il Codice civile, e ci si riferisce ai nuovi parametri di nomina degli organi di controllo nelle società. A differenza della maggior parte delle altre, questa novità entrerà in vigore tra 30 giorni (9 mesi per srl e coop già costituite) e costringerà una grande platea di soggetti a farvi i conti, perché abbassa molto i limiti a partire dai quali la nomina degli organi diventa obbligatoria.
© RIPRODUZIONE RISERVATA “Il sole 24 ore”
Niccolò Nisivoccia

Parte la riforma
Dopo una gestazione piuttosto lunga (il lavoro sulla legge delega è partito nel corso della precedente legislatura) e dopo 77 anni dal varo della legge fallimentare è stato pubblicato ieri sulla Gazzetta Ufficiale il testo
del decreto di riforma (decreto legislativo 12 gennaio 2019 n. 14) che contiene il «Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155».
Due fasi
Una riforma a efficacia differita: una parte entra infatti in vigore tra trenta giorni, tutto il resto tra un anno e mezzo. Partono dunque subito, da una parte, l’istituzione presso il ministero della Giustizia dell’albo dei curatori e, dall’altra, le novità inserite nel Codice civile sugli obblighi (con limiti abbassati rispetto a quelli vigenti) di nomina degli organi di controllo interni delle società
16 marzo 2019
Albo dei curatori
Tra le novità in vigore tra trenta giorni va segnalata l’istituzione dell’albo dei soggetti destinati a svolgere, su incarico del tribunale, le funzioni di curatore, commissario giudiziale o liquidatore, nelle procedure previste nel
codice della crisi e dell’insolvenza. Possono essere chiamati a svolgere tali funzioni avvocati, dottori commercialisti ed esperti contabili e consulenti del lavoro
Organi di controllo
Altra importante novità
è sulla nomina dell’organo
di controllo o del revisore.
Che diventa obbligatoria 
se la società ha superato 
per due esercizi consecutivi almeno uno dei seguenti limiti: 1) due milioni di euro di attivo; 2) due milioni di euro di ricavi; 3) dieci dipendenti occupati durante l’esercizio.
Tale obbligo deve essere rispettato entro nove mesi a partire da oggi dalle Srl e dalle coop già costituite.
15 agosto 2020
Allerta pre-crisi 
Filo conduttore della riforma della crisi d’impresa è la conservazione dell’attività aziendale. Per questo sono previste misure che consentono di intervenire prima che sia troppo tardi, prima cioè che la crisi diventi insolvenza conclamata. È il caso dell’«allerta pre-crisi» innescata dagli organi di controllo interno delle società o dai creditori pubblici (Agenzia delle Entrate e Inps) cui fa seguito una procedura affidata a uno specifico organo di composizione della crisi istituito presso le Camere di commercio
Sovraindebitamento
Il nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza ospita anche una sezione
sul fallimento del consumatore e delle
piccole imprese (quelle cioè sotto le attuali soglie di rilevanza) che rende meno stringenti i requisiti soggettivi per l’accesso alla procedura

Riporto delle perdite anche in mancanza di lavoro subordinato

L’assenza di costi di personale dipendente non comporta automaticamente che la società venga qualificata come “bara” fiscale, impedendo il riporto delle posizioni fiscali soggettive, perché si configura come una libera scelta aziendale. È questa la conclusione della risposta 52 di ieri dell’agenzia delle Entrate.

A seguito di una fusione per incorporazione, l’incorporante ha presentato istanza di interpello ex articolo 11, comma 2 della legge 212/00 per ottenere la disapplicazione delle limitazioni al riporto delle eccedenze Ace dell’incorporata in base all’articolo 172, comma 7 del Tuir (che si applica anche alle perdite fiscali e agli interessi passivi indeducibili). La pronuncia si fa particolarmente apprezzare perché, abrogata l’Ace, essa è comunque valida nelle operazioni di fusione e scissione che presentino la tematica del riporto delle perdite e degli interessi passivi. L’incorporata svolgeva l’attività di gestione immobiliare, locando prevalentemente alla controllante incorporante immobili di proprietà o condotti in locazione finanziaria. La stessa, sia nel periodo antecedente la fusione sia in quello in cui l’operazione ha avuto efficacia (pur essendo retrodatata contabilmente e fiscalmente all’inizio del periodo d’imposta), ha superato il test di vitalità economica in relazione ai ricavi e il limite patrimoniale, ma non il test di vitalità con riferimento ai costi del personale. Il superamento di tale test, ricordiamo, si ha quando sia l’ammontare dei ricavi e proventi dell’attività caratteristica, sia quello delle spese per prestazioni di lavoro subordinato e relativi contributi, risulti superiore al 40% di quello risultante dalla media degli ultimi due esercizi anteriori.

Nella risposta l’Agenzia ha ribadito che la finalità della norma è quella di salvaguardare la permanenza delle condizioni di vitalità economica, onde evitare la compensazione intersoggettiva delle perdite fiscali, degli interessi passivi indeducibili e delle eccedenze Ace (circolare 9/E/10).

Circa l’assenza dei costi del personale, la pronuncia richiama le precedenti risoluzioni 143/E/08 e 337/E/02. Quest’ultima, in particolare, aveva chiarito che per una holding la mancanza assoluta di costi di personale dipendente in bilancio non è, da solo, sintomo di scarsa vitalità aziendale, visto che tale voce non è così frequente nei bilanci di questa tipologia di società. L’elemento di spicco della risposta sta nel fatto che la scelta aziendale (cosiddetta di “buy” e non di “make”) di non ricorrere al costo di lavoro dipendente, preferendo optare per un contratto di service amministrativo (voce B7 del conto economico), è da considerarsi in sostanza una libera scelta aziendale.

Pertanto non può essere valutata come sintomatica di un comportamento patologico volto a sfruttare indebitamente le posizioni soggettive tipiche delle operazioni di fusione e di scissione.

Tanto più considerato che nel caso di specie vi sono ricavi di locazione tali da consentire il superamento del test relativo a quella specifica componente.

Fonte “Il sole 24 ore”

Passaggio al forfettario, niente vincolo triennale anche se c’è opzione

Un’adesione di massa si profila nel regime forfettario da parte di persone fisiche che esercitano una attività di impresa o professionale.

Il regime è comodo e poco costoso tenuto conto che sul reddito determinato forfettariamente si applica l’imposta sostitutiva del 15%. Può anche essere applicata la percentuale del 5% nei casi in cui l’attività sia nuova, nel senso che chi la svolge non ha avuto la partita Iva nell’ultimo triennio, ovvero non prosegua l’attività già svolta come lavoratore dipendente o infine, se prosegue una attività mediante acquisto di azienda, questa deve avere avuto un ammontare di ricavi non superiore a 65.000 euro.

Inoltre, nel regime forfettario le operazioni non sono soggette a Iva e quindi se, da un lato, questa situazione genera un costo corrispondente all’Iva assolta sugli acquisti che non è detraibile, dall’altro, pone il forfettario in una situazione favorevole in quanto non fa pagare l’Iva al proprio cliente.

La manifestazione di Telefisco 2019 ha consentito di avere qualche punto fermo in questa fase iniziale relativamente alla possibilità di accesso al regime.

L’unico requisito di accesso è rimasto il limite di ricavi o compensi pari a euro 65.000, che deve essere verificato nel periodo di imposta precedente e quindi nel 2018. L’Agenzia ha confermato che, fatto salvo il rispetto dell’ammontare di ricavi, non ha alcuna rilevanza se il regime contabile adottato nel 2018 è frutto di una opzione. Infatti, l’Agenzia ha azzerato le opzioni in forza del principio contenuto nel Dpr 442/1997 che prevede che, in presenza di modifiche normative, il vincolo triennale previsto per le opzioni non opera. Quindi via libera a tutti.

Ci saranno anche i pensionati che svolgono una attività professionale di fine carriera che fino allo scorso anno non potevano essere forfettari, in quanto un requisito di accesso prevedeva che, in presenza di reddito di lavoro dipendente o pensione, l’importo annuo non fosse superiore a 30.000 euro.

Nel 2019, è prevista una causa di esclusione nel caso in cui il contribuente forfettario operi prevalentemente con il proprio datore di lavoro o con chi lo è stato nei due periodi di imposta precedenti. Anche in questo caso non conta cosa sia accaduto nel 2018 e, quindi, l’aspirante forfettario può anche aver operato esclusivamente per il proprio datore di lavoro o per chi lo è stato; l’importante è rispettare tale regola nel 2019 e cioè il forfettario deve operare prevalentemente per altri soggetti.

Occorre considerare anche l’altra nuova causa ostativa e cioè il possesso di partecipazioni in società di persone oppure essere coadiuvanti nell’impresa familiare, nonché possedere una partecipazione di controllo in società a responsabilità limitata la quale svolga un’attività riconducibile a quella del proprio socio che la controlla. Nelle risposte di Telefisco, l’Agenzia ha precisato che anche questa causa di esclusione deve cessare nell’anno precedente e quindi i contribuenti che vogliono aderire al regime forfettario nel 2019 dovevano essere liberi da queste partecipazioni al 1° gennaio di tale anno. L’eventuale acquisto di una partecipazione nel 2019 genera la decadenza dal regime dal 2020 ma se viene ceduta entro la fine di quest’anno non preclude il regime.

Fonte “Il sole 24 ore”

Medici di base, esonero dall’e-fattura ma obbligo di spesometro

Medici di base convenzionati con il servizio sanitario nazionale esonerati dall’emissione della fattura elettronica per i relativi pagamenti. In base all’articolo 2 del Dm 31 ottobre 1974, infatti, nei rapporti tra i professionisti sanitari e gli enti mutualistici per prestazioni medico-sanitarie il foglio di liquidazione dei corrispettivi compilato da tali enti tiene luogo della fattura. La risoluzione 98/E/2015 aveva escluso, in base a tale disposizione, che i medici convenzionati fossero tenuti ad emettere la fattura Pa (elettronica). La risposta a interpello 54/2019 pubblicata ieri dalle Entrate  conferma che l’esclusione vale anche nel nuovo regime.

Il nuovo obbligo generalizzato di e-fattura, che dal 1° gennaio 2019 è esteso a tutti i contribuenti, subisce delle eccezioni, che l’Agenzia puntualmente riepiloga:
1)eccezioni di ordine soggettivo: per chi rientra nel cosiddetto “regime di vantaggio” (articolo 27, commi 1 e 2, Dl 98/2011) e per chi applica il regime forfettario di cui all’articolo 1, commi da 54 a 89, della legge 23 dicembre 2014, n. 190;
2)eccezioni di ordine oggettivo, per le cessioni/prestazioni di servizi per cui non vi è l’obbligo di documentazione tramite fattura (ad esempio, le operazioni verso consumatori finali dei commercianti al minuto: articolo 22 Dpr n. 633 /72);
3)eccezioni di natura “mista”, che riguardano specifiche categorie di contribuenti e solo «in peculiari situazioni», che l’Agenzia identifica in coloro che: a) «hanno esercitato l’opzione di cui agli articoli 1 e 2 della legge 16 dicembre 1991, n. 398, e che nel periodo d’imposta precedente hanno conseguito dall’esercizio di attività commerciali proventi per un importo non superiore a euro 65.000 […]» (così l’articolo 1, comma 3, ultimo periodo del d.lgs. n. 127 del 2015) e b) sono «tenuti all’invio dei dati al Sistema tessera sanitaria», i quali, in riferimento al solo periodo d’imposta 2019, «non possono emettere fatture elettroniche ai sensi delle disposizioni di cui all’articolo 1, comma 3, del decreto legislativo 5 agosto 2015, n. 127, con riferimento alle fatture i cui dati sono da inviare al Sistema tessera sanitaria» (cfr. l’articolo 10-bis del Dl 119 del 2018).

L’Agenzia infine ricorda un principio che dovrebbe essere ovvio: l’obbligo di e-fattura non si applica nei casi in cui l’operatore in base alle disposizioni previgenti non fosse tenuto ad emettere fattura; la risoluzione 54/E/2019 sottolinea infatti che un obbligo che non esisteva prima non viene certo creato dalle nuove regole. Se questo è il principio generale, deve valere anche per tutti gli altri casi in cui in passato la fattura non era stata ritenuta obbligatoria: è il caso, ad esempio, delle farmacie che documentano le forniture di medicinali con distinta contabile riepilogativa (prevista dalla convenzione al Dpr 371/1998) e scontrino, secondo le procedure disciplinate dalle circolari n. 72 e n. 74 del 1983 e più volte confermate negli anni successivi).

La risoluzione qui commentata affronta anche l’argomento dello “spesometro”, per confermare che il relativo obbligo dal 1° gennaio 2019 è soppresso, ma il relativo obbligo resta in vigore per le operazioni relative al 2018. I medici di base dovranno quindi inviare comunque lo spesometro dell’ultimo periodo del 2018 entro il 28 febbraio, comprendendovi anche le fatture emesse nel corso del 2018 (seppure ricevute dal cessionario/committente nel 2019), anche se inerenti a dati già inviati al Sistema tessera sanitaria. Nello spesometro non devono invece essere incluse le fatture (passive) legittimamente ricevute e registrate a decorrere dal 1° gennaio 2019 (anche se riferite al 2018).

Fonte “Il sole 24 ore”

Per esterometro e spesometro proroga «lunga» al 30 aprile

Dopo soli 45 giorni del nuovo anno si riapre la stagione delle proroghe fiscali. Un atto dovuto, dicono i professionisti e le imprese già ampiamente sotto pressione per l’avvio della fatturazione elettronica e che a più riprese hanno chiesto ai vertici dell’amministrazione finanziaria e a quelli di Governo una razionalizzazione delle scadenze degli adempimenti. A partire da quelli di fine febbraio dove in calendario alla data del 28 sarebbe previsto l’invio dei dati delle fatture da e per l’estero, il cosiddetto «esterometro», il secondo semestre o il terzo trimestre 2018 dello spesometro e l’invio delle comunicazioni delle liquidazioni Iva. Il tutto condito dal termine della moratoria delle sanzioni per la fatturazione elettronica. Richieste accolte dal sottosegretario all’Economia, Massimo Bitonci (Lega) che, in una nota diramata ieri, ha annunciato lo slittamento al 30 aprile la prima scadenza dell’esterometro e l’ultima dello spesometro. Slittamenti che dovranno essere formalizzati con un Dpcm.

In sostanza, professionisti e imprese avranno due mesi di tempo in più rispetto alla scadenza attualmente fissata al 28 febbraio per effettuare i due adempimenti. L’esterometro riguarda i dati delle fatture da e verso l’estero che quindi non transitano dal canale dello Sdi (Sistema di interscambio) da cui passano tutte le fatture elettroniche tra “privati” obbligatorie dal 1° gennaio scorso. Lo spesometro, invece, riguarda i dati delle fatture dell’ultima parte del 2018 (secondo semestre o terzo trimestre), visto che l’adempimento va in soffitta proprio con il debutto dell’e-fattura dal 2019.

Come ha spiegato Bitonci dal «confronto nel tavolo tecnico sulla concomitanza delle scadenze fiscali» sono emerse tutte le criticità sottolineate nelle ultime settimane da professionisti e imprese e in questo senso «si sono volute diversificare le scadenze per dare maggior respiro e tranquillità nelle operazioni degli addetti».

Nessuna possibilità di proroga al momento per le comunicazioni dei dati delle liquidazioni Iva che resta in scadenza il 28 febbraio, così come di un possibile allungamento della moratoria delle sanzioni sull’e-fattura. «Il differimento di spesometro ed esterometro è a costo zero per l’Erario e semplifica la vita di professionisti e imprenditori. Si tratta di un atto di buon senso».

Sui mancati rinvii è tornato ieri anche il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili (Cndcec), che venerdì scorso avevano chiesto ufficialmente una revisione del calendario al ministro dell’Economia Giovanni Tria e al direttore delle Entrate Antonino Maggiore. «Pur apprezzando il rinvio di queste due scadenze – ricorda il presidente Massimo Miani – ribadiamo tuttavia l’assoluta necessità di prorogare la moratoria sulle sanzioni per la tardiva trasmissione delle fatture elettroniche, i termini per la comunicazione delle liquidazioni periodiche Iva del quarto trimestre 2018 e l’invio dei dati per la predisposizione delle dichiarazioni precompilate».

I tributaristi dell’Int chiedono, invece, che venga emanato in tempi rapidi il Dpcm e di riaprire il dossier delle semplificazioni fiscali. Il disegno di legge presentato alla Camera dalla maggioranza è, infatti, rimasto fermo e verrà, con tutta probabilità, “svuotato” delle norme di deregulation che prevedono costi per lo Stato.

La partita della revisione del sistema fiscale dovrebbe passare da un intervento ad ampio raggio. La Lega con i sottosegretari Bitonci e Garavaglia sta lavorando a una riduzione della prima aliquota Irpef dal 23% al 20% e del taglio di quattro punti dell’aliquota Ires.

 Fonte “Il sole 24 ore”

Pensionati in fuga, tasse light anche sul secondo assegno

Un pensionato italiano trasferitosi in Portogallo pagherà le tasse nello Stato di residenza, anche per le pensioni percepite a fronte di attività diverse da quelle di lavoro dipendente. Dice questo la risposta a interpello n. 35, pubblicata ieri dall’agenzia delle Entrate: è la più rilevante di un ampio pacchetto dedicato al tema della fuga di cervelli e pensionati e della concorrenza fiscale tra Stati.
Le risposte fornite dall’amministrazione finanziaria su questi temi sono state, infatti, ben cinque: tre per il regime dei «rimpatriati» (articolo 16, commi 1 e 2 Dlgs n. 147/2015) e due per regimi previsti dai trattati a favore dei pensionati. Tra le prime, la risposta 32 ha vietato l’applicabilità del regime per il rimpatrio dei cervelli (comma 2) ad un lavoratore che, nel periodo precedente al rimpatrio in Italia, aveva sì trascorso all’estero un periodo complessivamente superiore a due anni, ma alternando un periodo di studio ad un altro di lavoro, senza dunque integrare – per nessuno di essi considerato singolarmente– il requisito della continuità biennale.
Sullo stesso regime è incentrata la risposta n. 36, che è invece positiva, in quanto chiarisce il principio secondo cui i requisiti della residenza estera e della continuità almeno biennale dell’attività, non devono necessariamente coincidere sul piano temporale. Nello specifico, prima di tornare in Italia nel 2019, la lavoratrice aveva svolto attività di lavoro all’estero dal 2013 al 3 ottobre 2017, ma risultava fiscalmente residente all’estero solo dal 2016.
La risposta n. 34 (positiva) riguarda il regime dei lavoratori rimpatriati (comma 1) e affronta il caso di un lavoratore rimpatriato in data 20 luglio 2018, per il quale è confermata la fruibilità dal regime, ma solo a partire dal primo anno di residenza fiscale in Italia, vale a dire dal 2019, e non anche per i mesi di lavoro da luglio a dicembre 2018.
Le altre due risposte riguardano la fiscalità dei pensionati residenti fiscalmente in uno Stato ma percettori di pensione di fonte estera. La prima (n. 35), riguarda il caso del pensionato italiano trasferito in Portogallo, ormai frequente, ma è interessante perché chiarisce che le pensioni percepite a fronte di attività diverse da quelle di lavoro dipendente (nel caso specifico, Inps ed Enasarco percepite da un agente di commercio) sono sempre tassate nello Stato di residenza, qualunque sia la provenienza. Ai fini del trattato, si qualificano infatti come «altri redditi» ex articolo 21, e non come «redditi di pensione» ex articolo 18, limitato ai solo dipendenti.
Invece, l’indennità di fine rapporto percepita dall’agente si qualifica ai fini italiani come reddito di lavoro autonomo e come tale rientra nell’ambito dell’articolo 14 del trattato: pertanto, la stessa va in ogni caso tassata in Italia, per la quota maturata negli anni in cui il lavoratore era ivi residente, mentre la quota residua può essere tassata in Italia solo se attribuibile ad una base fissa ivi situata. La risposta n. 40, infine, si occupa della «New State Pension», percepita nel Regno Unito da un residente in Italia: secondo l’Agenzia va trattata come una «pensione di Stato» e non è assimilabile ad una forma di previdenza complementare, anche se in parte alimentata da versamenti di natura volontaria. Come tale, va integralmente tassata in Italia, a prescindere dalla mancata deduzione dei contributi a suo tempo versati.
© RIPRODUZIONE RISERVATA “Il sole 24 ore”
Fabrizio Cancelliere
Gabriele Ferlito

Dl semplificazioni, e-fatture sanitarie in formato cartaceo

La conversione (legge n. 12/2019, pubblicata ieri in Gazzetta ufficiale) del decreto semplificazioni completa la mappa dei divieti per la fatturazione elettronica applicabili nel 2019 stabilendo, nella sostanza, che le fatture emesse da chiunque per le prestazioni sanitarie effettuate nei confronti delle persone fisiche devono essere solo cartacee. Pertanto, per le prestazioni sanitarie la disciplina si allinea completamente alle prescrizioni del Garante privacy contenute nel provvedimento del 20 dicembre 2018.
Il divieto di fatturazione elettronica si poggia sull’articolo 10-bis del Dl 119/2019 che, dopo l’intervento di modifica della legge di Bilancio 2019 (articolo 1, comma 53, della legge 145/2018), stabilisce che i soggetti tenuti all’invio dei dati al Sistema tessera sanitaria (Sts), ai fini dell’elaborazione della dichiarazione dei redditi precompilata, non possono emettere fatture elettroniche con riferimento alle fatture i cui dati sono da inviare allo stesso Sts.
L’articolo 9-bis, comma 2 inserito dal Ddl in sede di conversione del decreto legge 135/2018, aggiunge il divieto anche in capo ai soggetti non tenuti all’invio dei dati al Sts, con riferimento alle fatture relative alle prestazioni sanitarie effettuate nei confronti delle persone fisiche. Quindi, gli elementi distintivi dei soggetti e delle prestazioni per cui trova applicazione il divieto di fatturazione elettronica per il 2019, appaiono ora più netti valendo:
per tutte le prestazioni sanitarie rese a persone fisiche da qualunque soggetto, anche non autorizzato in base all’articolo 8-ter del Dlgs 502/1992, senza alcuna distinzione, anche quando il beneficiario abbia opposto il rifiuto per la trasmissione al Sts; quindi rientrano nel divieto anche le prestazioni dei fisioterapisti, quelle sanitarie di assistenza protesica;

per le prestazioni veterinarie rese dai soggetti tenuti ad inviare i relativi dati al Sts.
Come confermato dalla risposta della Faq 58, rientrano nel divieto i soggetti come gli ospedali, case di cura e di riposo, che si trovano ad emettere fatture per prestazioni in parte sanitarie e in parte non sanitarie. Quindi, nel caso in cui la fattura contenga sia addebiti per spese sanitarie sia altre voci di spesa, la fattura deve essere sempre cartacea. Inoltre, partendo dal contenuto letterale dell’articolo 9-bis, comma 2, occorre fare una distinzione; si deve ritenere che eventuali fatture emesse da soggetti Iva intestate ad altri soggetti, comunque diversi dai consumatori finali persone fisiche, beneficiari delle prestazioni sanitarie:
ove debbano riportare elementi identificativi, devono essere cartacee;
se non riportano dati che consentano di individuare i destinatari delle prestazioni devono essere elettroniche.
Allo stesso modo resta obbligatoria la e-fattura per le prestazioni veterinarie rese da soggetti non tenuti all’invio dei dati al Sts.
© RIPRODUZIONE RISERVATA “Il sole 24 ore”
Marco Magrini
Benedetto Santacroce

Stop a mini cartelle per 32 miliardi non più incassabili

Pace fiscale. Cancellati i debiti fino a mille euro per 12,6 milioni di contribuenti ma restano in sospeso i carichi affidati dall’Inps La perdita di gettito stimata risulta di 524 milioni di euro
Sono circa 13 milioni i contribuenti ad aver beneficiato della cancellazione delle micro-cartelle fino a 1.000 euro. Più che di cartelle per l’esattezza si tratta di 114,44 milioni di “partite” affidate all’agente della riscossione tra il 2000 e il 2010 e che agenzia Entrate- Riscossione ha stralciato perché inferiori a “quota mille”. E se è vero che «la somma fa il totale» (per dirla alla Totò), lo stralcio dal magazzino della ex-Equitalia delle micro-cartelle calcolato in euro è pari a 32 miliardi.
Uno stralcio calcolato dall’amministrazione finanziaria e dal Governo, senza nessun allarme per la tenuta dei già deboli conti pubblici. Come si legge nella relazione al decreto legge fiscale collegato alla manovra che introduce la sanatoria delle micro-cartelle, si tratta di somme in assoluto non più recuperabili. Somme la cui cancellazione produce una perdita di 524 milioni, calcolata come il 3,5% del gettito di quasi 15 miliardi atteso dalla rottamazione-ter (11,1 miliardi), dalla rottamazione-bis per i pagamenti 2018 (821 milioni) e per i “confluiti” nella terza edizione della sanatoria (circa 3,1 miliardi). In sostanza la perdita di gettito per l’Erario è quanto non incasserà dalle rottamazioni proprio con le mini-cartelle del tutto stralciate.
Come anticipato, lo stralcio riguarda 114,4 milioni di «partite». Con questo termine si intende il valore riferito al singolo procedimento di controllo chiuso dall’amministrazione finanzairia con uno specifico atto impositivo, di liquidazione e di riscossione. Differente dal ruolo che invece rappresenta un insieme di partite affidate all’agente della riscossione.
Proprio sul valore delle singole partite, come anticipato su queste pagine, è in atto da fine anno un confronto tra Inps e amministrazione finanziaria. A tutt’oggi non sono state ancora cancellate le posizioni debitorie targate Inps. Lo stesso presidente dell’Istituto, Tito Boeri, ha reso noto nel corso dell’audizione al Senato sul reddito di cittadinanza e quota 100, di essere in attesa di un chiarimento del ministero del Lavoro proprio su come si deve intendere la soglia dei mille euro. Per l’Inps le sanzioni civili maturate nel corso degli anni vanno conteggiate ai fini del raggiungimento della soglia dei mille euro. Di diverso avviso il Mef che ha già chiarito all’Inps che la soglia va individuata nel valore originariamente affidato agli agenti (si veda Il Sole 24 Ore del 5 febbraio). E, prendendo per buona la percentuale del 13-14% sul peso delle cartelle Inps sul totale, si può ipotizzare che al momento resterebbe sospesa la cancellazione di centinaia di miliaia di partite “previdenziali e contributive” per un controvalore di circa 4 miliardi.
Ma perché il Fisco ha rinunciato a recuperare cartelle per 32 miliardi di euro complessivi? Per circa oltre 4,3 miliardi di euro si tratta di partite relative a soggetti deceduti e a imprese che hanno cessato qualsiasi attività. Altra quota di pesa, sopra i 3,2 miliardi, invece, sono debiti di nullatenenti o di soggetti non presneti nell’anagrafe tributaria. Ci sono poi i falliti o con procedure concorsuali in corso e, anche se in minima parte, contribuenti con debiti sospesi per provvedimenti amministrativi o per contenziosi in atto.
Insomma si tratta di micro-cartelle impossibili o quasi impossibili da incassare e su cui lo Stato, per altro, negli anni ha dovuto sostenere dei costi. Basti pensare alla continua attivazione di atti interruttivi della prescrizione o di iniziative di azioni di recupero pressoché inefficaci. Inoltre con la cancellazione di queste cartelle si evita di anticipare e poi imputare agli enti creditori le spese per procedure cautelari ed esecutive nell’inutile tentativo di recuperare micro-somme di difficile o impossibile esazione.
Tra le curiosità merita attenzione la distribuzione territoriale delle micro-cartelle cancellate. La Campania con oltre 20 milioni e mezzo di partite stralciate e con un controvalore di 5,1 miliardi si colloca al primo posto della classifica seguita dai circa 18 milioni di partite per 4,7 miliardi e la Lombardia con 15,7 milioni di poste cancellate (4,5 miliardi di valore complessivo).
© RIPRODUZIONE RISERVATA “Il sole 24 ore”
Marco Mobili

Più tempo al debitore per evitare la vendita

Diritto di abitare l’immobile fino al decreto di trasferimento
Per le esecuzioni iniziate con pignoramenti successivi alla pubblicazione della legge il debitore avrà più tempo (quattro anni invece di tre) per pagare una somma di denaro sostitutiva ed evitare la vendita di ciò che è stato pignorato. È questa una delle novità introdotte dall’articolo 4 della legge di conversione del decreto legge 135/2018 che modifica alcuni tempi della procedura di vendita di beni per soddisfare i creditori.
Una rilevante modifica apportata dal provvedimento riguarda la custodia dei beni pignorati (articolo 560 del Codice di procedura civile) e interessa tutti i debitori e non più, come inizialmente previsto, solo i debitori che fossero anche creditori di pubbliche amministrazioni. Il nuovo articolo 560 afferma il diritto del debitore (e dei suoi familiari conviventi) a continuare ad abitare l’immobile sino al decreto di trasferimento che conclude l’espropriazione forzata immobiliare. Ciò vale indipendentemente dall’esistenza e dall’entità di crediti nei confronti di pubbliche amministrazioni.
Alcuni principi sono costanti, rispetto al regime precedente: il debitore deve conservare il bene tutelandone l’integrità, con la diligenza del buon padre di famiglia; poi deve abitare l’immobile personalmente (salva autorizzazione del giudice); infine, deve consentire, d’accordo con il custode, la visita dell’immobile da parte di potenziali acquirenti. Se il debitore custode rispetta queste disposizioni, il giudice non può mai disporre il rilascio dell’immobile pignorato prima della pronuncia del decreto di trasferimento. Se invece vi sono ostacoli alla visita o danni al bene, il giudice ordina, sentiti custode e debitore, la liberazione dell’immobile pignorato.
Ciò che cambia è la generica parità tra custode e debitore che abiti l’immobile, perché si rafforza la posizione del debitore e dei suoi familiari conviventi tutte le volte che abitino stabilmente il bene che andrebbe venduto per soddisfare i creditori. In precedenza, l’articolo 560 dava ampio spazio al custode ed ai problemi operativi, quali quelli relativi allo sgombero ed alla sorte dei beni mobili presenti nei locali: un’eco di tali problemi è visibile ancora oggi nei portoni dei vecchi edifici, che hanno ridotte porticine nel contesto di ampie ante, e ciò appunto per evitare che i beni mobili di maggiori dimensioni (e valore) venissero sottratti in modo fraudolento.
La legge del 2019 non si occupa più dei mobili, che in precedenza potevano anche «essere distrutti», perché l’articolo 560 è più interessato ad imporre oneri al debitore che abiti l’immobile da vendere, quali il consentire visite di acquirenti e mantenere il bene in buono stato di conservazione. Fino al decreto di trasferimento (articolo 586 del Codice di procedura civile) successivo alla vendita, il giudice dell’esecuzione non può disporre il rilascio dell’immobile allontanando il debitore custode ed i suoi familiari. L’articolo 4 della legge di conversione contiene infine uno snellimento delle operazioni di vendita (articolo 569 Codice procedura civile), imponendo calcoli definitivi di capitale ed accessori vantati verso il debitore soggetto a procedura esecutiva.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Fonte “Il sole 24 ore”
Guglielmo Saporito

Niente esterometro né spesometro per il tax free shopping

Niente esterometro né spesometro per le operazioni tax free shopping i cui dati sono trasmessi attraverso il sistema Otello. Con la risposta a consulenza giuridica 8/2019 (clicca qui per consultarla ), pubblicata ieri 7 febbraio 2019, richiamando il principio dello once only, secondo cui dati ed informazioni già comunicati a una pubblica amministrazione non possono essere nuovamente richiesti al cittadino, l’agenzia delle Entrate ha escluso espressamente l’obbligo di comunicare, entro l’ultimo giorno del mese successivo a quello di emissione, i dati delle fatture elettroniche “estere” quando inviate ai fini dell’applicazione del “visto uscire” e del rimborso dell’Iva assolta all’acquisto. Andranno comunque trasmessi con l’esterometro non solo i dati delle fatture passive estere ma anche quelli di fatture attive, Ue ed extra-Ue, non inviati con Otello né trasmessi con il codice convenzionale a sette «X» al Sistema di interscambio (Sdi).

La corretta emissione in modalità elettronica attraverso Otello esclude anche l’obbligo di trasmettere i dati di tali fatture con lo spesometro che, abrogato a partire dal 1 gennaio 2019, dovrà comunque essere inviato entro il 28 febbraio 2019 per le operazioni effettuate nel corso del 2018. Al sistema Otello, gestito dall’agenzia delle Dogane, devono essere infatti trasmessi telematicamente i dati delle fatture emesse per le cessioni di beni effettuate nei confronti di soggetti non passivi d’imposta domiciliati o residenti extra-Ue. Tale adempimento è sufficiente ad assolvere perciò a tutti gli obblighi comunicativi anche nei confronti dell’agenzia delle Entrate grazie alla sempre maggiore integrazione tra dati e servizi delle diverse amministrazioni.

L’invio tramite Otello esonera quindi gli esercenti che emettono fatture tax free dal reinviare i medesimi dati con l’esterometro, la cui prima scadenza è fissata al 28 febbraio prossimo, ma anche con lo spesometro in vista dell’ultima trasmissione anch’essa fissata a fine Febbraio. Si ritiene comunque che nessuna contestazione dovrebbe essere rilevata nei confronti degli esercenti laddove trasmettano i medesimi dati per assolvere i diversi adempimenti ad oggi previsti, e cioè Otello, esterometro e spesometro.

Fonte “Il sole 24 ore”

Spese sanitarie, dati online in tempo reale

Non bisognerà più attendere la dichiarazione dei redditi precompilata. Sarà infatti possibile consultare in tempo reale le spese trasmesse al Sistema tessera sanitaria. Lo ha annunciato ieri il ministero dell’Economia.
Basterà collegarsi al portale www.sistemats.it per accedere ai nuovi servizi telematici rivolti a tutti i cittadini. In questo modo, si avrà immediatamente a disposizione il quadro delle informazioni inviate per la predisposizione della precompilata da parte dell’agenzia delle Entrate.
Più nel dettaglio, è possibile consultare i propri dati di spesa sanitaria relativi agli anni 2017, 2018 e 2019. Potranno essere esportati e analizzati attraverso statistiche, come la ripartizione delle spese, sia per tipologia di erogatore che per tipologia di spesa, con la relativa distribuzione mensile.
I contribuenti potranno anche segnalare immediatamente eventuali incongruenze, sia relative agli importi che alla classificazione delle spese. Le segnalazioni saranno girate direttamente al soggetto che ha effettuato l’invio: questo potrà poi procedere all’eventuale correzione dell’anomalia. Questa funzionalità sarà disponibile per i dati relativi all’anno 2019 (quindi, fino al 31 gennaio del 2020).
Allo stesso modo, sarà anche possibile esercitare l’opposizione all’invio dei dati alle Entrate: in questo modo non entreranno nella dichiarazione dei redditi precompilata. Questa funzionalità è disponibile annualmente, solo nel mese di febbraio. Seguendo, così, le indicazioni condivise con il Garante per la privacy. Il Sistema tessera sanitaria non renderà disponibili all’Agenzia i dati per i quali risulti richiesta di opposizione. L’accesso al servizio di consultazione sarà possibile tramite Spid, tessera sanitaria, e credenziali «Fisconline» rilasciate dall’agenzia delle Entrate.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Fonte “Il sole 24 ore”

Il datore forfettario non versa le tasse per il dipendente

In busta paga retribuzione lorda, imponibile e ritenute previdenziali
Il lavoratore dovrà presentare autonomamente il 730 o il modello Redditi
La legge di bilancio 2019 (la 145/2018) ha modificato la legge 190/2014 intervenendo sulle disposizioni che regolamentano il regime contabile forfettario. Ora si prevede che i contribuenti – persone fisiche esercenti attività d’impresa, arti o professioni – che nell’anno precedente hanno conseguito ricavi/compensi non superiori a 65.000 euro, rientrino automaticamente nel regime forfettario.
La nuova disciplina presenta una sostanziale differenza rispetto al regime in vigore sino al 2018, poiché non prevede più, come causa di esclusione dal regime, l’aver sostenuto spese per un ammontare complessivamente superiore a 5.000 euro lordi per lavoro accessorio, per lavoratori dipendenti e collaboratori. Il venir meno di tale limitazione amplifica la portata della disposizione, potendo giungere sino al coinvolgimento di datori di lavoro.
In tale ottica, assume particolare rilievo quanto disposto dall’articolo 1, comma 69, della legge 190/2014 nella parte in cui afferma che i soggetti a cui si applica il regime fiscale forfettario non sono tenuti a operare le ritenute alla fonte (Dpr 600/1973, titolo III). Essi devono solo indicare nella loro dichiarazione dei redditi (nel quadro RS del modello Redditi vi è una sezione dedicata), il codice fiscale del percettore dei compensi che – all’atto del pagamento – non sono stati assoggettati a ritenuta fiscale.
Le ricadute, in ambito lavoristico, sono molteplici. Emerge su tutte la necessità di prevedere una busta paga che sia adeguata alla nuova “tipologia” di datore di lavoro forfettario. Il cedolino (in teoria già quello di gennaio 2019) dovrà essere emesso con la sola indicazione della retribuzione lorda, dell’imponibile e delle ritenute previdenziali. Resta il fatto che per il dipendente si tratta pur sempre di reddito di lavoro dipendente da dichiarare e da tassare; operazione che il lavoratore dovrà eseguire autonomamente, presentando il 730 o il modello Redditi.
Altro aspetto riguarda la dichiarazione da rilasciare al lavoratore con i dati del reddito corrisposto ancorché non tassato. Non essendo tenuto a operare e versare le ritenute, il datore di lavoro non dovrebbe rilasciare la certificazione unica parte fiscale, anche se, su questo aspetto, l’agenzia delle Entrate il prossimo anno potrebbe integrare le istruzioni della certificazione obbligando al rilascio pure chi si trova nella situazione descritta.
Una perplessità, tuttavia, resta riguardo ai rapporti di lavoro che si concludono in corso d’anno, vista la possibilità offerta al dipendente di chiedere l’emissione della Cu al datore che è obbligato a rilasciarla nei dodici giorni successivi (obbligo che sembra essere venuto meno). Se questo verrà confermato, di fatto, la tassazione definitiva del lavoratore subirà un rinvio al 2020 con conseguente slittamento sia dell’integrale pagamento del saldo Irpef per il 2019, sia del correlato acconto per il 2020.
Altro dubbio attiene alle addizionali del 2018 che vengono versate a rate nel 2019. Si dovrà chiarire se per questo aspetto il datore di lavoro forfettario resta – se pure temporaneamente – sostituto di imposta tenuto alla continuazione del prelievo.
Infine, ricordiamo l’esenzione dalla presentazione della dichiarazione dei redditi nei confronti di coloro che hanno percepito solo reddito di lavoro dipendente corrisposto da un unico sostituto d’imposta obbligato a effettuare le ritenute d’acconto. Poiché l’obbligo di effettuazione delle ritenute (da parte del datore di lavoro in regime forfettario) non esiste più, sembra decadere l’esenzione, rendendo quindi il lavoratore obbligato alla presentazione della dichiarazione dei redditi.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Fonte “Il sole 24 ore”
Giuseppe Maccarone
Alessandro Mengozzi

Definizione causa a costo zero sulla sanzione legata al tributo

Definizione delle liti a costo zero se la controversia riguarda la sanzione collegata al tributo nel caso in cui quest’ultimo sia stato definito anche con modalità differenti dalla sanatoria. In tale contesto, diviene fondamentale comprendere quando la sanzione oggetto di lite sia, o meno, collegata al tributo. La distinzione non dipende né dalla impugnazione autonoma (o meno) del solo tributo, né dalla tipologia di atto utilizzato per l’irrogazione della sanzione (avviso di accertamento insieme alla richiesta dell’imposta ovvero atto separato).
Nel corso del Telefisco 2019, è stato richiesto se rientrino tra le sanzioni collegate al tributo (con gli effetti che ne conseguono ai fini della definizione della lite pendente) quelle irrogate a un terzo (amministratore di fatto, professionista ecc.) in concorso con una società e calcolate sulla base dell’imposta evasa da quest’ultima ove detta imposta sia stata successivamente versata in acquiescenza, attraverso istituti deflattivi o pace fiscale. L’Agenzia ha precisato che le sanzioni irrogate a un terzo in concorso con la società rientrano tra le sanzioni collegate al tributo e, pertanto, se il rapporto relativo al tributo sia stato definito con il pagamento del tributo stesso, la lite instaurata dal terzo può definirsi senza versare nulla.
In proposito, l’agenzia delle Entrate ha richiamato il contenuto della precedente circolare 23/2017. Tuttavia il quesito faceva riferimento sia agli amministratori di fatto, sia ai professionisti e il documento di prassi richiamato in merito al professionista precisava al tempo che la sanzione dovesse considerarsi autonoma e non collegata al tributo. Ciò, nonostante essa fosse corrispondente a quella irrogata al contribuente al quale era richiesta l’imposta.
Così l’agenzia delle Entrate, nella medesima circolare, concludeva che il consulente non poteva definire la lite a zero.
Dal tenore della nuova risposta sembra ora superata tale precedente interpretazione contenuta nella circolare 23/2017, ritenendo estensibile anche al professionista la definizione a zero.
Del resto, dovrebbe escludersi che nella stesura della risposta sia stato ignorato il contenuto del precedente documento di prassi, in quanto esso viene espressamente richiamato dall’agenzia delle Entrate nella risposta stessa proprio per affermare la natura di sanzione collegata al tributo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Fonte “Il sole 24 ore”
Laura Ambrosi

La notifica del ricorso chiude la lite con il 5%

Le Entrate a Telefisco: se l’avviso è pervenuto entro il 19 dicembre 2018
A Telefisco 2019 le Entrate hanno chiarito alcuni dubbi sulla definizione delle liti pendenti in Cassazione. Il Dl fiscale, in caso di vittoria del contribuente in entrambi i giudizi di merito, ha previsto la chiusura della lite con il pagamento del solo 5% delle imposte pretese. Circa il periodo temporale di riferimento, la norma lasciava qualche dubbio parlando dei ricorsi «pendenti innanzi alla Corte di cassazione», non chiarendo se fosse sufficiente la pendenza dei termini per l’impugnazione, la notifica del ricorso o la costituzione in giudizio da parte dell’Avvocatura dello Stato. L’Agenzia ha precisato che per definire la lite con il 5%, oltre alla soccombenza dell’Ufficio in tutti i precedenti gradi, occorre la notificazione del ricorso per cassazione entro il 19 dicembre 2018. Quindi beneficiano del pagamento del 5% delle imposte pretese, senza interessi e sanzioni, chi ha sentenza favorevole in Ctp e in Ctr e ha già ricevuto la notifica del ricorso in Cassazione da parte dell’Avvocatura entro il 19 dicembre 2018. Conseguentemente, chi si trova nella medesima situazione, ma ha ricevuto il ricorso dell’Avvocatura dal 20 dicembre in poi, potrebbe definire la lite con il pagamento del 15%.
Nel caso invece di giudizi intermedi in entrambi i gradi di merito, e ricorso pendente in cassazione, la definizione per la parte che ha dato ragione al contribuente va effettuata con il pagamento del 15% (resta fermo il 100% sulla quota di soccombenza).
Il momento rilevante per l’individuazione del dovuto coincide con il 24 ottobre 2018 e pertanto pronunciamenti successivi sono irrilevanti. L’unica eccezione attiene la decisione della Cassazione senza rinvio, una pronuncia definitiva che pregiudica la possibilità di definizione. La norma, infatti, consente di aderire alla sanatoria solo a condizione che alla data di presentazione della domanda non sia intervenuta pronuncia definitiva. In ogni caso, tale ipotesi può riguardare solo una decisione della Cassazione, poiché per le sentenze di merito (Ctp e Ctr) i termini di impugnazione sono automaticamente sospesi, con la conseguenza che, nelle more della presentazione della domanda, non possono divenire definitive.
Sussiste ancora qualche perplessità per l’importo da versare in caso di sentenza di rinvio della Cassazione. La norma dispone che le controversie attribuite alla giurisdizione tributaria in cui è parte l’Agenzia, aventi ad oggetto atti impositivi, pendenti in ogni stato e grado del giudizio, compreso quello in Cassazione e anche a seguito di rinvio, possono essere definite con il pagamento del 100% del valore di lite. Ne consegue così che anche per il rinvio, secondo la regola generale, è dovuto il 100%. Il dubbio sorge perché la relazione al Dl 119/2018 precisava che con una sentenza della Cassazione con rinvio, la controversia si considera pendente in primo grado senza decisione. Il nuovo comma 1-bis ha previsto che per i ricorsi pendenti in primo grado, la definizione possa avvenire con il pagamento del 90% (non più 100%) del valore della controversia. Occorre comprendere se, in caso di rinvio, sia dovuto il 100% o il 90%.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Fonte “Il sole 24 ore”
Antonio Iorio

Nella definizione dei Pvc soltanto i maggiori imponibili

Nella dichiarazione solo elementi che derivano dal processo verbale
Per la definizione agevolata dei Pvc occorre presentare una particolare dichiarazione nella quale vanno indicati esclusivamente i maggiori imponibili (e le maggiori imposte dovute) derivanti dal processo verbale.
L’articolo 1 del Dl 119/2018 prevede che, ai fini della definizione dei processi verbali di constatazione, il contribuente deve presentare la «relativa dichiarazione per regolarizzare le violazioni constatate». In pratica, il contribuente deve inviare, per ciascun periodo d’imposta e per ciascuna imposta oggetto di constatazione, la relativa dichiarazione nella quale vanno indicati gli imponibili e le conseguenti imposte derivanti dal Pvc. La norma non la definisce espressamente come dichiarazione integrativa, anche perché la definizione agevolata può essere utilizzata anche da chi originariamente ha omesso di presentare la dichiarazione.
Nel Provvedimento delle Entrate del 23 gennaio scorso viene stabilito (punto 3.2) che occorre barrare nel frontespizio della dichiarazione relativa all’annualità oggetto di definizione la casella “correttiva nei termini” anche nel caso in cui è stata omessa la dichiarazione originaria. Probabilmente, tale modalità di indicazione si deve alla necessità di contraddistinguerla dalle altre dichiarazioni integrative (ad esempio, da quelle da ravvedimento operoso). Tuttavia, quello che risulta un po’ criptico, al di là della barratura della casella, è il fatto che nel Provvedimento (punto 3.1) si specifica che nella dichiarazione «a rettifica e integrazione di quanto originariamente dichiarato, sono indicati esclusivamente i maggiori imponibili, le maggiori imposte e gli elementi derivanti dalle violazioni constatate nel processo verbale». Sembrerebbe, in prima battuta, che a fronte di un reddito di 100 dichiarato originariamente e, ad esempio, di spese constatate come non inerenti per 60, il contribuente debba indicare nella dichiarazione solamente 60 e non 160. La cosa lascerebbe davvero perplessi perché sarebbero evidenti le difficoltà di calcolo, ad esempio, per i soggetti Irpef.
Il Provvedimento, sempre al punto 3.1, stabilisce che la modalità di indicare esclusivamente i maggiori imponibili e le maggiori imposte vale anche nel caso di omessa presentazione della dichiarazione. Da qui, forse, si comprende il significato di quanto stabilito dal Provvedimento. È chiaro, infatti, che se un contribuente ha omesso di presentare la dichiarazione non ha senso prevedere che lo stesso deve indicare esclusivamente i maggiori imponibili derivanti dalle violazioni constatate. Evidentemente, tutto ciò che andrà a dichiarare risulterà un maggiore imponibile. Così che l’affermazione contenuta nel Provvedimento va interpretata nel senso che il contribuente, nella dichiarazione che presenta a seguito dell’adesione agevolata al Pvc, dichiara “esclusivamente” ciò che deriva dal processo verbale stesso. In sostanza, nella specifica dichiarazione non possono trovare luogo altre vicende che non derivano dal verbale. Ad esempio, il contribuente non potrà indicare nuovi componenti negativi di reddito non riconosciuti dal verbale e non indicati nella dichiarazione originaria, così come non potrà indicare altri componenti positivi non derivanti dal verbale (che fruirebbero della non sanzionabilità).
Questo appare il significato da attribuire alla previsione contenuta nel Provvedimento. Va ad ogni modo rilevato che la volontà sembra essere quella di non assegnare la natura di vera e propria dichiarazione integrativa alla dichiarazione che si presenta in seguito alla definizione agevolata dei Pvc. Anche se tale lettura determina più di qualche perplessità.
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Dario Deotto

Saldo e stralcio sui debiti dall’attività di liquidazione

Disco rosso al saldo e stralcio per gli avvisi bonari. Possono invece senz’altro rientrare nella nuova sanatoria tutti i debiti derivanti dalla liquidazione delle dichiarazioni, eseguite in base agli articoli 36 bis, Dpr 600/1973, e 54 bis, Dpr 633/1972. Si tratta delle prime significative risposte dell’agenzia delle Entrate, fornite nel corso di Telefisco, sulla nuova definizione agevolata della legge di Bilancio 2019.
La prima risposta era abbastanza scontata ma lascia ugualmente insoddisfatti. Non si può fare a meno di notare che da tutte le sanatorie della pace fiscale restano sempre fuori gli avvisi bonari. Il contribuente che, magari con fatica, è riuscito a tenere in piedi la rateazione degli avvisi, anche con un Isee basso, non potrà fruire dello stralcio, solo perché non si è in presenza di importi affidati all’agente della riscossione.
La seconda risposta presenta, invece, alcuni profili di interesse. La liquidazione delle dichiarazioni può determinare l’emersione sia di imposte dichiarate e non versate sia la richiesta di maggiori imposte per il disconoscimento, ad esempio, di oneri deducibili. Detto in altri termini, la procedura di cui all’articolo 36 bis può essere meramente liquidatoria, quando si limita al recupero dei tributi evidenziati in denuncia, oppure accertativa, quando si risolve nella rettifica dei dati dichiarati. Occorre stabilire se le iscrizioni a ruolo conseguenti possano, in entrambi i casi, beneficiare dello stralcio.
A ben vedere, nella normativa di riferimento si richiamano i debiti rinvenienti sia dall’omesso versamento di imposte risultanti dalla dichiarazione sia dalle attività di liquidazione sopra indicate. La formulazione di legge potrebbe prestarsi ad una duplice lettura. Da un lato, potrebbe arguirsi che i due requisiti debbano coesistere. Se così fosse, sarebbero ammessi allo stralcio gli omessi versamenti delle imposte dichiarate purché questi emergano dalle procedure liquidatorie, in base agli articoli 36 bis/600 e 54 bis/633.
Si ritiene, tuttavia, che non sia questo il senso della legge e che la particella «e» che connette le due fattispecie (omesso pagamento di imposte dichiarate, da un lato, e iscrizioni da 36 bis, dall’altro) abbia la funzione di ammettere entrambe, separatamente considerate, ai benefici di legge. Questo, se si vuole, anche per motivi di semplificazione, poiché non sarebbe stato sempre agevole riscontrare con precisione le ragioni del recupero. Si pensi, ad esempio, alla correzione di errori materiali di riporto di somme commessi dal contribuente: la liquidazione che ne scaturisce come sarebbe stata interpretata ai fini dello stralcio?
La risposta dell’Agenzia sembra confermare la lettura estensiva dell’ambito della definizione agevolata, poiché si riferisce a tutti i tributi rivenienti dalle ridette attività di liquidazione, senza distinzione alcuna.
È di interesse anche l’ulteriore precisazione in ordine ai tributi ammessi alla sanatoria. La norma, in effetti, non detta alcuna elencazione tassativa delle imposte definibili. Ciò che conta è che il debitore sia una persona fisica e che l’affidamento derivi dalla liquidazione delle dichiarazioni annuali. Ne consegue che nulla osta a che lo stralcio includa anche tutte le imposte sostitutive dell’Irpef che, in quanto tali, sono oggetto delle medesime procedure di controllo. Si pensi ad esempio alla cedolare secca sulle locazioni immobiliari. L’agenzia delle Entrate ha confermato l’esattezza di questa conclusione.
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Luigi Lovecchio

Niente regime forfettario per i medici «intramoenia»

Le prestazioni svolte nelle strutture ospedaliere assimilate a lavoro dipendente

Compensi fatturati dall’ente e poi liquidati all’interno della busta paga

Le prestazioni mediche intramoenia ospedaliera hanno natura di reddito di lavoro dipendente e quindi non rilevano ai fini del regime forfettario. Questa in sintesi la risposta fornita dal Mef al question time in commissione Finanze alla Camera presentato da Giulio Centemero (Lega).
L’interpellante aveva posto il problema dell’applicazione del regime forfettario (legge 190/2014, articolo 1 comma 57 come risulta dopo le modifiche di cui alla legge n. 145/2018) per i medici lavoratori autonomi che hanno avviato l’attività con partita Iva prima dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni, i quali potrebbero essere penalizzati da un’interpretazione retroattiva della norma.
Lucida la risposta ministeriale, secondo cui la nuova causa ostativa al regime forfettario relativa ai rapporti con il proprio datore di lavoro non può avere effetti retroattivi; anzi, dal 2019 è più facile rientrarvi. Infatti, in passato un lavoratore dipendente o assimilato con reddito annuo di importo superiore a 30mila euro non poteva applicare il regime forfettario, mentre dal 1° gennaio 2019 questo è consentito, a condizione che con la partita Iva operi prevalentemente con soggetti diversi dal proprio datore di lavoro.
Ma la precisazione ministeriale riguarda in particolare la prestazione medica intramoenia che nulla ha a che fare con il regime forfettario. Infatti, i compensi percepiti dai medici del Servizio sanitario nazionale in relazione all’attività intramoenia (quindi nella sede del servizio medesimo) costituiscono redditi assimilati ai redditi di lavoro dipendente e quindi non possono rientrare nel regime forfettario.
Infatti, le prestazioni professionali svolte dai medici all’interno della struttura ospedaliera oltre l’impegno di servizio vengono fatturate dall’ente ospedaliero e vengono liquidate nella busta paga del medico dopo aver trattenuto una quota per le spese di struttura. Quindi, il medico non fattura nulla al paziente che ha chiesto la visita medica. Anche ai fini dell’Irap, l’articolo 2 del Dlgs n. 446/1997 dispone che per i medici che hanno sottoscritto specifiche convenzioni con le strutture ospedaliere per lo svolgimento delle attività all’interno delle predette strutture non sussista l’autonoma organizzazione e quindi l’imposta regionale non sia dovuta.
La nuova norma prevede che il contribuente non possa accedere al regime forfettario se, in aggiunta al rapporto subordinato, questo operi con partita Iva prevalentemente con il proprio datore di lavoro o con chi lo è stato nei due periodi di imposta precedenti o con soggetti ad esso riconducibili.
Quindi, i medici ospedalieri se sono autorizzati ad operare anche privatamente possono applicare il regime forfettario qualora i compensi percepiti nel 2018 per le attività professionali siano risultati non superiori 65mila euro, fatturando le prestazioni ai clienti privati.
Invece, non possono essere forfettari se fatturano direttamente all’ente ospedaliero da cui dipendono o presso il quale erano dipendenti nei due periodi di imposta precedenti, a meno che il fatturato con l’ente non risulti inferiore a quello fatto con altri clienti.
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Gian Paolo Tosoni

L’acconto 2018 blocca il bonus Il costo extra con i nuovi scaglioni

Le Entrate sul meccanismo dell’iperammortamento dopo la legge di Bilancio

Si applica il 150% alla parte di investimento correlata all’anticipo
Spetta l’iperammortamento del 150% anche se il costo a consuntivo supera la quota coperta dall’acconto del 20% pagato entro fine 2018. Il chiarimento è stato fornito dall’agenzia delle Entrate durante Telefisco 2019. L’eccedenza di costo sostenuto nel 2019, rispetto a quello prenotato, potrà comunque usufruire nella nuova agevolazione a scaglioni introdotta dalla legge 145/2018.
Le interrelazioni tra il nuovo iperammortamento con percentuali decrescenti per scaglioni di costo degli investimenti e quello vigente nel 2018, che prevedeva una maggiorazione unica del 150%, stanno sollevando più di un dubbio negli operatori. Molte domande poste dai lettori, durante l’appuntamento di Telefisco del 31 gennaio, hanno riguardato infatti la possibilità di scegliere, per gli investimenti del 2019, tra l’una e l’altra agevolazione.
Il nuovo iperammortamento a scaglioni – lo ricordiamo – è più vantaggioso di quello precedente solo quando gli investimenti realizzati nel 2019 (nonché nella coda temporale del 2020, prevista per ordini e acconti del 20% entro la fine di quest’anno) siano complessivamente inferiori a 3,5 milioni di euro. Per costi al di sotto di questa soglia, infatti, l’importo che si ottiene cumulando il 170% del primo scaglione (primi 2,5 milioni) e il 100% del secondo è superiore al 150% complessivo.
Le due agevolazioni (quella prevista dal comma 30 della legge 205/2017 e quella nuova, strutturata a scaglioni), anche se possono entrambe interessare costi per investimenti 4.0 sostenuti nel 2019, sono però autonome e si applicano in base alle precise condizioni di legge, senza possibilità di scelta. Chi ha confermato l’ordine al fornitore e pagato l’acconto del 20% entro la fine del 2018 utilizza obbligatoriamente, per i costi del 2019, la maggiorazione del 150% e non intacca gli scaglioni.
Durante Telefisco è stato, allora, chiesto alle Entrate cosa accade se, dopo aver fatto un ordine e un acconto alla fine del 2018, il costo dell’investimento 4.0 realizzato entro il 31 dicembre 2019 risulta superiore, rendendo apparentemente incapiente l’acconto. Si ipotizzi, ad esempio, un ordine per un macchinario iperammortizzabile effettuato a dicembre 2018 per un milione di euro, con pagamento dell’acconto di 200 mila euro, che viene realizzato nel 2019 con un costo a consuntivo (a seguito di revisione o migliorie in corso d’opera) di 1,1 milioni.
L’Agenzia ha stabilito che, in questo caso, il costo della macchina andrà ripartito tra quello sotto l’ombrello del 150% e quello che sfrutta l’iperammortamento a scaglioni. Innanzitutto, è confermato che l’importo contrattualizzato (un milione) usufruisce comunque della maggiorazione del 150% e non deve né può entrare in quella nuova. Al costo eccedente (100 mila) si applicherà invece la nuova maggiorazione a scaglioni, cumulando l’importo con gli altri eventuali investimenti effettuati nel 2019 (o nella coda del 2020).
L’Agenzia non ha invece trattato un ulteriore caso che si potrebbe presentare nell’intreccio tra i due incentivi: l’investimento prenotato (con acconto del 20%) nel 2018 che viene realizzato nel 2020. In questa situazione, la prenotazione del 2018 e il relativo acconto dovrebbero valere anche per sfruttare la coda 2020 del nuovo iper a scaglioni, ma risulterà opportuno, entro la fine di quest’anno, procedere a confermare nuovamente l’ordine al fornitore, dando atto che l’acconto già versato nel 2018 resta valido ed efficace anche per la realizzazione 2020.
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Luca Gaiani

Processo tributario telematico: attestano anche i difensori privati

Anche i difensori dei contribuenti potranno autenticare i documenti estratti dal fascicolo processuale e, in caso di spese di lite compensate, il contributo unificato rimane tutto a carico della parte privata. Sono questi i chiarimenti forniti dal Mef in occasione di Telefisco 2019 e pubblicati per la prima volta in questa pagina.
Attestazione di conformità
Tra le novità introdotte dal decreto fiscale (Dl 119/2018) in tema di processo tributario telematico c’è il potere di certificazione della conformità.
L’attestazione di fatto “garantisce” che la copia informatica (anche per immagine) di un atto processuale di parte, di un provvedimento del giudice o di un documento sia “identica” al suo originale o alla sua copia conforme su supporto analogico.
Il nuovo articolo 25-bis del processo tributario (Dlgs 546/1992) prevede che tale attestazione possa essere eseguita da «il difensore e il dipendente di cui si avvalgono l’ente impositore, l’agente della riscossione e i soggetti iscritti nel citato Albo per la riscossione degli enti locali» (secondo le modalità previste dal Codice dell’amministrazione digitale, Dlgs 82/2005).
La copia informatica o cartacea munita dell’attestazione di conformità equivale all’originale o alla copia conforme dell’atto o del provvedimento detenuto o presente nel fascicolo informatico. Nel compimento dell’attestazione, per espressa previsione normativa, i difensori e i dipendenti assumono a ogni effetto la veste di pubblici ufficiali.
Da una prima lettura della norma sembrava che tale possibilità di attestazione fosse riservata ai difensori della parte pubblica. Per questo motivo è stato posto un quesito in occasione di Telefisco 2019. Il Mef ha precisato che il nuovo articolo 25-bis è riferito ai difensori di tutte le parti, e quindi anche del contribuente, i quali potranno così estrarre copie e attestarne la conformità della copia. È stato altresì precisato che le attestazioni sono in esenzione del pagamento di eventuali diritti.
È un chiarimento utile alla vigilia del processo tributario telematico obbligatorio, infatti, dal prossimo 1° luglio: unitamente ad altre novità introdotte, come ad esempio le udienze in videoconferenza, consentirà effettivamente di gestire l’intero processo anche a distanza, con evidente beneficio in termini di spese per i contribuenti.
Spese di lite compensate
Un’altra questione controversa riguardava l’obbligo di restituzione da parte dell’ente impositore della metà del contributo unificato nelle ipotesi in cui il giudice tributario dispone la compensazione delle spese di lite. Il Mef ha innanzitutto precisato che il contributo unificato per il processo tributario è regolato da una specifica disciplina all’interno della quale non possono trovare applicazione, neanche in via analogica, le disposizioni previste per i processi civile e amministrativo.
Per il rito tributario, la Corte di cassazione ha individuato la natura di obbligazione ex legge del contributo unificato tributario gravante sulla sola parte soccombente, soltanto nel caso di espressa sua condanna alle spese del giudizio nelle statuizioni della sentenza (Cassazione 2691/2016 e 23830/2015). A ciò consegue che la restituzione del contributo unificato a carico del contribuente può avvenire solo in ipotesi di condanna alle spese di giudizio dell’ente impositore. Quando è invece disposta la compensazione, rimangono interamente a carico della parte privata, compreso il contributo unificato.
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Laura Ambrosi
Antonio Iorio

Fattura elettronica, da AssoSoftware un tracciato per la Gdo

Tra le grandi promesse della fatturazione elettronica, una in particolare ha contribuito alla sua recente entrata in vigore. Si tratta della possibilità di realizzare un’automazione completa dei processi amministrativi e gestionali grazie al trasferimento tra cedente e cessionario dei dati elaborabili presenti nella fattura elettronica.

In questo approfondimento voglio fare alcune considerazioni su quanto è stato effettivamente finora realizzato e su quanto c’è ancora da fare affinché questa promessa possa davvero considerarsi concretamente e pienamente mantenuta.

L’automazione dei processi legati al ciclo attivo di fatturazione, che preveda non solo la contabilizzazione delle fatture emesse, ma anche la riconciliazione con gli ordini, i Ddt, il magazzino, eccetera, senza l’intervento dell’operatore è una delle grandi promesse della fatturazione elettronica. Cui si collega inevitabilmente l’automazione, lato ciclo passivo, dei processi di contabilizzazione delle fatture di acquisto, con tutti i risvolti gestionali connessi.

Nella spinta all’automazione, stanno giustamente entrando – forse in modo un po’ dispotico – le imprese più strutturate, in particolare quelle della grande distribuzione (Gdo) che, godendo della posizione privilegiata di “grandi clienti”, stanno imponendo ai propri fornitori l’inserimento di una serie di informazioni appositamente codificate nella struttura Xml, che rendono possibile l’automazione dei processi gestionali.

La domanda che quindi sorge spontanea è: a che punto siamo oggi – che siamo entrati pienamente nell’era della fatturazione elettronica – con la digitalizzazione di tutti i processi amministrativi e gestionali? In altre parole, è tutto già pronto e perfettamente automatizzato, oppure c’è ancora qualcosa da fare? E quanto resta ancora da fare?

Chiaramente molto è stato fatto, ma evidentemente la risposta a questa domanda è si può fare ancora tanto. Risposta che porta sempre con sé l’obiezione che ci siamo tutti fatti cogliere impreparati su questi aspetti, che da anni sono decantati come vantaggi assoluti della fatturazione elettronica. In proposito ci sentiamo però in dovere di fare alcune utili riflessioni, anche di tipo tecnico. Suddividiamo l’analisi per punti:
•l’attuale struttura della fattura elettronica non contempla, se non marginalmente, l’indicazione strutturata di tutte le informazioni utili ad automatizzare tutti i processi gestionali;
•l’attuale struttura della fattura elettronica prevede però la possibilità di inserire in un formato non codificato, ma codificabile convenzionalmente tra le parti, ulteriori informazioni sia di corpo che di rigo.

Ne conseguono alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che poter acquisire già dal 1° gennaio 2019 in modo automatico sui propri gestionali la maggior parte dei dati delle fatture di acquisto (importi, descrizioni di rigo, aliquote e nature Iva, eccetera) è un primo passo molto importante, che rende la registrazione delle fatture più rapida e sicura rispetto alla digitazione manuale dei dati, ancorché l’operatore debba per il momento continuare a effettuare alcune operazioni manuali per completare la registrazione.

La seconda è che non è del tutto vero che si siano fatti tutti cogliere tutti impreparati su questi aspetti. Il problema è esclusivamente di comunicazione. Gli addetti ai lavori, che da anni conoscono l’attuale tracciato, il medesimo che dal 2014 è utilizzato per la fatturazione alla Pa, hanno ben chiaro da sempre che un’automazione condivisa sarà possibile e si potrà raggiungere quando, all’interno delle fatture emesse, i fornitori inseriranno tutte le informazioni necessarie, in modo strutturato ed elaborabile.

Ma che cosa significa «in modo strutturato ed elaborabile»? Si può già fare qualcosa? E se sì, perché non è stato già fatto? La risposta a questo legittimo interrogativo è complessa e richiede un esame articolato dei fatti.

La fattura elettronica è nata come obbligo – com’è noto a tutti – per esigenze fiscali, in particolare di controllo delle frodi in ambito Iva. Per questo motivo tutta la sua gestione è stata affidata dal nostro legislatore all’agenzia delle Entrate, che si è concentrata su tutti gli aspetti che riguardavano l’ambito fiscale.

Gli aspetti gestionali sono stati quindi lasciati alla libera impostazione degli stakeholders (tra cui le Gdo), che però sono molti e finora non si sono ancora organizzati per concordare soluzioni comuni.

L’unico soggetto che da subito ha proposto un tracciato codificato valido per tutti è proprio AssoSoftware, che da quasi due anni ha ufficializzato una codifica comune che utilizza i campi dedicati agli aspetti gestionali contenuti all’interno dell’attuale schema Xml ufficiale dell’agenzia delle Entrate. Si tratta di un tracciato pubblico e libero, visionabile sul sito istituzionale www.assosoftware.it e utilizzabile da chiunque sia interessato, senza vincolo alcuno, cui hanno aderito i principali produttori di software associati che ne garantiscono l’elaborabilità.

AssoSoftware inoltre, in qualità di socio di Uninfo (Ente italiano di normazione sulle tecnologie informatiche federato all’Uni), ha intrapreso un percorso di sviluppo e standardizzazione del suo arricchimento informativo che dovrebbe portare dapprima alla pubblicazione del documento tecnico come «Prassi di riferimento Uni» e a seguire a proporre al Cen (Comitato Europeo di Normazione) tale prassi come estensione italiana del prossimo standard europeo sulla fatturazione elettronica.

Dunque, per rispondere al quesito, sì si può già fare, tuttavia ben pochi soggetti si sono fino a questo momento potuti dedicare e hanno potuto richiedere le necessarie implementazioni dei propri software (il che è naturale, visto che il rischio di una proroga ci ha accompagnato fino al 1° gennaio 2019), per cui ci aspettiamo nei prossimi mesi un’evoluzione dei processi da parte di molti stakeholders che porteranno via via a un’automazione sempre più spinta dei processi.

Il nostro suggerimento, soprattutto nei confronti delle Gdo che hanno necessità particolari e specifiche, è quello di non adottare soluzioni proprietarie la cui implementazione da parte dei produttori software che realizzano le procedure informatiche costituirebbe un costo addebitabile esclusivamente a un solo loro cliente (il fornitore della singola Gdo), ma è invece di adottare il tracciato integrato AssoSoftware, che è un tracciato nazionale.
Ma facciamo un caso specifico: supponiamo che la richiesta della Gdo al proprio fornitore sia di far inserire all’interno del tracciato il «Centro di Costo/Punto Vendita» a cui destinare la merce acquistata, come si dovrebbe implementare il contenuto della fattura Xml?

Leggendo le specifiche tecniche del tracciato AssoSoftware vediamo che è previsto il codice «AswCenCost» proprio per identificare il centro di costo da parte del mittente. A questo punto usando le indicazioni delle specifiche tecniche andremo a implementare il blocco [2.2.1.16] AltriDatiGestionali utilizzando i seguenti tipi dato convenzionali:
•[2.2.1.16.1] TipoDato = “AswCenCost” nel caso di Centro di costo/Punto Vendita
•[2.2.1.16.2] riportare il valore del Centro di costo/codice del punto vendita destinatario della merce.

In questo modo il software della Gdo potrà elaborare le fatture in arrivo e smistarle/contabilizzarle correttamente.

Nel caso in cui il tracciato AssoSoftware dovesse rivelarsi non idoneo a gestire determinate problematiche, l’Associazione si rende disponibile – su richiesta che pervenga per il tramite dei propri associati o anche direttamente nel caso di Gdo di grande rilevanza – a integrare tale tracciato, senza costo alcuno per il richiedente. La soluzione proposta da AssoSoftware è chiaramente una soluzione di mercato, nata per far fronte a esigenze gestionali, che – come dicevamo poc’anzi – non essendo di interesse dell’agenzia delle Entrate sono state implementate in modo non codificato nell’attuale schema Xml.

L’auspicio è che, partendo dall’iniziativa di AssoSoftware, si apra un confronto vivo con tutti gli stakeholders interessati che porti a condividere codifiche e convenzioni di carattere gestionale per giungere veramente a un’unica «estensione nazionale della fattura elettronica».

Fonte “Il sole 24 ore”

Aliquota Iva ordinaria per le bevande proteiche

di Anna Abagnale e Benedetto Santacroce
Le cessioni di “gel energetici” e “bevande proteiche” sono soggette all’aliquota Iva ordinaria, e non a quella agevolata del 10% prevista al punto 80) della tabella A, parte III, allegata al Dpr 633/1972.

Con la risposta n. 12 di ieri, l’amministrazione finanziaria ritorna, dopo non appena dieci giorni (si veda risposta n. 8 del 18 gennaio 2019 e prima ancora risposta n.1 del 4 settembre 2018), sul tema del trattamento Iva applicabile agli integratori alimentari e ai prodotti nutrizionali.

La difficoltà del contribuente nello stabilire se prodotti di questo genere rientrino nella disciplina Iva agevolata, in quanto «preparazioni alimentari non nominate ne comprese altrove (v.d. ex 21.07) esclusi gli sciroppi di qualsiasi natura», è collegata alla diversa classificazione doganale che i prodotti in argomento possono subire in relazione alla loro composizione.

Nell’ultimo caso sollevato dal contribuente, l’agenzia delle Dogane aveva già classificato i prodotti con codice NC 2202 9919 e 2202 999, e non NC 21.06. Considerando che tale ultimo codice NC 21.06 corrisponde alla voce 21.07 della Tariffa doganale in vigore al 31 dicembre 1987, richiamata al punto 80) della Tabella A, parte III, allegata al DPR 633/1972, l’esclusione dalla stessa comporta di conseguenza l’esclusione dall’applicazione dell’Iva al 10%.

La correlazione fra i beni elencati nella tabella e le voci doganali non è sempre di facile interpretazione. In particolare, nei casi in cui non è menzionata né la relativa norma né la voce doganale, per stabilire la corretta aliquota Iva di un prodotto, occorre far riferimento alle comuni regole merceologiche di identificazione dei beni. Per questo motivo è necessario sempre verificare in dettaglio il caso concreto e rivolgersi alle amministrazioni finanziarie laddove sussistano delle difficoltà.

Fonte “Il sole 24 ore”

La Pec delle Entrate obbliga i sostituti d’imposta ad aggiornare i dati

La Pec con la quale l’agenzia delle Entrate rende noto al sostituto d’imposta che il suo consulente del lavoro, autorizzato alla ricezione dei risultati contabili dei modelli 730-4, ha comunicato la risoluzione del rapporto di delega, impone al datore di lavoro di provvedere all’aggiornamento dell’indirizzo telematico. Se non adempie, l’Agenzia cancella l’indirizzo e il sostituto è tenuto a compilare e a inviare entro il 7 marzo il quadro CT della certificazione unica. Lo precisa la circolare n. 3/E del 25 gennaio 2019 con la quale la Direzione centrale dei servizi fiscali sottolinea come diversi sostituti, nonostante l’invito formulato dall’Agenzia, non abbiano comunicato il nuovo indirizzo al quale devono essere inviate le risultanze dei modelli 730.

La questione trae origine dall’articolo 2 del decreto legislativo 175/2014 il quale, modificando l’articolo 16, comma 4-bis, lettera b), del Dm 164/1999, ha previsto che a partire dal 2015 i sostituti d’imposta devono comunicare, entro il 7 marzo, la sede telematica dove ricevere i modelli 730-4 attraverso il flusso informativo delle certificazioni uniche (Cu).

La comunicazione della sede telematica può essere effettuata con la Cu, attraverso la compilazione dell’apposito quadro CT, oppure con il modello “Comunicazione per la ricezione in via telematica dei dati relativi ai modelli 730-4 resi disponibili dall’Agenzia delle Entrate” (Cso). Il quadro CT è riservato ai sostituti d’imposta che trasmettono almeno una certificazione di redditi di lavoro dipendente e che non hanno presentato, a partire dal 2011, il modello Cso.

Tenuto conto che le Cu devono essere presentate entro il 7 marzo, e che sono considerate tempestive le Cu inviate entro 5 giorni dalla ricevuta di scarto, al fine di gestire i processi relativi all’acquisizione dei dati delle comunicazioni per la ricezione in via telematica dei modelli 730-4, dopo la prima metà del mese di marzo non è più consentito inserire all’interno della Cu il quadro CT. Ne consegue che l’Agenzia prenderà in considerazione solo i dati contenuti nell’ultimo invio effettuato entro la predetta data (circolare 4/E/2018). Il modello Cso è invece utilizzato dai sostituti d’imposta che non hanno presentato, a partire dal 2011, l’apposito modello Cso e che non hanno trasmesso il quadro CT, oppure nel caso in cui intendano variare i dati già comunicati a partire dal 2011 con il modello Cso o con il quadro CT della Cu. Detto modello deve pertanto essere utilizzato per modificare: la sede telematica propria o dell’intermediario già scelto; l’intermediario sostituito con altro intermediario; l’utenza telematica da Fisconline a Entratel; l’intermediario con il sostituto stesso o viceversa. Potrebbe però verificarsi che sia l’intermediario (normalmente il consulente del lavoro) a comunicare tramite Pec alle Entrate l’avvenuta risoluzione del mandato, a suo tempo conferitogli dal proprio cliente, per ricevere telematicamente i modelli 730-4. In tal caso l’Agenzia invia a quest’ultimo un messaggio Pec con il quale lo invita ad effettuare la variazione comunicando, con il modello Cso, il nuovo intermediario o la sostituzione dell’intermediario con se stesso.

Qualora il sostituto non adempia, l’Ade provvederà alla cancellazione dell’indirizzo telematico dell’intermediario che ha reso nota la cessazione del rapporto, con la conseguenza che il sostituto sarà tenuto in sede di trasmissione delle Cu, entro il 7 marzo, a compilare il quadro CT, per comunicare il nuovo indirizzo telematico non essendo più possibile avvalersi del modello Cso.

Fonte “Il sole 24 ore”

Interessi passivi, le modifiche sulla deduzione portano nuove penalizzazioni alle imprese

Modifiche a pioggia dal decreto di recepimento della direttiva antielusione, ma senza lo stravolgimento delle regole interne che erano in gran parte già allineate con i principi comunitari. Il Dlgs 142/2018 interviene su molte disposizioni del Tuir, ma non tocca la norma generale anti-abuso e neppure i principi base del sistema.

Fiscalità di vantaggio
Un’ampia area di modifiche ha riguardato le disposizioni sui paesi a fiscalità privilegiata e le relative ricadute in termini di imposizione di dividendi, capital gain e Cfc. Si tratta dell’ennesima riscrittura dei criteri di selezione dei paradisi fiscali, dopo l’abbandono delle «black list» sostituite appena tre anni fa da una analisi fai da te da parte dei contribuenti. Dal 2019, si cambia ancora per passare ad un doppio binario: test della tassazione effettiva per le partecipazioni di controllo e verifica della aliquota nominale per quelle sotto soglia, auspicando che le Entrate forniscano presto agli operatori istruzioni complete e, laddove possibile, modalità semplificate per svolgere i confronti richiesti dalla legge.

Gli interessi passivi
L’altro intervento correttivo si è focalizzato sulla disciplina degli interessi passivi. Il nostro Rol, in vigore da oltre 10 anni, era sostanzialmente adeguato ai criteri comunitari. Ciononostante, il legislatore ha inteso riscrivere l’intero articolo 96 del Tuir scardinando, tra l’altro, alcune regole poste a tutela dei contribuenti (il cui contenuto non pareva, peraltro, poter stimolare comportamenti “elusivi”) come l’esonero per gli interessi capitalizzati (da portare sotto Rol, con una forte penalizzazione per le imprese di costruzione) e quello per i mutui ipotecari delle immobiliari di gestione. Esonero, quest’ultimo, ripristinato a tempo di record dalla legge di Bilancio 2019. Si passerà inoltre dal semplice dato contabile a un parametro “fiscale”, cioè calcolato apportando alle voci del conto economico che rientrano nel Rol, le variazioni previste dal Tuir, con un effetto finale pressoché irrilevante, se non fosse per l’inutile complicazione nei calcoli dei contribuenti. Va invece nella giusta direzione di fornire regole chiare e certe, l’introduzione, dopo tanti anni di dubbi, di una definizione puntuale del concetto di intermediario finanziario ai fini fiscali.

Fonte “Il sole 24 ore”

E-fattura negli appalti Pa, poco spazio agli esoneri per il nuovo standard Ue

La pubblicazione del Dlgs 148/2018 (attuativo della direttiva Ue 2014/55) in «Gazzetta Ufficiale» segna il via allo standard europeo per la fattura elettronica negli appalti pubblici, a partire dal 18 aprile 2019, senza però interferire sulla disciplina Iva applicabile alle transazioni interessate, ma determinando ulteriori peculiarità al variegato sistema della fatturazione elettronica.

Le stazioni appaltanti dovranno pertanto ricevere ed elaborare fatture elettroniche conformi allo standard europeo per gli acquisti relativi a beni, servizi e lavori previsti nell’ambito del codice dei contratti pubblici. In particolare sono soggetti al rispetto dell’obbligo le stazioni appaltanti (articolo 1, comma 1, Dlgs 50/2016), nonché alle pubbliche amministrazioni (articolo 1, comma 2, della legge 196/2009). Quindi, in sostanza, non parrebbero sussistere esoneri soggettivi e dovranno adeguarsi tutti i soggetti tenuti all’osservanza delle procedure di acquisto stabilite dal Codice dei contratti pubblici secondo le relative definizioni di «amministrazioni aggiudicatrici», «autorità governative centrali», «amministrazioni aggiudicatrici sub-centrali», «organismi di diritto pubblico» ed «enti aggiudicatori». È tuttavia previsto il differimento di decorrenza dell’obbligo al 18 aprile 2020, per le amministrazioni aggiudicatrici sub-centrali, cioè le amministrazioni aggiudicatrici che non sono autorità governative centrali e non rientrano nelle altre categorie previste dal codice di cui sopra e menzionata dall’articolo 2 del Dlgs 148/2018.

Invece, dal punto di vista oggettivo, sono escluse dall’applicazione delle nuove regole le fatture elettroniche emesse in esecuzione di contratti pubblici relativi ai lavori, servizi e forniture nei settori della difesa e sicurezza, in attuazione della direttiva 2009/81/Ce.
Le fatture elettroniche “europee” dovranno risultare conformi a specifici requisiti:
•rispettare la Core invoice usage specification (Cius) per il contesto nazionale italiano (standard europeo En 16931-1:2017);
•integrarsi con la disciplina tecnica contenuta nel decreto 55/2013 in materia di fatturazione elettronica obbligatoria verso la Pa (articolo 1, comma 213, della legge 244/2007) e mantenere il flusso sulla base del Sistema d’interscambio (Sdi).

Entro il 3 marzo 2019, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, presso Agid è prevista la costituzione di un tavolo tecnico che si occupi dell’attuazione degli obblighi attraverso:
•l’aggiornamento delle regole tecniche esistenti nella disciplina della fatturaPa e delle modalità applicative e monitoraggio della corretta applicazione delle stesse;
•valutazioni degli impatti per la pubblica amministrazione e di quelli riflessi per gli operatori economici;
•raccordo e coinvolgimento, fin dalla fase di definizione, di tutte le iniziative legislative ed applicative in materia di fatturazione e appalti elettronici.

Le disposizioni in materia di fatturazione elettronica europea non potranno comunque costituire pregiudizio per l’applicazione delle disposizioni in materia di Iva adottate in attuazione della disciplina armonizzata vigente nella Ue.

Fonte “Il sole 24 ore”

Fondo di garanzia esteso ai professionisti

Nel forcing finale delle commissioni del Senato arriva il via libera a diverse norme che interessano le attività di imprese e professioni.
A partire dall’ammissione anche dei professionisti alla sezione speciale del Fondo di garanzia per le Pmi in crisi nella restituzione dei finanziamenti bancari a causa dei crediti con la Pa. Passa anche l’emendamento dei relatori che definisce gravemente inique le clausole che prevedono termini di pagamento superiori a 60 giorni nel campo delle transazioni commerciali tra privati, ma solo nel caso di rapporti tra grandi imprese e Pmi. Tempi più rapidi per la costituzione delle società di capitali (atto depositato dal notaio entro 10 giorni e non 20) e alleggerimento degli adempimenti per le startup e le Pmi innovative che potranno inserire le informazioni anagrafiche online su startup.registroimprese.it. Ritirato in extremis, invece, l’emendamento sulle Società di investimento semplice per il venture capital.
Digitale e banda ultralarga
Finirà il 31 dicembre 2019 l’era del Commissario straordinario per l’attuazione dell’Agenda digitale italiana e a quel punto le competenze e le linee di azioni faranno capo direttamente al presidente del consiglio o a un ministro delegato. La presidenza del consiglio si potrà avvalere di un team di esperti, anche esterni, con una spesa di 6 milioni di euro annui a partire dal 2020. Ok alle semplificazioni per la posa della banda ultralarga fissa. Sarà più facile avviare scavi a basso impatto ambientale nelle aree monitorate dalle sovrintendenze archeologiche.
Energia e altre norme
Via libera anche all’emendamento proposto da M5S per gli “sconti” a chi viola le regole sugli impianti rinnovabili. La decurtazione degli incentivi prevista in questi casi si riduce: fra il 10 e il 50%, mentre la norma in vigore prevede valori più alti: tra il 20 e l’80%. Uno sconto si applica anche per chi realizza impianti fotovoltaici di piccola taglia, tra 1 e 3 kw. Sempre sul fronte energia scattano, su proposta di Paolo Arrigoni (Lega), procedure abilitative semplificate per la messa in funzione di piccoli impianti geotermici. Tra gli altri emendamenti approvati, anche il divieto per tutti i nuovi docenti, di ogni ordine e grado, assunti con i prossimi concorsi, di cambiare la scuola a loro assegnata per i successivi 5 anni.
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Carmine Fotina

Rottamazione delle cartelle riaperta a chi non ha versato le rate 2018

La nuova rottamazione delle cartelle pronta ad accogliere anche chi non ha saldato entro il 7 dicembre scorso le somme dovute per il 2018. La riapertura dei termini è contenuta in un emendamento al Dl semplificazioni approvato dalle commissioni Lavori pubblici e Affari costituzionali del Senato. E non è la sola novità fiscale licenziata ieri. Tra queste, lo stop alla tassa sulla bontà con il ritorno dell’Ires agevolata al 12% per il non profit almeno fino a quando non saranno individuate «misure di favore», compatibili con le regole Ue, in linea con la riforma del terzo settore. Definito il perimetro di applicazione della web tax. C’è poi l’adeguamento alla direttiva Ue che semplifica l’Iva per l’e-commerce di prestazioni di servizi delle telecomunicazioni e teleradiodifussione offerti in forma digitale. Con lo stesso correttivo si prevede il rilascio della certificazione di regolarità fiscale per chi aderisce alla rottamazione delle cartelle. Mentre sul fronte contributivo viene concesso più tempo ai datori di lavoro per mettersi in regola e non essere sanzionati con il Durc: 24 mesi in luogo dei tre mesi attuali.
Riapertura rottamazione
Il correttivo consente l’accesso alla rottamazione-ter, introdotta dal Dl fiscale di fine anno, anche ai debitori che, dopo aver aderito alla rottamazione-bis (Dl 148/2017), non hanno versato entro il 7 dicembre 2018 le somme dovute in scadenza a luglio, settembre e ottobre 2018. Attenzione, però. I debitori che vorranno salire sul treno della nuova definizione agevolata avranno tre anni per versare a rate gli importi dovuti e non cinque come prevede la rottamazione ter. Dovranno, quindi, concludere i pagamenti entro il 30 novembre 2021, anziché entro il novembre 2023.
Saldo e stralcio
Modificato anche il «saldo e stralcio», la definizione agevolata delle cartelle per chi è in difficoltà economica con un Isee fino a 20mila euro. Si precisa che le persone giuridiche, in quanto escluse da questa tipologia di sanatoria, non possono beneficiare del transito automatico dalla rottamazione-ter allo stesso «saldo e stralcio». Al contrario potranno transitare automaticamente nella rottamazione-ter anche i soggetti che non hanno versato integralmente, entro il 7 dicembre 2018, le somme dovute per la rottamazione bis, a condizione che versino entro il 30 novembre 2019 il 30% del totale dovuto e completino il pagamento entro il 30 novembre 2021.
Web tax
Con un altro emendamento approvato ieri dalle Commissioni si chiarisce che non si considerano servizi digitali, e quindi sono esonerati dall’applicazione della nuova digital tax introdotta dalla legge di Bilancio, la messa a disposizione di un’interfaccia digitale il cui scopo principale è quello di fornire agli utenti dell’interfaccia contenuti digitali, servizi di comunicazione o servizi di pagamento. In questo modo, ad esempio, non rientrano tra le prestazioni oggetto di prelievo quelli forniti dalle imprese di telefonia, i servizi di pagamento digitali (Pay pal),il marketplace dei software, borsa italiana e borsa elettrica. Viene escluso anche lo svolgimento da parte di una sede di negoziazione o di un internalizzatore sistematico delle attività e dei servizi di investimento. Non sconteranno la web tax anche le attività e i servizi di investimento e i servizi di ausilio alla concessione di prestiti da parte di un soggetto che fornisce servizi di crowdfunding autorizzato.
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Marco Mobili

Flat tax per gli autonomi, sei motivi di contrasto con i principi costituzionali

La nuova flat tax per gli autonomi è conforme alla costituzione? Un tentativo di dare una risposta richiede alcune riflessioni sui principi della Carta:

1) il comma 2 dell’articolo 53 recita che «il sistema tributario è informato a criteri di progressività». La tassa prevista dalla legge di Bilancio 2019 prevede una sola aliquota al 15% fino a 65mila euro di ricavi, che si traduce in un tetto di poco inferiore ai 50mila euro, classe di reddito nel quale rientra il 95% della totalità dei contribuenti e l’80% dei titolari di partita Iva: il reddito di 500 euro e quello di 50mila sconterà la stessa incidenza impositiva;

2) un professionista con compensi annui di circa 64 mila euro aderente alla flat tax pagherà 5.309 euro di imposte in meno rispetto al titolare di partita Iva in tassazione ordinaria (violazione principi capacità contributiva e uguaglianza, articoli 53 e 3);

3) il professionista in regime ordinario (ricavi 64mila euro) conseguirà un reddito disponibile (39.497 euro) inferiore di 2mila euro rispetto a un altro lavoratore autonomo in regime forfettario i cui incassi si fermano a 60mila euro (41.585 euro) (violazione principi progressività e capacità contributiva, articolo 53, commi 1 e 2);

4) l’imposta sostitutiva assorbe non solo l’Irpef, ma le addizionali locali e l’Irap, con la conseguenza di sollevare, a parità di capacità contributiva, una parte dei contribuenti dalla partecipazione alle fonti di finanziamento degli enti locali per i servizi erogati (violazione principi capacità contributiva e uguaglianza, articoli 53 e 3);

5) nei settori di attività svolte da iscritti alla gestione artigiani e commercianti, i contribuenti forfettari, usufruendo dell’abbattimento del 35% dei contributi previdenziali obbligatori, beneficeranno di un irragionevole bonus (violazione principio di uguaglianza, articolo 3);

6) il regime forfettario prevede l’esonero dall’applicazione dell’Iva e dai relativi adempimenti; con la conseguenza di determinare, per tutti coloro che svolgono attività nei confronti di consumatori finali un ingiustificato vantaggio competitivo (violazione principio libera concorrenza, articolo 41).

Tutto quanto ciò premesso, cosa si può fare? Ogni contribuente, escluso da tale sistema, potrebbe ricalcolare il proprio reddito con la flat tax e presentare istanza di rimborso (articolo 38 Dpr 602/73) per le somme versate in eccedenza. Avverso il silenzio rifiuto all’istanza di restituzione, il contribuente si rivolgerà alla Commissione tributaria competente, sollevando la questione di illegittimità costituzionale.

Fonte “Il sole 24 ore”

Vendita tramite e-commerce senza invio dei corrispettivi telematici

Vendite da canale e-commerce senza corrispettivi telematici. Con la risposta a interpello 9/2019 pubblicata ieri 22 gennaio, l’agenzia delle Entrate, nel fornire indicazioni sulla gestione dei diversi canali di vendita e sulla relativa certificazione fiscale, ha chiarito come le vendite a distanza vere e proprie, cioè quelle realizzate senza la presenza fisica e simultanea di venditore e consumatore attraverso l’uso esclusivo di uno o più mezzi di comunicazione a distanza, sono esentate dagli obblighi di certificazione trattandosi di commercio elettronico indiretto. Per la cessione dei propri prodotti l’interpellante, utilizzando molteplici canali di vendita, era interessato infatti a conoscerne le corrette modalità di certificazione. In particolare, per le vendite dirette al pubblico viene rilasciata fattura ovvero corrispettivi telematici dato l’esercizio dell’opzione per la trasmissione telematica degli stessi di cui al decreto legislativo n. 127 del 2015.

L’agenzia delle Entrate, riconfermando quanto indicato da ultimo con la risposta ad interpello 118/2018, ricorda come dal 1° gennaio 2019 le uniche modalità di certificazione dei corrispettivi sono quelle di rilascio di scontrini o ricevute fiscali ovvero la trasmissione dei corrispettivi giornalieri utilizzando i registratori telematici. Si possono a tal fine utilizzare anche Server-RT collocati per ciascun punto vendita in un unico idoneo locale centralizzato. Vengono invece escluse, con conseguente applicabilità di sanzioni, modalità alternative di comunicazione dei dati giornalieri, come quelle realizzate in base alla legge n. 311 del 2004 per la grande distribuzione organizzata, oppure con salvataggio dei dati in forme tali da garantirne l’immodificabilità come nel caso di utilizzo di sistemi di conservazione elettronica dei dati.

Al riguardo il contribuente istante risulta essere un soggetto che ha optato, a suo tempo, per la trasmissione telematica dei corrispettivi secondo le modalità previste per la grande distribuzione organizzata dalla legge n. 311 del 2004. Tale opzione è venuta meno lo scorso 31 dicembre 2018 ma, in sede di conversione in legge (atto Senato 989) del Dl semplificazioni 135/2018 è stato presentato un emendamento volto a prorogare l’opzione esercitata per la Gdo sino al 31 dicembre 2019 sanando così le posizioni di quanti non hanno rifiscalizzato i punti vendita con i registratori di cassa o non hanno esercitato l’opzione per la trasmissione telematica dei corrispettivi giornalieri.

Inoltre trattandosi del secondo interpello rilasciato sul medesimo a distanza di un mese, il che dimostra l’interesse generale alla specifica questione, e alla luce anche dell’imminente avvio dell’obbligo di trasmissione telematica dei corrispettivi previsto da luglio 2019 per i contribuenti con volume d’affari oltre i 400mila euro e dal 1 gennaio 2002 per tutti, sarebbe opportuno prevedere una moratoria sanzionatoria analogamente a quanto già a regime per l’obbligo di fatturazione elettronica.

Infine, le altre modalità di vendita utilizzate dall’interpellante sono quelle tramite vending machine, non presidiate da un operatore, o mediante altre apparecchiature funzionanti senza presidio fisso e con consegna realizzata presso punti vendita non di proprietà dell’istante: in entrambi i casi, per l’agenzia delle Entrate si è in presenza di installazioni che vanno censite come vending machine in quanto ritenute comunque distributori automatici.

Fonte (Il sole 24 ore)