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Imposte da versare anche con il bilancio in bozza

Un tema delicato attiene al rapporto tra versamento delle imposte e approvazione del bilancio: aspetto che va risolto alla luce del combinato disposto delle norme civilistiche e tributarie.
Sotto il primo profilo, il Codice civile dispone che l’assemblea ordinaria per le società di capitali debba essere convocata almeno una volta l’anno, per l’approvazione del bilancio di esercizio, entro il termine stabilito dallo statuto e comunque non superiore a 120 giorni dalla chiusura dell’esercizio sociale. È peraltro, ammessa la possibilità che – in presenza di determinate circostanze – il bilancio sia approvato entro 180 giorni (cosiddetto temine lungo).
In merito alle situazioni che consentono il ricorso al termine “lungo”, oltre alla necessità di predisporre il bilancio consolidato, la norma fa riferimento a particolari esigenze relative alla struttura e all’oggetto della società: la casistica ha fatto registrare una molteplicità di ipotesi, dalla presenza di sedi secondarie al compimento di operazioni straordinarie, dalla costituzione di patrimoni destinati a specifici affari (articoli 2447-bis e 2447-septies del Codice civile) alla necessità di adeguarsi a nuovi principi contabili (tale conclusione appare confermata da un documento del Cndcec del 16 gennaio 2017).
Come insegna la Cassazione (sentenza 11452/2014), anche ai fini tributari – cioè per verificare se la dichiarazione dei redditi è stata presentata tempestivamente – l’agenzia è chiamata a valutare la ricorrenza nel caso concreto dei motivi che hanno suggerito il differimento del termine di approvazione del bilancio.
Tralasciando gli aspetti meramente civilistici connessi alle vicende descritte, è opportuno descrivere invece gli effetti dei citati termini sugli obblighi tributari, in primis sulla liquidazione delle imposte. Al riguardo rileva innanzitutto l’articolo 17 del Dpr n. 435/2001, in base al quale (nel testo modificato dall’articolo 7-quater, comma 19, del Dl n. 193/2016, con effetto dal 1° gennaio 2017) le società di capitali sono tenute a effettuare il versamento dell’Ires dovuta a saldo in base alla dichiarazione dei redditi, anche nel caso in cui il bilancio non sia stato approvato nei termini previsti dalla legge civilistica. In particolare, qualora il bilancio non sia approvato nel termine stabilito, il versamento dei tributi dev’essere comunque effettuato entro l’ultimo giorno del mese successivo a quello di scadenza del termine stesso (salvo le rateizzazioni di rito).
Ciò significa che l’omessa approvazione del bilancio non esenta né dall’obbligo di versamento delle imposte, né dalla presentazione della dichiarazione dei redditi. A prescindere dalle cause che hanno condotto alla mancata approvazione, gli amministratori delle società devono comunque adoperarsi per la predisposizione e presentazione della dichiarazione dei redditi sulla base del progetto di bilancio da loro predisposto. Perciò, in assenza di approvazione del bilancio (per le società di capitali) e del rendiconto (per le società di persone), scatta comunque l’obbligo di versamento delle imposte.
In caso contrario, si applicano le sanzioni di cui all’articolo 1, comma 1, del Dlgs n. 471/97. A ciò si aggiungano i riflessi da un lato sotto il profilo della responsabilità individuale degli amministratori, e dall’altro per quanto attiene agli adempimenti inerenti al deposito degli atti presso il Registro delle imprese. Infatti alcuni uffici del Registro ammettono il deposito anche di bilanci non approvati. Ad ogni buon conto, è indispensabile che nel libro delle decisioni dell’organo amministrativo nonché negli atti societari sia “certificato” il contenuto della bozza di bilancio in modo tale da avere un “solido” riferimento oggettivo del contenuto della bozza di bilancio.

Fonte “Il sole 24 ore”

Rinuncia al finanziamento al riparo dal prelievo al 3%

Rinunce ai finanziamenti da parte dei soci enunciate in atti di ricapitalizzazione sempre più nel mirino del Fisco. Di recente molti soci che hanno deliberato la riduzione del capitale sociale per perdite, contestualmente ricostituito attraverso la rinuncia a precedenti finanziamenti erogati alla società, si vedono recapitare avvisi di liquidazione di imposta di registro proporzionale nella misura del 3% degli importi finanziati, oltre ai relativi interessi.

In genere, la delibera di riduzione per perdite e di ricapitalizzazione mediante rinuncia a finanziamenti viene assoggettata a imposta di registro in misura fissa, in quanto atto assimilabile a un aumento del capitale sociale mediante conferimento di denaro. Vediamo, quindi, di capire su quali ragioni l’ufficio fonda la sua pretesa e quali sono le possibili valutazioni da fare per sostenere la difesa o per prevenire l’accertamento.

L’accertamento
Sull delibera con la quale il capitale sociale viene ridotto per perdite, e contestualmente ricostituito mediante rinuncia ai crediti vantati dai soci verso la società, si applica l’imposta di registro in misura fissa. Attenzione, però: in forza dell’articolo 22 del Dpr 131/1986 , al momento della sua registrazione l’ufficio verifica, se nella stessa delibera, vengono richiamati altri atti (non registrati), quali ad esempio finanziamenti dei soci alla stessa società. Infatti, gli atti enunciati in altri atti sottoposti a registrazione devono essere, a loro volta, assoggettati a imposta di registro.

Dunque, se l’atto di finanziamento soci enunciato nella delibera di ricapitalizzazione non è già stato registrato, l’ufficio procede con la notifica ai soci e alla società (in qualità di coobbligata) di un avviso di liquidazione, finalizzato ad assoggettare il medesimo atto a imposta di registro nella misura del 3%, a norma dell’articolo 9 della Tariffa, parte I, allegata al Dpr 131/1986.

La possibile difesa
In questi casi è essenziale verificare se dalla delibera societaria presentata per la registrazione possano effettivamente desumersi gli elementi fondamentali del finanziamento, quali, ad esempio, l’ammontare della somma finanziata, le parti coinvolte, e così via. Nel caso in cui tali elementi non dovessero essere evidenti, è opportuno impugnare l’atto, chiedendo al giudice di merito di dichiararne l’illegittimità per violazione e falsa applicazione dell’articolo 22.

Affinché possa trovare applicazione l’imposta di registro anche sull’atto enunciato, è necessario che:
 l’atto enunciante consenta di individuare gli elementi essenziali dell’atto enunciato;
 l’atto enunciato sia posto in essere tra le stesse parti intervenute nell’atto enunciante e che non sia stato registrato.

Le scelte preventive
Al fine di attenuare il rischio crescente di contestazione, sarebbe opportuno valutare la possibilità di strutturare le operazioni di ricapitalizzazione non ancora effettuate in modo diverso.

Si potrebbe, ad esempio, decidere di operare il rimborso dei finanziamenti ai soci prima dell’adozione della delibera di aumento del capitale. In questo modo, poi, i soci possono operare il successivo conferimento in società del denaro rimborsato. È ovvio, tuttavia, che in ipotesi di crisi societaria tale soluzione potrebbe apparire difficilmente praticabile, dal momento che la società potrebbe non disporre del denaro da rimborsare ai soci.

In alternativa, si potrebbe procedere con uno “spacchettamento” degli atti: in particolare, dopo aver deliberato la sola ricapitalizzazione, l’aumento dovrebbe essere sottoscritto dai soci mediante la rinuncia al precedente finanziamento. In tal modo, si potrebbe evitare di presentare alla registrazione una delibera assembleare che effettui anche la rinuncia e, quindi, enunci il finanziamento. Anche questa scelta, tuttavia, non rende immune da rischi: alla delibera di ripianamento delle perdite andrà allegata la situazione patrimoniale della società, dalla quale potrebbe indirettamente desumersi la presenza del finanziamento.

Infine, laddove non vi sia opposizione dei soci, potrebbe essere opportuno contabilizzare già all’origine i finanziamenti dei soci come «conferimenti in conto capitale», in modo che essi non vadano a confluire nelle poste passive di bilancio, ma compaiano tra le poste di patrimonio netto.

Nelle società tra professionisti i soci sono solo persone fisiche

La presenza di Stp o Sta nel capitale elude il divieto di partecipazioni multiple
Nulla osta alla presenza di soci di Stp in una associazione professionale
A uno studio professionale associato (o associazione professionale) possono partecipare solo professionisti persone fisiche: non una società tra professionisti (Stp) né un’altra associazione professionale. Lo si afferma in un parere espresso dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili (prot. PO 169/2018 del 18 marzo 2019).
L’argomentazione del Cndcec è argomentata inizia rilevando che chi è socio di una Stp non può essere socio di altra Stp: lo vieta l’articolo 10, comma 6, legge 183/2011, il quale prescrive che «la partecipazione ad una società è incompatibile con la partecipazione ad altra società tra professionisti». Da ciò discenderebbero le seguenti considerazioni:
la norma contiene espressioni di carattere generale, non riferite cioè ai soci professionisti della Stp: quindi, essa dovrebbe riferire il divieto in essa contenuto sia ai soci professionisti che ai soci non professionisti;
se è vero che un socio di Stp non può partecipare ad altra Stp, allora, se una Stp fosse partecipata da altra Stp, i soci della Stp partecipante sarebbero “indirettamente” soci della Stp partecipata, con ciò di fatto eludendosi il divieto;
il socio di Stp può svolgere la professione anche in forma individuale (in quanto nessuna norma lo vieta);
il socio di Stp può partecipare a una associazione professionale (anche in questo caso perché non esistono norme che lo impediscano).
Ancora, la normativa applicabile alla professione forense (l’articolo 4, comma 2, della legge 247/2012 e il Dm 23/2016) espressamente consente, con espressioni evidentemente generalizzabili pure con riferimento ad altre professioni:
la possibilità di costituire studi professionali multidisciplinari composti prevalentemente da avvocati, in associazione con professionisti appartenenti ad altri Ordini professionali, quali individuati dal predetto decreto 23/2016;
la possibilità che un avvocato si associ in uno studio associato tra professionisti esercenti una professione diversa da quella forense.
Da tutto questo articolato panorama normativo discende, secondo il Cndcec (sia pure «prudenzialmente»), che il sistema non tollera altro che le associazioni professionali composte da professionisti persone fisiche e che pertanto non è ammesso che a una associazione professionale prenda parte una Stp o un’altra associazione professionale.
Altra recente notizia in materia è che l’Ordine degli avvocati di Milano (parere 24/19 del 12 marzo 2019) ha affermato che un avvocato che non sia socio di una Stp (la quale, a sua volta, non abbia la professione forense nel suo oggetto sociale) non può praticare l’avvocatura nell’ambito della società; e, ove vi assuma la carica di amministratore, non può ricevere deleghe gestionali. Ovviamente, una Stp senza l’attività forense nell’oggetto sociale e senza soci avvocati, ma con un avvocato nell’organo amministrativo, non può essere iscritta all’Ordine degli avvocati.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Fonte “Il sole 24 ore”
Angelo Busani

La riforma della crisi d’impresa riscrive il ruolo dei soci di Srl

La governance delle Srl dopo il nuovo Codice della crisi d’impresa. L’articolo 377 del Dlgs 14/2019 innova il primo comma dell’articolo 2475 del Codice civile (in tema di amministrazione della Srl), il quale, dal 16 marzo 2019 verrà a sancire che «la gestione dell’impresa (…) spetta esclusivamente agli amministratori». In realtà, saliente caratteristica della Srl (per la quale si differenzia dalla Spa) è la possibilità di affidare ai soci la gestione della società, o nella sua interezza o in singole sue esplicazioni. I riferimenti normativi sono, ad esempio:

a) l’articolo 2479, comma 1, del Codice civile (che il Dlgs 14/2019 non innova), per il quale «i soci decidono sulle materie riservate alla loro competenza dall’atto costitutivo, nonché sugli argomenti che uno o più amministratori o tanti soci che rappresentano almeno un terzo del capitale sociale sottopongono alla loro approvazione»;

b) l’articolo 2468, comma 3, del Codice civile (neanche questo innovato), il quale afferma «la possibilità che l’atto costitutivo preveda l’attribuzione a singoli soci di particolari diritti riguardanti l’amministrazione della società»;

c) l’articolo 2476, comma 7, del Codice civile (anch’esso non innovato), il quale afferma la responsabilità solidale (con gli amministratori) dei «soci che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi».

C’è da chiedersi, dunque, se il Codice della crisi d’impresa spazzi via questo panorama normativo e il principio in base al quale la riforma del 2003 ha riconosciuto la stretta attinenza dei soci della Srl con la gestione della società, stante il caratteristico rilievo che la figura del socio di Srl (a differenza di quello di Spa) assume nella vita sociale e nelle decisioni che essa adotta.

Se a questa domanda seguisse una risposta positiva, essa comporterebbe non solo la necessità di modificare un elevatissimo numero di statuti di Srl messi fuori-legge dal Dlgs 14/2019, ma anche una inconcepibile entrata a gamba tesa nella governance di tantissime Srl, ove i rapporti tra i soci sono regolamentati in base a un delicato equilibrio di poteri realizzato proprio conferendo a taluno di essi il diritto-dovere di gestire la società.

In altre parole, se il nuovo primo comma dell’articolo 2475 del Codice civile fosse da intendersi come incompatibile con i «diritti particolari» spettanti ai soci in tema di amministrazione della società, questi ultimi dovrebbero d’improvviso reputarsi espunti dagli statuti ove sono attribuiti e, con ciò, inesorabilmente cancellati. L’inammissibilità di questa conseguenza sospinge a dare risposta negativa alla questione che il Codice della crisi d’impresa pone, anche perché:

non sembra possibile che il legislatore abbia voluto effettuare, con il metodo dell’abrogazione tacita, una così radicale riforma di una caratteristica saliente del tipo Srl; vi è invece da credere che, se veramente il legislatore avesse voluto disporre una svolta così epocale, l’avrebbe prevista espressamente;

nemmeno pare possibile ritenere che, nell’innovare il primo comma dell’articolo 2475 del Codice civile, un legislatore così “tecnico” come quello della crisi d’impresa sia stato talmente maldestro da dimenticarsi norme “centrali” come gli articoli 2479, 2468 e 2476 del Codice civile.

Allora, la tematica in esame pare potersi comporre nel seguente modo: da un lato, si potrebbe ritenere che restino in vigore tutte le norme, attualmente vigenti (e non abrogate o modificate dalla riforma) che consentono di attribuire poteri gestori ai soci di Srl; d’altro lato, il Codice della crisi d’impresa è da intendere (il principio è espresso nel nuovo articolo 2086 del Codice civile) che tutti coloro i quali concorrano a formare le decisioni gestorie della Srl da ciò derivino il dovere di prestare la loro opera al fine di «istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale».

Fonte “Il sole 24 ore”

La detrazione anticipata non vale per fatture 2018 ricevute nel 2019

Se le operazioni si sono svolte tutte nel 2018 la detrazione è al 16 gennaio
Per le fatture 2018 registrate nel 2019 diritto da esercitare nella dichiarazione Iva
Anticipata la detrazione Iva per le operazioni infrannuali anche per le fatture ricevute nei primi 15 giorni del mese successivo all’effettuazione dell’operazione. Regola, però, inapplicabile agli acquisti a cavallo d’anno. Il legislatore, dopo oltre un anno dalla modifica del regime della detrazione Iva (Dl 50/2017) e dopo le discussioni scaturite dall’intervento interpretativo sulla circolare 1/E/2018 con il Dl 119/2018, torna sull’argomento correggendo – in parte – il contrasto tra la circolare e il Dpr 100/1998.
In effetti, in base alla circolare 1/E/2018 per le fatture ricevute nei primi giorni del mese successivo a quello di effettuazione non più era più possibile detrarre l’Iva nel mese di competenza pur avendo ricevuto e registrato il documento entro il termine per la liquidazione periodica, posticipando l’esercizio del diritto al periodo successivo e creando un disallineamento tra esigibilità e detraibilità dell’imposta.
Il Dl 119/2018 modifica l’articolo 1, comma 1 del Dpr 100/1998 stabilendo ora che entro il giorno 16 di ogni mese può essere esercitato il diritto alla detrazione relativo anche ai documenti di acquisto ricevuti e annotati entro il 15 del mese successivo a quello in cui è stata effettuata l’operazione. Pertanto, a differenza di quanto accaduto fino a ottobre, con la modifica l’Iva su una fattura relativa, per esempio, a un’operazione effettuata a ottobre 2018 (datata 31 ottobre 2018) e ricevuta il 5 novembre poteva essere inclusa nella liquidazione periodica del mese di ottobre e non più in novembre.
Il legislatore si è tuttavia affrettato a specificare, in contrasto con il funzionamento dell’imposta, che tale disciplina non si applica alle operazioni effettuate nell’anno precedente, vale a dire al caso di una fattura relativa a un’operazione effettuata a dicembre 2018 (data fattura 31/12/2018) ricevuta il 5 gennaio 2019, per la quale non è possibile detrarre l’imposta nella liquidazione del 16 gennaio.
Come districarsi quindi dal complesso intreccio normativo all’approssimarsi di fine anno? Sono quattro i casi in cui le imprese (negli esempi considereremo solo i contribuenti con liquidazione mensile, ma le stesse considerazioni possono essere trasposte ai contribuenti trimestrali) potranno trovarsi: 1) fatture per operazioni effettuate nel 2018 ricevute e registrate entro la fine dell’anno; 2) fatture per operazioni effettuate a dicembre 2018 ricevute nel 2019; 3) fatture per operazioni effettuate a dicembre 2018 ricevute nello stesso mese, ma registrate nel 2019; (4) fatture per operazioni effettuate nel 2019.
Nel primo caso, il diritto alla detrazione potrà essere esercitato nella liquidazione di dicembre 2018 (16 gennaio 2019).
Nel secondo caso, si potrà esercitare il diritto alla detrazione dell’imposta solo nel 2019 anche se le fatture sono state ricevute e registrate entro il 15 gennaio, attesa l’esclusione prevista dalla nuova formulazione dell’articolo 1, comma 1, del Dpr 100/1998. Tale nuova impostazione, peraltro, rischia di avere effetti anche sulle liquidazioni Iva dei mesi successivi, in quanto una fattura 2018 ricevuta e registrata ad esempio il 5 marzo 2019 non potrà concorrere a formare la liquidazione Iva di febbraio 2019, bensì il diritto alla detrazione potrà essere esercitato solo con la liquidazione di marzo.
Nel terzo caso il diritto alla detrazione potrà essere esercitato al più tardi nella dichiarazione annuale Iva relativa al 2018 e si renderà necessaria la predisposizione di un registro Iva sezionale che permetta di escludere queste operazioni dalla liquidazione Iva del mese di registrazione che inevitabilmente sarà il 2019.
Infine, per le fatture relative a operazioni effettuate nel 2019, in un determinato mese si potrà esercitare il diritto alla detrazione relativo anche ai documenti di acquisto ricevuti e annotati entro il 15 del mese successivo a quello in cui è stata effettuata l’operazione. La complessità di gestione operativa è facilmente intuibile perché impone ai contribuenti di effettuare mensilmente un cherry picking delle fatture da inserire o da escludere dalla liquidazione Iva.
© RIPRODUZIONE RISERVATA “Il sole 24 ore”

Appalti, niente più deroghe alla responsabilità solidale del committente

di Aldo Bottini

Le eventuali deroghe al regime della responsabilità solidale del committente, contenute nei contratti collettivi stipulati prima del 17 marzo 2017 e negli appalti collegati, non valgono dopo tale data.

Dal marzo dello scorso anno la responsabilità solidale del committente negli appalti non è più derogabile dalla contrattazione collettiva. Ma allora come vanno interpretati i contratti collettivi che ancora oggi prevedono questa deroga? La risposta è stata fornita dal ministero del Lavoro con l’interpello 5/2018, mediante il quale si fornisce un chiarimento di non poco conto sotto il profilo applicativo riguardo al secondo comma dell’articolo 29 del Dlgs 276/2003, così come modificato dall’articolo 2 del decreto legge 25/2017.

La modifica normativa, adottata sotto la pressione del referendum abrogativo proposto dalla Cgil, ha soppresso la possibilità per i contratti collettivi nazionali sottoscritti dalle associazioni comparativamente più rappresentative di escludere la responsabilità solidale del committente con l’appaltatore, entro il limite dei due anni dalla cessazione dell’appalto, per la corresponsione ai lavoratori dei trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto.

Sino all’entrata in vigore della sopra richiamata modifica dell’articolo 29, qualora il contratto collettivo avesse individuato metodi e procedure di controllo e di verifica della regolarità complessiva degli appalti, era possibile escludere la responsabilità solidale del committente. Oggi non è più così.

È stato quindi chiesto al ministero del Lavoro di chiarire come la soppressione della possibilità per i contratti collettivi di derogare al regime di solidarietà negli appalti possa combinarsi con il fatto che in alcuni contratti siano tuttora previste procedure di verifica della regolarità degli appalti sulla base della disciplina previgente. E ciò, anche alla luce del principio di irretroattività della legge previsto dall’articolo 11 delle disposizioni preliminari del Codice civile.

Il ministero, dopo aver rilevato che per i contratti collettivi di nuova stipulazione è evidentemente esclusa la possibilità di inserire modalità di verifica degli appalti che valgano a derogare al regime della solidarietà, con riguardo ai contratti collettivi in vigore al 17 marzo 2017 ha precisato che eventuali disposizioni derogatorie non possono trovare applicazione ai contratti di appalto sottoscritti successivamente a tale data.

In ogni caso, nessuna deroga al regime di solidarietà può trovare applicazione nei confronti di situazioni e/o fatti che al momento dell’entrata in vigore del decreto legge 25/2017 non erano sorte e non risultavano perfezionate nei loro elementi né nella loro esecuzione. È questo il caso delle obbligazioni retributive derivanti dalla prestazione del lavoratore impiegato nell’appalto successivamente al 17 marzo 2017.

Quindi, se anche il contratto di appalto fosse stato stipulato prima del 17 marzo 2017, per i crediti maturati dal lavoratore nel periodo successivo a tale data non si può comunque derogare al regime della responsabilità solidale eventualmente prevista da disposizioni contrattual-collettive anteriori al 17 marzo 2017 e ancora vigenti.

Tale deroga vale ancora per i crediti maturati nel corso del periodo precedente al 17 marzo 2017, sempre che ricorrano le condizioni previste.

Fonte “Il sole 24 ore”

La fattura differita non sposta il momento di esigibilità dell’Iva

di Giuseppe Carucci e Barbara Zanardi

Per chi eroga servizi nei confronti di clienti abituali può risultare operativamente più efficiente emettere una sola fattura differita mensile in luogo di tante fatture immediate quante sono le prestazioni effettuate. È il caso, ad esempio, delle imprese che svolgono attività di car sharing, di noleggio auto con conducente o dei soggetti che effettuano attività di intermediazione. Tale facoltà è prevista dall’articolo 21, comma 4, terzo periodo, lettera a), del Dpr 633/1972.

La facoltà
Per comprendere appieno i benefici di tale facoltà, giova ricordare che le prestazioni di servizi si considerano effettuate, ai fini dell’Iva, all’atto del pagamento del corrispettivo (articolo 6, comma 3, del Dpr 633/1972) e, quindi, in tale momento l’imposta diviene esigibile e scatta il conseguente obbligo di fatturazione. Tuttavia, in alcuni casi, in deroga a tale previsione, è possibile emettere nei confronti del medesimo cliente una fattura riepilogativa in un momento successivo a quello di effettuazione delle operazioni.

In particolare, l’articolo 21 prevede che, in luogo delle singole fatture immediate, si possa emettere, entro il giorno 15 del mese successivo a quello di effettuazione delle operazioni, una sola fattura cumulativa, recante il dettaglio delle operazioni poste in essere nello stesso mese solare nei confronti del medesimo soggetto.

Si consideri, ad esempio, che un’impresa di car sharing abbia erogato e incassato nel mese di maggio dieci prestazioni nei confronti del medesimo cliente. In base alla regola generale, il prestatore dovrebbe emettere dieci fatture immediate al momento dei relativi incassi. Se, invece, l’impresa si avvale della facoltà in esame, in luogo di dieci fatture immediate, l’operatore può emettere e registrare entro il 15 giugno una fattura riepilogativa recante il dettaglio delle operazioni poste in essere a maggio. Inoltre è possibile emettere la fattura differita anche in caso di effettuazione di una sola operazione.

Le condizioni
Tuttavia, per poter ricorrere alla fattura differita e riepilogativa, è necessario che le prestazioni di servizi siano individuabili attraverso «idonea documentazione». La norma, però, non specifica né vincola il tipo di «documentazione» che può considerarsi «idonea» a tale scopo. Al riguardo, secondo quanto chiarito dalla circolare 18/E/2014, il contribuente, al fine di rendere individuabile la prestazione di servizio, può utilizzare la documentazione commerciale prodotta e conservata in base alla peculiarità dell’attività svolta, purché dalla stessa sia possibile individuare con certezza la prestazione eseguita, la data di effettuazione e le parti contraenti. Può trattarsi, ad esempio, del documento attestante l’avvenuto incasso del corrispettivo, del contratto o della lettera d’incarico.

Liquidazione Iva
Tale disciplina rappresenta soltanto una semplificazione operativa, in quanto il differimento concerne il solo termine di fatturazione, e non anche il momento di esigibilità dell’imposta, che continua a coincidere con il momento di effettuazione delle operazioni.
Tornando al precedente esempio, pertanto, l’Iva a debito derivante dalle fatture emesse in modalità differita e riepilogativa è computata nella liquidazione di maggio (e non in quella di giugno in cui la fattura è stata emessa e registrata).

Fonte “Il sole 24 ore”

Vecchi assegni irregolari: vie d’uscita da rivedere

di Nicola Forte

Sotto tiro i “vecchi” assegni senza clausola di non trasferibilità di importo pari o superiore a 1.000 euro: le prime contestazioni del Mef sono già arrivate nelle scorse settimane ed è probabile che aumenteranno. Chi li ha emessi ha violato l’articolo 49 del Dlgs 231/2007 e ora corre il rischio di subire una sanzione di importo variabile tra 3.000 e 50.000 euro. Anche chi ha disatteso la previsione di legge per mera disattenzione, dovrà valutare le alternative offerte dalla stessa normativa per ridurre al minimo la sanzione da versare. Nei casi migliori potrebbero anche non dovere niente al Mef.

L’origine del problema

L’obbligo di emissione degli assegni con l’indicazione della clausola di non trasferibilità è in vigore da oltre 10 anni risiede, in particolare, nel citato articolo 49 del Dlgs 231/2007. Il limite attuale di 1.000 euro è stato previsto dal Dl 201/2011.

Un assegno trasferibile, quindi privo di tale clausola, è nella sostanza assimilabile a un titolo al portatore. Può essere pagato a vista a colui che lo esibisce per l’incasso, è equiparabile al denaro contante e quindi deve essere sottoposto a limitazioni con finalità di prevenzione e contrasto del riciclaggio.

Le banche dal 30 aprile del 2008 rilasciano i carnet di assegni con l’indicazione prestampata della dicitura «non trasferibile». Di conseguenza, i titoli non possono circolare liberamente mediante girata e potranno soltanto essere presentati in banca per l’incasso dal beneficiario.

Le possibili violazioni

In primo luogo, potrebbe essere stato utilizzato un assegno tratto da un “vecchio” carnet rilasciato dalla banca prima del 30 aprile del 2008. In questa ipotesi è certo che la banca non avrà apposto sul titolo la dicitura «non trasferibile». Pertanto, se anche la clausola non è stata apposta dal traente per mera disattenzione e l’assegno è stato emesso per un importo pari o superiore a 1.000 euro, la violazione è sicuramente commessa.

Il limite attualmente in vigore è però variato nel tempo. In passato era pari a 12.500 euro, poi diminuito, in seguito aumentato per poi diminuire ancora fino a raggiungere la soglia attuale di 1.000 euro. È dunque possibile che sia conservato nel cassetto un vecchio carnet di assegni con l’indicazione dell’obbligo di apporre la clausola «non trasferibile» per i titoli emessi di importo pari o superiore a 12.500 euro.

In questo caso, l’avvertenza rischia ancor di più di trarre in inganno il traente perché si deve fare riferimento al limite in vigore al momento di emissione dell’assegno e non al momento del rilascio del carnet. Il problema, comunque, riguarda solo l’utilizzo dei vecchi assegni. Da molti anni, infatti, i correntisti devono richiedere espressamente alla banca il rilascio di carnet di assegni “liberi”, cioè senza l’indicazione della clausola. In questo caso è necessario pagare un’imposta di bollo pari a 1,50 euro per ogni assegno.

L’oblazione

La possibilità di avvalersi dell’oblazione è indicata nello stesso atto di contestazione. Dal 4 luglio 2017 le sanzioni sono state elevate tra un minimo di 3mila e un massimo di 50mila euro. Prima di allora la sanzione era variabile e commisurata all’importo dell’assegno emesso senza l’apposizione della clausola di non trasferibilità: tra l’1% e il 40% dell’importo pagato con l’assegno trasferibile, con un minimo di 3mila euro.

L’importo della sanzione minima era dunque equivalente a quella applicabile oggi, ma con effetti diversi sul calcolo dell’oblazione. L’oblazione consente di pagare due volte il minimo della sanzione prevista. Tuttavia in passato si riteneva che il computo dell’oblazione fosse pari al 2% dell’importo dell’assegno. La base di partenza era comunque rappresentata dall’importo del titolo e non dal minimo di 3mila euro: ciò in quanto la sanzione – tra l’1% e il 40% – doveva essere comunque parametrata all’importo. Attualmente, invece, la sanzione è completamente scollegata dall’importo dell’assegno e quindi l’oblazione va commisurata all’importo della penalità minima di 3mila euro.

Si consideri ad esempio il caso in cui sia stato emesso un assegno libero per 4mila euro. La sanzione minima, secondo le vecchie regole, era comunque pari a 3mila euro, ma il calcolo dell’oblazione non teneva conto del minimo ed era calcolata in misura pari a 2% dell’assegno: quindi nell’esempio sarebbe risultata pari a 80 euro. Ora, invece, l’importo è di 6mila euro (due volte il minimo) se si vuole evitare il rischio di una sanzione molto elevata, fino ai 50mila euro. L’oblazione, quindi, risulta oggi poco conveniente.

Fonte “Il sole 24 ore”

La dichiarazione «ultratardiva» può evitare il reato tributario

La dichiarazione dei redditi in scadenza il 31 ottobre, non inviata e ravveduta entro il 29 gennaio, è considerata irrimediabilmente omessa, non è tecnicamente oggetto di ravvedimento operoso e consente l’accertamento induttivo del Fisco (ex articolo 41, Dpr n. 600/1973), fondato su presunzioni anche non qualificate. Infatti, l’articolo 13 comma 1 lettera c) del Dlgs n. 472/97 ammette il ravvedimento operoso del mancato invio della dichiarazione dei redditi, a condizione che avvenga entro 90 giorni dal termine ultimo per detto invio e che sia versata la sanzione per la dichiarazione omessa ridotta a 1/10 del minimo.

Tuttavia, nonostante sia ormai spirato il termine entro il quale era sanabile la tardività della dichiarazione originaria se, già a partire da oggi, ci si accorge dell’omissione è utile velocemente attivarsi ed inviare comunque il modello dichiarativo che costituirà titolo per la riscossione, poiché la filosofia che ormai ammanta tutto il sistema assegna una rilevanza sempre più premiale all’utilizzo di rimedi volontari per emendare errori, con forme di resipiscenza che, sebbene non siano ravvedimento in senso proprio, attenuano le conseguenze dell’inadempimento omissivo.

Cosicché, sebbene “ultratardiva”, la presentazione della dichiarazione dimezza le sanzioni tributarie che, dal 120% al 240% delle imposte dovute, sono ridotte al 60% al 120% (articolo 1, comma 1 del Dlgs n. 471/97), se la dichiarazione è presentata entro il termine per l’invio di quella per l’anno successivo e, comunque, prima dell’inizio di un controllo fiscale o di natura penale.

Ma, a ben vedere, vi è molto di più. Infatti, una presentazione “ultratardiva” può rendere non punibile l’eventuale reato di omessa dichiarazione (articolo 5 del Dlgs n. 74/2000) e, se il contribuente versa anche le imposte che alle scadenze ordinarie avrebbe dovuto corrispondere con ravvedimento operoso, le sanzioni irrogabili per l’omissione dichiarativa saranno applicate in misura fissa e non più proporzionale.

Fonte “Il sole 24 ore”

In sostanza, se il contribuente omette la dichiarazione e ravvede il mancato versamento delle imposte risultanti dalla medesima, la sanzione per l’omessa dichiarazione dei redditi/Irap va da 250 a mille euro, come sostenuto nella circolare n. 54/2002, paragrafo 17.1, ove si afferma che tale sia la sanzione «qualora l’imposta accertata sia stata completamente versata dal contribuente» e che «per imposta dovuta si ritiene che debba intendersi la differenza tra l’imposta accertata e quella versata a qualsiasi titolo».

In definitiva, se la dichiarazione è omessa e le imposte non sono versate, la sanzione va dal 120% al 240% del tributo dovuto (sanzione dimezzabile con invio entro i termini dell’anno successivo), mentre se la dichiarazione è omessa ma, ante controlli, le imposte sono versate/ravvedute la sanzione è da 250 a mille euro. Peraltro, in quest’ultima fattispecie, la sanzione sarà ancor più ridotta (da 150 a 500 euro) se la dichiarazione e il pagamento delle imposte avvengono, sempre prima dei controlli, entro il termine per la presentazione della dichiarazione successiva (articoli 1 e 5 del Dlgs n. 471/97).

Clausole a favore dell’exit strategy

Quando un’impresa in forma societaria viene programmata sulla base di un accordo tra un socio di maggioranza e un socio di minoranza, la prassi professionale immancabilmente suggerisce che nello statuto della società in questione vi siano, tra le altre:

– clausole anti-stallo, vale a dire clausole che scongiurino l’evenienza del disaccordo dei soci e che esso provochi una paralisi dell’attività societaria (che può addirittura condurre, nei casi più gravi, allo scioglimento della società stessa);

– clausole che tutelino il socio di minoranza, nell’ipotesi in cui il socio di maggioranza intenda uscire dalla società, alienando la sua quota di partecipazione;

– clausole che tutelino il socio di maggioranza nel caso in cui egli voglia vendere la sua quota di partecipazione ma il potenziale acquirente ponga la condizione di acquisire tutto il capitale sociale (e, quindi, non solo la quota del socio di maggioranza).

I tipi di clausole

Le clausole anti-stallo, di solito, prevedono la reiterazione dei tentativi di arrivare a una decisione concordata (ad esempio, disponendo che si svolgano altre riunioni, dopo quella andata in fumo per il mancato formarsi del quorum decisionale occorrente) e, in caso di fallimento di questi tentativi di accordo, impongono una escalation del livello decisionale: vale a dire, ad esempio, che se gli amministratori non si mettono d’accordo, la decisione venga rimessa all’assemblea dei soci; e che, se anche qui, non si raggiunge l’accordo, se si tratta di una società-veicolo, la questione venga rimessa ai capi-azienda delle rispettive case-madri. Oltre a questi rimedi, o in connessione con essi, si può poi ricorrere ad altre soluzioni più “vigorose”, come, ad esempio, quella della russian roulette, illustrata nell’articolo qui a fianco.

La clausola che tipicamente si utilizza per tutelare il socio di minoranza nel caso in cui questi tema di avere svantaggi qualora il socio di maggioranza venga la propria quota prende il nome (mutuato dalla contrattualistica anglo-americana) di clausola di tag-along (diritto di co-vendita): con essa, in sostanza, il socio di minoranza ottiene il diritto di “appiccicarsi” (tag significa infatti “etichetta”) al socio di maggioranza e, cioè, di vendere la propria quota alle stesse condizioni concordate dal socio di maggioranza con il terzo acquirente.

Il socio di maggioranza, dal canto suo, ha il problema contrario: e cioè quello di tutelarsi nel caso in cui il potenziale acquirente sia disposto a comprare la quota del socio di maggioranza solo se anche il socio di minoranza venda la propria partecipazione. Due sono, di solito, le clausole con le quali questo problema viene gestito:

– la clausola di drag along, recante il diritto del socio di maggioranza di trascinare con sé nella vendita l’altro socio;

– la clausola di bring along, simile alla precedente, ma con la variante che il diritto di trascinamento spetta non al socio di maggioranza ma al terzo acquirente.

Le clausole di tag, drag e bring along sono di solito strutturate come opzioni (call o put): vale a dire, ad esempio, con riguardo al tag, che il socio di minoranza ha un’opzione put, e cioè di pretendere dal socio di maggioranza la vendita della propria quota a favore del terzo potenziale acquirente; e, con riguardo al drag, che il socio di maggioranza ha un’opzione call, e cioè di pretendere l’acquisto, a favore del terzo, della quota del socio di minoranza.

Il Notariato del Triveneto

Così strutturate, le clausole in questione si possono introdurre nello statuto (e, poi, modificare o rimuovere) solo con il consenso del socio che da esse ritrae il diritto di vendita o di acquisto. Secondo un recente orientamento del Notariato triveneto , peraltro, una decisione a maggioranza sarebbe legittima se la clausola sia strutturata come diritto del socio di maggioranza di terminare l’esistenza della società e di metterla in liquidazione (massima H.I.19).

Caratteristica comune di queste clausole è che esse (specie in base a una nota sentenza del Tribunale di Milano, datata 31 marzo 2008) devono assicurare al socio di minoranza una valorizzazione della sua quota almeno pari a quella che egli otterrebbe in caso di recesso dalla società. Ma si tratta di una tesi che appare discutibile, specialmente in base all’argomento secondo il quale queste clausole vengono introdotte in statuto con il consenso di tutti i soci. Essi – a tacere del fatto che sono tutti imprenditori dotati di assistenza professionale – ben sanno quel che firmano quando approvano lo statuto che contiene queste clausole, dalle quali evidentemente non si sentono vessati.

Fonte “Il sole 24 ore”

Bollatura Registri contabili – Scadenze e termini

Entro il prossimo 30 Dicembre  scade il termine per procedere alla stampa dei libri contabili meccanografici riferiti all’esercizio precedente  da parte delle imprese e lavoratori autonomi. L’obbligo di stampa riguarda sia i registri fiscali (registri Iva) che quelli tenuti ed imposti da disposizioni civilistiche (libro giornale e il libro inventari). L’unica eccezione riguarda il registro dei beni ammortizzabili, il cui termine per la stampa è scaduto lo scorso 30 Settembre.

Gli stessi termini sopraindicati valgono anche per i soggetti che intendono conservare le scritture contabili in modo elettronico, ai sensi del DM 17/06/2014 (conservazione sostitutiva).

Come si applica l’imposta di bollo?

L’imposta di bollo è determinata con criteri diversi a seconda che la contabilità sia tenuta in modalità cartacea o informatica: si applica limitatamente al libro giornale e libro inventari, mentre ne restando esclusi i registri Iva e gli altri registri (beni ammortizzabili, schede partitari…).

Se la contabilità è tenuta in modo cartaceo, l’imposta di bollo è dovuta nella seguenti misure:

  • SOCIETÀ DI CAPITALI tenute al versamento della Tassa di Concessione Governativa: euro 16,00 per ogni 100 pagine o frazione;
  • PERSONE FISICHE SOCIETÀ DI PERSONE: euro 32,00 ogni 100 pagine o frazioni.

L’imposta di bollo va assolta solo sulle pagine effettivamente utilizzate. In pratica, chi utilizza i libri o i registri assolve l’imposta di bollo ogni 100 pagine (o frazione) effettivamente utilizzate, indipendentemente dall’anno cui si riferisce la numerazione progressiva. Solo dopo aver utilizzato il primo blocco di 100 pagine si deve riassolvere l’obbligo tributario per l’uso delle successive cento (RM 85/2002 e CM 64/2002).

Esempio: se per esempio il libro giornale relativo al periodo d’imposta 2014 termina alla pagina numero 2014/65, l’imposta di bollo, versata a mezzo contrassegno applicato sulla pagina 2014/1, si ritiene assolta anche per le prime 35 pagine del 2015. Il nuovo contrassegno va apposto sulla pagina 2015/36, cioè la 101′ pagina del registro. Si ricorda che, l’imposta di bollo va assolta prima di effettuare le annotazioni sulla prima pagina o sulle successive cento, alternativamente o con i contrassegni telematici applicando le marche da bollo o in modo virtuale mediante versamento con il modello F23, codice tributo. 458T. In entrambi i casi le marche da bollo o gli estremi di versamento (se si è optato per l’assolvimento “virtuale”) vanno apposti, alternativamente:

  1. sulla prima pagina numerata del libro (o sulla prima pagina numerata di ogni blocco di 100);
  2. o sull’ultima pagina, purché prima che il libro sia posto in uso (RM 85/2002).


Ravvedimento operoso

I contrassegni telematici (cioè le care vecchie marche da bollo) riportano la data di loro emissione che coincide con l’acquisto. Nel caso di versamento tardivo dell’imposta di bollo (i.e. acquisto tardivo della marca) è possibile regolarizzare la propria posizione mediante il ricorso all’istituto del ravvedimento operoso.

In tal caso, la sanzione del 100 % sarà ridotta a: 1/10 (10%) nel caso in cui si procede alla regolarizzazione entro i 30 giorni dalla scadenza ordinaria (su € 16 è di € 1,60) o a 1/8 (12,5%) in caso di ravvedimento successivo i 30 giorni ma entro 1 anno dalla scadenza ordinaria (su €. 16 è € 2) La sanzione si versa con il modello F23 con il codice tributo 675T. L’imposta, invece, viene assolta con l’apposizione della marca. Si ricorda che, entro il medesimo termine, dovranno essere versati anche gli interessi calcolati “per giorno” nella misura del tasso legale con il codice tributo 731T.

Contabilità con sistemi informatici

Ai sensi dell’art. 6 DM 17/06/2014, l’imposta di bollo sui documenti informatici fiscalmente rilevanti è dovuta ogni 2.500 registrazioni (o frazioni) nelle misure su indicate (ossia € 16 o € 32). Per registrazione si intende ogni singolo accadimento contabile, a prescindere dalle righe di dettaglio. Il concetto di registrazione va riferito ad ogni singola operazione rilevata in partita doppia, a prescindere dalle righe di dettaglio interessate (RM 161/2007).

LIBRI GIORNALI SEZIONALI

Con la RM 371/2008 l’Agenzia ha fornito chiarimenti in merito al calcolo dell’imposta di bollo su un particolare caso di tenuta del libro giornale su supporto informatico. Qualora il libro giornale sia tenuto mediante utilizzazione di più sezionali, ai fini della determinazione dell’imposta di bollo, rilevano sia le registrazioni effettuate nel libro giornale sia quelle effettuate nei sezionali che siano parte integrante del libro giornale. L’imposta di bollo in tal caso può essere pagata solo con modalità telematica, mediante F24 on line in unica soluzione  entro 120 gg dalla chiusura dell’esercizio (entro il 30 aprile).

REGIME FORFETTARIO E RETTIFICA DELLA DETRAZIONE IVA

Con il passaggio dal regime IVA ordinario al regime forfettario, scatta la rettifica della detrazione IVA di cui all’art. 19 bis-2 DPR 633/72.
In particolare, il comma 3 della norma succitata così recita:
“Se mutamenti nel regime fiscale delle operazioni attive, nel regime di detrazione dell’imposta sugli acquisti o nell’attività comportano la detrazione dell’imposta in misura diversa da quella già operata, la rettifica è eseguita limitatamente ai beni e ai servizi non ancora ceduti o non ancora utilizzati e, per i beni ammortizzabili, è eseguita se non sono trascorsi quattro anni da quello della loro entrata in funzione.”
Dunque, il passaggio dal regime iva ordinario al regime forfettario, comporta la rettifica dell’iva già detratta sui “beni e servizi” non ancora “ceduti” e/o “utilizzati” e sui “beni ammortizzabili”.
La rettifica dell’IVA inizialmente detratta va operata considerando che:

  • le disposizioni di cui all’art. 19 bis-2 DPR 633/72, relative ai beni ammortizzabili, devono intendersi riferite anche ai beni immateriali di cui all’articolo 68 del TUIR;
  • per i beni ammortizzabili materiali ed immateriali la rettifica va eseguita solo se non sono ancora trascorsi cinque anni dalla loro entrata in funzione. Limitatamente alla norma in esame non si considerano ammortizzabili i beni di costo unitario non superiore a 516,46 €, ne’ quelli il cui coefficiente di ammortamento stabilito ai fini delle imposte sul reddito è superiore al 25%;
  • agli effetti del presente articolo i fabbricati o porzioni di fabbricati sono comunque considerati beni ammortizzabili ed il periodo di rettifica è stabilito in dieci anni, decorrenti da quello di acquisto o di ultimazione;
  • fra i beni non ancora ceduti o non ancora utilizzati rientra certamente il valore delle rimanenze finali ed i contratti di leasing in essere. Riguardo al valore delle rimanenze finali, l’IVA va rettificata integralmente, mentre nel caso dei contratti di leasing, la rettifica dell’iva, originariamente assolta con il maxi canone iniziale, va effettuata proporzionalmente al tempo che residua alla conclusione del contratto;

Le rettifiche delle detrazioni iva andranno effettuate nella Dichiarazione annuale IVA relativa all’anno in cui si verificano gli eventi che le determinano, sulla base delle risultanze delle scritture contabili obbligatorie.
Pertanto, l’ex contribuente ordinario nell’ultima Dichiarazione Iva, che nel nostro caso corrisponderà alla Dichiarazione Iva 2016 per l’anno 2015, al rigo VA14 dovrà barrare la casella 1, al fine di indicare che trattasi dell’ultimo anno (il 2015) in cui verranno applicate le regole ordinarie in materia di iva.
Sulla scorta dell’art. 19 bis-2 DP.R. 633/72 dovrà quindi procedere alla rettifica della detrazione dell’IVA assolta sugli acquisti, riportando nel rigo VF56 il valore complessivo delle rettifiche iva operate.
L’IVA eventualmente da versare corrisponderà:

  • al 100% dell’IVA detratta per le rimanenze finali e i servizi non ancora utilizzati;
  • ai quinti residui per i beni strumentali;
  • ai decimi rimanenti per i beni immobili.

L’IVA dovuta a seguito della rettifica confluirà all’interno della dichiarazione IVA e concorrerà alla determinazione dell’importo a debito/credito risultante dalla dichiarazione annuale.
Relativamente all’IVA dovuta a seguito di rettifica della detrazione a sfavore, a differenza del regime dei minimi, l’imposta non dovrà essere più versata autonomamente: l’importo indicato al rigo VF56 confluirà infatti nel rigo VL, all’interno dell’imposta complessiva a debito o a credito, e l’eventuale debito dovrà essere versato in un’unica soluzione con il codice tributo 6099 anno di riferimento 2015.
L’eventuale credito iva, che emergerà dall’ultimo anno in cui l’iva è applicata nei modi ordinari, potrà essere chiesto a rimborso oppure compensato con il modello F24.
La rettifica alla detrazione iva vale anche in senso opposto, ossia nel caso di passaggio dal regime forfettario al regime ordinario (per opzione o per obbligo). In tal caso l’iva non detratta diviene detraibile. Quindi i contribuenti non più forfettari devono determinare l’Iva assolta sulle merci in rimanenza, sui beni strumentali di importo superiore a 516,46 euro o con percentuale di ammortamento inferiori al 25% e sui servizi non utilizzati.
Infine, con il passaggio dal regime iva ordinario al regime forfettario, può esserci il caso dell’esigibilità differita dell’iva o dell’iva in sospensione per via dell’adozione da parte del contribuente del meccanismo della liquidazione dell’iva “per cassa”. Anche in tal caso va data notizia nella prima Dichiarazione Iva Annuale utile e potrebbe emergere un debito che andrà versato con le modalità su esposte.

AUTORE: MASSIMILIANO BELLINI

Srl: opzione per il regime di trasparenza fiscale entro il 31 dicembre

Entro il prossimo 31 dicembre i soci di Srl che intendono aderire o prorogare di un ulteriore triennio il regime di trasparenza fiscale (c.d. “piccola trasparenza”) sono chiamati ad effettuare la comunicazione all’Agenzia delle Entrate, da trasmettere telematicamente su apposito modello.

Entro il termine del 31 dicembre 2014 le persone fisiche socie di società di capitali (con soci in numero non superiore a 10) o di società cooperative a responsabilità limitata (con soci in numero non superiore a 20) possono esercitare l’opzione per il regime della cosiddetta “piccolatrasparenza fiscale di cui all’art.116 Tuir con riferimento al triennio 2014 – 2016.

Entro lo stesso termine, va rinnovata l’opzione anche da parte di quelle persone fisiche che hanno aderito per il triennio 2011/2013 e intendono continuare ad applicare tale regime anche per il successivo triennio 2014/2016. L’opzione infatti non si rinnova automaticamente ma è richiesta una specifica conferma.

L’imputazione del reddito ai soci
Il regime fiscale della c.d. “piccolatrasparenza è un regime fiscale applicabile a società (Srl o Scarl) partecipate da sole persone fisiche. Il regime permette di tassare il reddito prodotto dalle Srl e dalle Scarl, con le modalità delle società di persone: in pratica, il reddito determinato in capo alla società viene ripartito e tassato in capo ai soci in relazione alle rispettive quote di partecipazione, mentre l’Irap continuerà ad essere dovuta dalla società.
Al pari delle società di persone, il reddito sarà tassato in capo ai soci indipendentemente dall’effettiva percezione, con riferimento al periodo di competenza; d’altro canto, quando la società distribuirà (anche in periodi d’imposta successivi alla vigenza dell’opzione) le riserve alimentate con utili conseguiti in vigenza dell’opzione per la trasparenza, i dividendi non subiranno alcuna ulteriore tassazione in capo ai soci.

I vantaggi
I principali vantaggi derivanti dall’opzione per questo regime sono i seguenti:

  • se i soci hanno un’aliquota marginale Irpef inferiore a quella Ires (ad oggi il 27,5%) si ottiene una riduzione della tassazione complessiva;
  • si evita di tassare una seconda volta il dividendo in sede di distribuzione (il dividendo distribuito partecipa, seppure parzialmente, al reddito complessivo del socio se la partecipazione qualificata oppure è tassato con una sostitutiva del 26 % se la partecipazione è non qualificata);
  • si migliorano gli indici reddituali della società e quindi le analisi poste in essere dal sistema bancario (non sono accantonate in bilancio le imposte, quindi l’utile risulta formalmente più elevato);
  • incrementando il reddito dichiarato dal socio, si allontanano rischi di eventuali verifiche fiscali legate alle manifestazioni della capacità di spesa del socio stesso (redditometro).

Gli svantaggi
L’opzione per il regime presenta anche degli svantaggi (o, per meglio dire, degli aspetti a cui occorre prestare particolare attenzione):

  • poiché sono i singoli soci a versare le imposte in luogo della società anche senza aver ricevuto alcun dividendo, occorre pianificare con attenzione le risorse finanziarie necessarie per tali pagamenti;
  • sotto il profilo tributario i soci diventano illimitatamente responsabili in solido tra di loro e con la società (al contrario, senza opzione per il regime di trasparenza, solo la società è responsabile per le imposte da questa dovute). Il regime deve quindi essere sconsigliato se esistono rischi fiscali in capo alla società ovvero se non esiste perfetta sintonia tra i soci.

Requisiti e adempimenti per aderire alla trasparenza fiscale
L’articolo 116 del Tuir prevede che per esercitare l’opzione per l’esercizio della trasparenza fiscale siano rispettati i seguenti requisiti:

  • volume di ricavi della Srl non superiore alle soglie previste per l’applicazione degli tsudi di settore;
  • compagine sociale composta esclusivamente da persone fisiche in un numero non superiore a 10 (Srl) o 20 (cooperative);

Per aderire al regime è necessario raccogliere il consenso di tutti i soci, mediante comunicazione da inviarsi alla società, per raccomandata o Pec, ed inviare telematicamente all’Agenzia delle Entrate, entro il 31 dicembre, una comunicazione da parte della società trasparente per comunicare l’adesione o la proroga del regime.

Il regime di trasparenza per le S.r.l

L'approssimarsi della fine dell'anno richiede sempre una verifica puntuale della gestione e l'effettuazione di alcuni adempimenti necessari per l'anno successivo. In questo articolo mi vorrei soffermare brevemente sul regime di trasparenza per le S.r.l., di estrema importanza ed attualità per le piccole e medie Srl dopo la riforma del diritto societario. 
 
Il regime previgente. Con la vecchia normativa la Srl pagava l'IRPEG (ora sostituita dall'IRES) ed al momento della distribuzione del dividendo (utile) i soci potevano, con un particolare meccanismo, scomputare dalla loro IRPEF personale l'IRPEG già pagata dalla società. Quindi, alla fine, possiamo dire che l'IRPEG era sostanzialmente "neutra" per i soci. 
 
L'attuale regime. La riforma fiscale, dal 2004, ha radicalmente modificato questo sistema. La Srl ora paga l'IRES (attualmente pari al 27,50% - previgentemente l'aliquota era del 33%, sugli utili fino al 2007), ma al momento della distribuzione del dividendo (utile) questo diventa nuovamente imponibile per il 49,72% (40% per gli utili fino all'anno 2007) in capo ai soci. Per fare un esempio con dei numeri, se l'utile della società è pari a 100, la Srl paga 27,50 di IRES ed il dividendo netto da distribuire è quindi pari a 72,50: di questi 36,04 (il 49,72% di 72,50) vengono nuovamente tassati ai fini IRPEF in capo ai singoli soci, portando spesso ad un consistente aggravio della tassazione. Ipotizzando ad esempio un'aliquota media IRPEF sull'utile distribuito pari al 38%, questo significa un ulteriore pagamento da parte dei soci di 13,70 a causa della distribuzione del dividendo, per cui l'utile della S.r.l., quando distribuito, alla fine sconta un'imposta in questo caso pari al 41,2% (27,50% in capo alla società e 13,70 in capo ai soci), oltre naturalmente all'IRAP (3,90%) ed alle altre tasse e contributi previsti dalla legislazione vigente. 
 
Il regime di trasparenza. La riforma fiscale ha però contestualmente introdotto una nuova possibilità per le Srl che è appunto il regime di trasparenza: sostanzialmente è simile a quanto già avviene per le società di persone (s.n.c., s.a.s.), in pratica la Srl non versa più l'IRES ed il dividendo viene tassato integralmente in capo ai soci, in base alle rispettive quote di partecipazione agli utili, indipendentemente però dal fatto che il dividendo venga poi effettivamente distribuito ai soci o rimanga invece all'interno della società. E' evidente che in questo caso la tassazione risulta in linea generale assai più conveniente, soprattutto per le piccole società, perché evita una parziale doppia imposizione prima in capo alla società, poi in capo ai soci una volta che il dividendo viene distribuito. Nell'esempio di cui sopra, se l'utile è pari a 100, questo viene integralmente tassato in capo ai soci: ipotizzando anche ora un'aliquota media IRPEF del 38%, la tassazione è pari a 38 e non a 41,2. 

Il confronto tra i regimi. Il regime di trasparenza presume, come detto poc'anzi, che tutto l'utile fiscale si considera distribuito ai soci in base alle rispettive quote di partecipazione, ed indipendentemente dal fatto che poi l'utile vanga effettivamente, in tutto o in parte, distribuito ai soci o rimanga, anche parzialmente, nella società. Il regime di trasparenza è in tutto e per tutto assimilabile a quanto previsto per le società di persone.

Il regime ordinario per le società di capitali prevederebbe invece la tassazione ai fini IRPEF del 49,72% dell'utile effettivamente distribuito. Questo significa che il socio pagherà le imposte nell'esercizio di distribuzione effettiva degli utili (principio di cassa), ma anche che pagherà le imposte solamente sull'utile effettivamente percepito (utile civilistico, di bilancio) e non su quello rilevante ai fini fiscali. Per i soci con partecipazioni minoritarie (c.d. “non qualificate”) questi pagano una ritenuta d'imposta, sostitutiva dell'IRPEF, pari attualmente al 12,50% di tutto il dividendo distribuito.

Pertanto in caso di presenza di rilevanti costi indeducibili (in primis l'IRAP, e quindi le aziende con elevati costi del personale dipendente e/o oneri finanziari dovranno valutare attentamente se valga la pensa scegliere il regime di trasparenza) la convenienza del regime di trasparenza si fa via via meno sensibile, fino a portare anche ad un incremento dell'imposizione rispetto al regime normale.

Ritornando all'esempio fatto prima, se l'utile di bilancio fosse stato invece 60 ed i costi indeducibili fossero stati 40, l'utile fiscale sarebbe rimasto 100, ma con il regime ordinario la società avrebbe pagato sempre il 27,50% di IRES su 100 (e quindi 27,50 come nell'esempio precedente), ma l'utile distribuito non sarebbe stato 100 - 27,50 = 72,50, bensì 60 (utile di bilancio) - 27,50 = 32,50. Sul 49,72% di 32,50, e quindi su € 16,16, i soci avrebbero pagato la loro IRPEF, che in caso di aliquota media sempre pari al 38% (ma che in teoria dovrebbe essere minore, essendo minore il reddito) ammonterebbe ad € 6,14. L'aliquota fiscale complessiva tra società e soci sarebbe pertanto del 33,64%, e quindi assai più conveniente di quella del 38% ottenuta per trasparenza.

La convenienza. Quali regole potere a questo punto trarre, per individuare il regime più conveniente? Chiaramente non c'è una regola generale, valida in tutti i casi. Solamente l'esame concreto della specifica situazione, con una bozza di calcolo, può dare una risposta il più possibile attinente al caso esaminato. In linea di massima, si può comunque dire che, generalmente, il regime di trasparenza, conviene:
- Quando gli utili conseguiti sono modesti, o almeno la quota pro-socio è modesta, ed i soci non posseggano altri redditi in misura consistente, così che gli utili realizzati dalla società vengano tassati con le aliquote IRPEF più basse;
- Quanto l'utile di bilancio non sia troppo distante dall'utile fiscale, cioè quando la società non presenta rilevanti costi indeducibili. In questo modo l'utile fiscale e quello effettivamente distribuito sono abbastanza vicini tra loro, ed allora si aggiunge il vantaggio di non avere una parziale duplicazione di imposizione IRES+IRPEF. Si ricorda di considerare attentamente l'IRAP, in gran parte indeducibile, pertanto tutte le società che presentano elevati costi indeducibili ai fini IRAP come personale dipendente ed oneri finanziari, raramente avranno convenienza ad utilizzare il regime di trasparenza.

In pratica, nelle situazioni più comuni, e soprattutto nelle S.r.l. di minori dimensioni, con utili non particolarmente elevati e senza alti costi del personale dipendente, il regime di trasparenza consente spesso un vantaggio, talvolta anche notevole, in termini di imposizione fiscale. Viceversa, per le realtà di maggiori dimensioni o che impieghino molto personale, il regime di trasparenza può spesso portare a svantaggi.

Utili non distribuiti. Il discorso si ribalta per le società che sono abituate ad accantonare a riserva gli utili o a distribuirne solamente una minima parte ai soci. In questo caso, finché l'utile rimane all'interno della società, il regime ordinario risulta più conveniente rispetto al regime di trasparenza, in quando non venendo distribuiti utili, non c'è una doppia tassazione IRES-IRPEF, e l'aliquota IRES del 27,50% risulta generalmente vantaggiosa in confronto con l'IRPEF, a meno che non si tratti di redditi molto modesti (del resto risulta invero poco frequente che in caso di utili modesti, questi vengano tutti accantonati e non venga distribuito nulla ai soci).

I requisiti ed i termini per l'opzione. Per usufruire del regime di trasparenza occorre che la società possieda una serie di requisiti richiesti dalla legge, come, ad esempio, un ammontare dei ricavi non superiore generalmente a 5 milioni di Euro ed un numero di soci - che devono essere tutte persone fisiche - non superiore a 10; altri requisiti andavano invece eventualmente già valutati in corso d'anno per fare in modo di non trovarsi in prossimità della scadenza per l'opzione senza possedere i requisiti richiesti. L'opzione per il regime di trasparenza va comunicata all'Agenzia delle Entrate, esclusivamente in via telematica, entro il termine tassativo del 31 dicembre del primo anno di utilizzo di questo regime ed è vincolante per un periodo di tre anni.  È importante pertanto ricordarsi, ricorrendone i presupposti e la convenienza, di rinnovare il regime ogni tre anni, altrimenti decade.
 
Ulteriori vantaggi. Oltre a quanto già precisato, il regime di trasparenza, eliminando dal bilancio la tassazione IRES rende inoltre possibile, con un carico tributario complessivo come visto generalmente inferiore, la presentazione di un utile maggiore in bilancio, in quanto la tassazione è per la maggior parte "spostata" dalla società ai soci: questo elemento può risultare utile ad esempio quando il bilancio viene presentato in banca per richiedere affidamenti. Inoltre, in presenza di utili modesti e soprattutto in caso di oneri finanziari e/o costi del personale elevati, questa soluzione evita alla società, in utile prima del calcolo delle imposte, di evidenziare poi una perdita a causa dell'indeducibilità dell'IRAP dall'IRES. Questione complessa, che richiederebbe una trattazione più ampia che tuttavia esula dallo scopo di questa breve pagina. 
 
I compensi agli amministratori. Due parole sui compensi agli amministratori. Premesso che non è questa la sede per parlare di una materia così ampia e delicata, mi limito a sottolineare come alcune società, per ovviare il problema della parziale doppia tassazione IRES-IRPEF, abbiano deliberato consistenti compensi agli amministratori, in grado di assorbire tutto o quasi il reddito della società. A parte che un tale comportamento non è corretto, in quanto i compensi dovrebbero essere proporzionati all'attività amministrativa effettivamente prestata, ciò penalizzerebbe ulteriormente la società: infatti, senza conseguire alcun vantaggio in termini di tassazione, anzi avendone un aggravio a causa dei maggiori contributi previdenziali in questo caso dovuti sui compensi agli amministratori, si rischierebbe poi il possibile verificarsi di una eventuale situazione di non congruità con gli studi di settore, in quanto i compensi corrisposti agli amministratori presumono sempre maggiori ricavi. L'opzione del regime di trasparenza risolve invece direttamente il problema e quindi, in linea generale, è senz'altro la soluzione da preferire.

Reverse charge Vs. Lettera d’intento: chi prevale?

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

In tema di reverse charge, l’Amministrazione Finanziaria non ha mai chiarito se il meccanismo dell’inversione contabile prevalga nel confronto con il regime di non imponibilità ex art. 8, co. 1, lett. c), D.P.R. 633/1972.

Si tratta in sostanza di capire se nel caso in cui un’impresa debba emettere una fattura di vendita ad un fornitore che si qualifica come “esportatore abituale”, che ha inviato puntualmente la lettera d’intento, vada emessa fattura soggetta a reverse charge oppure in regime di non imponibilità ex articolo 8, comma 1, lettera c, oppure ex articolo 17, comma 6 del D.P.R. 633/1972.

Sulla questione va evidenziato che la C.M. 14/E/2015, fornendo applicazione in relazione alle nuove ipotesi di reverse charge in edilizia, introdotte dalla Legge di Stabilità 2015, l’Amministrazione Finanziaria ha chiarito che “qualora la lettera di intento inviata dall’esportatore abituale sia emessa con riferimento ad operazioni assoggettabili al meccanismo dell’inversione contabile, di cui all’articolo 17, comma 6, del medesimo D.P.R. n. 633/1972, relativamente a tali operazioni troverà applicazione la disciplina del Reverse charge, che, attesa la finalità antifrode, costituisce la regola prioritarie”.

Secondo le indicazioni fornite dall’Amministrazione Finanziaria nel summenzionato documento di prassi, la finalità “antifrode” dell’inversione contabile la rende prevalente rispetto al regime di non imponibilità proprio dell’esportatore abituale.

Tradotto in termini pratici, nel caso in cui ad esempio un’impresa italiana debba fatturare a un “fornitore abituale” delle prestazioni di manutenzione di impianti relativi ad edifici, troverà applicazione il reverse charge in luogo del regime di non imponibilità più volte richiamato.

Va evidenziato che nel fornire il concetto di prevalenza del reverse charge sul regime non imponibilità degli esportatori abituali, l’Amministrazione Finanziaria fa espresso riferimento alle ipotesi di reverse charge ex art. 17, co. 6, D.P.R. n. 633/1972.

SI tratta delle seguenti operazioni:

  • subappalto in edilizia;
  • cessione di fabbricati imponibili per opzione;
  • le prestazionidiservizidipulizia,didemolizione,di installazione di impianti e di completamento relative ad edifici;
  • cessioni di apparecchiature terminali per ilserviziopubblico radiomobile terrestre di comunicazioni soggette alla tassa sulle concessioni, nonchédeiloro componenti ed accessori;
  • cessionidipersonalcomputeredeilorocomponentied accessori;
  • cessionidimaterialieprodottilapidei,direttamente provenienti da cave e miniere;
  • ai trasferimenti di quote di emissioni digasaeffettoserra;
  • ai trasferimenti dicertificati relativi al gas e all’energia elettrica;
  • alle cessioni di gas e dienergiaelettricaaunsoggetto passivo-rivenditore.

Nell’ipotesi di conflitto tra reverse charge e regime di non imponibilità, rifacendoci alle indicazioni fornite dall’Amministrazione Finanziaria, le suddette prestazioni, dovranno essere fatturate ai sensi dell’articolo 17, comma 6, del D.P.R. n. 633 del 1972 e non ai sensi dell’articolo 8, comma 1, lettera c), del medesimo D.P.R. n. 633. L’applicazione del reverse charge non consentirà dunque l’utilizzo del plafond.

Autore: redazione fiscal focus

Sanzioni in caso di PEC non propria

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Premessa – L’obbligo di dotarsi di un indirizzo PEC da comunicare ai fini dell’iscrizione nel registro delle imprese è sancito dall’art. 16 comma 6 del Dl 185/2008 e dall’art. 5, commi 1 e 2 del Dl 179/2012.

Spesso accade che al registro delle imprese sia comunicato, sulla posizione di un’impresa, l’indirizzo PEC di cui è titolare un’altra impresa oppure è comunicato l’indirizzo PEC di chi ha predisposto la pratica di iscrizione al registro stesso (ad esempio è indicata la PEC del commercialista).

Le imprese che si trovano in una situazione appena descritta sono chiamate a dotarsi di un indirizzo PEC proprio e a comunicarlo al Registro Imprese, pena l’applicazione di sanzioni.

L’obbligo di dotarsi di PEC propria – L’obbligo di dotarsi di PEC propria da comunicare anche al Registro Imprese è specificamente stato chiarito con la Circolare n. 77684/2014 del Ministero dello Sviluppo Economico , in cui è stato affermato che “considerato quanto previsto dall’art. 16, cc. 6 e 6-bis del DL 185/08, e dall’art. 5, cc. 1 e 2, del DL 179/2012”, si ritiene che “nel caso si rilevi, d’ufficio o su segnalazione di terzi, l’iscrizione di un indirizzo PEC, di cui sia titolare una determinata impresa, sulla posizione di un’altra (o di più altre) – ovvero, comunque, l’iscrizione sulla posizione di un’impresa di un indirizzo PEC che non sia proprio della stessa – dovrà avviarsi la procedura di cancellazione del dato in questione ai sensi dell’art. 2191 c.c., previa intimazione, all’impresa interessata (o alle imprese interessate), a sostituire l’indirizzo registrato con un indirizzo di PEC proprio”.

Inoltre, nella stessa circolare è anche precisato che lo stesso Ministero aveva già avuto occasione di chiarire, (con nota n. 120610 del 16/07/2013, all. 1), che precedenti indicazioni operative fornite in passato, secondo cui era possibile, per le imprese, indicare l’indirizzo di PEC di un terzo, sono da ritenersi ormai superate alla luce della successiva evoluzione normativa, risultando “indubitabile” che per ogni impresa debba essere iscritto, nel registro delle imprese, un indirizzo di PEC alla stessa esclusivamente riconducibile.

Le sanzioni – Sulla base di quanto affermato nella circolare n. 77684/2014, dunque, la Camera di Commercio, prima di procedere alla cancellazione della PEC risultante sulla posizione di un’impresa che non sia quella “propria”, invia a quest’ultima una comunicazione in cui invita a sostituire il predetto dato con un indirizzo PEC proprio.

Nel caso in cui, l’impresa interessata non aderisce a tale invito nel termine indicato nella comunicazione stessa, oltre alla cancellazione dell’indirizzo PEC si rende applicabile la specifica sanzione prevista dall’art. 16, c. 6-bis, del DL 185/08 (nel caso delle società), e dall’art. 5, c. 2, secondo periodo, del DL 179/12 (nel caso delle imprese individuali), secondo le modalità indicate nel parere n. 141955 del 29/08/2013 del Ministero stesso.

In particolare, è prevista una sanzione da 103 a 1.032 euro, con riduzione a 1/3 se l’impresa comunica la PEC “propria” entro i 30 giorni successivi all’irrogazione della sanzione.

E’ importante dare attenzione all’argomento trattato nel presente articolo, poiché l’eventuale cancellazione della PEC sulla propria posizione avrà delle ripercussioni anche sul rapporto tra registro imprese e impresa stessa. Si ricorda, infatti, che l’indirizzo PEC iscritto nel registro delle imprese ha carattere di ufficialità nel rapporto con i terzi e che lo stesso costituisce il sistema di collegamento preferenziale o esclusivo della Pubblica Amministrazione, compresa l’Autorità Giudiziaria e l’Amministrazione Finanziaria.

Autore: Pasquale Pirone

Bilancio: novità per tutti

Con la Direttiva 26 giugno 2013, n. 2013/34/Ue sono state abrogate le precedenti Direttive contabili comunitarie relative alla redazione del bilancio di esercizio e consolidato (Direttiva 78/660/Cee e 83/349/Cee), ed è stata introdotta una nuova disciplina che doveva essere recepita dagli Stati membri entro il 20 luglio 2015.

Obiettivo delle riforme introdotte è stato duplice, e ha visto da un lato, la necessità di migliorare gli obblighi informativi per le imprese di maggiori dimensioni, mentre, dall’altro, si è concretizzato nella volontà di semplificare gli obblighi previsti per le piccole e medie imprese.

Se, infatti, è ovvio che il bilancio rappresenti il principale strumento per conoscere l’andamento aziendale, è pur vero che la riduzione degli oneri amministrativi per le imprese di minori dimensioni può comportare aumenti della redditività, e, quindi, della produttività delle stesse.

Il recepimento della direttiva in Italia

Con la Legge 7 ottobre 2014, n.154, il Governo è stato autorizzato a recepire la Direttiva 2013/34/UE.

Più precisamente, la Direttiva 2013/34/UE è stata recepita in due distinti schemi di decreti legislativi:

-il D.Lgs. n. 139 del 18.08.2015, pubblicato nella G.U. n. 205 del 04.09.2015, relativo al bilancio d’esercizio e consolidato;

-il D.Lgs. n. 136 del 18.08.2015, pubblicato nella G.U. n. 202 del 01.09.2015, relativo ai conti annuali ed ai conti consolidati delle banche e degli altri istituti finanziari.

Le novità per il conto economico e lo stato patrimoniale

Con il D.Lgs. n. 139 del 18.08.2015 sono state introdotte importanti novità in tema di bilancio.

Giova a tal proposito di essere ricordato non solo il nuovo bilancio per le micro-imprese, nel quale sparisce la nota integrativa, ma anche l’obbligo di redazione del rendiconto finanziario per le società di maggiori dimensioni.

Anche i prospetti contabili, però, sono stati interessati da modifiche di non poco conto.

Si pensi, a tal proposito, allo stato patrimoniale, in calce al quale spariscono i conti d’ordine (sostituiti da un’apposita informativa nella nota integrativa).

Non è poi più prevista la possibilità di capitalizzare i costi di ricerca e pubblicità: nell’attivo patrimoniale troveranno spazio solo i costi di sviluppo.

Altre modifiche riguardano inoltre l’introduzione di specifiche voci di dettaglio sia tra le immobilizzazioni finanziarie che tra i crediti immobilizzati relative ai rapporti intercorsi con le imprese sottoposte al controllo delle controllanti (c.d. imprese sorelle). Lo stesso maggior dettaglio viene richiesto anche nell’esposizione dei debiti.

Vengono riformulate anche le riserve indicate nel patrimonio netto. Più precisamente, è eliminata la riserva per azioni proprie in portafoglio ed è introdotta non solo la riserva per operazioni di copertura di flussi finanziari attesi ma anche la riserva negativa per azioni proprie in portafoglio.

E’ questa la naturale conseguenza della nuova disciplina introdotta per le azioni proprie in bilancio.

In passato, come noto, era prevista l’iscrizione delle azioni proprie nell’attivo patrimoniale, con la contestuale accensione di una riserva indisponibile di pari importo.

A seguito delle novità introdotte, invece, le azioni proprie devono essere iscritte in bilancio in diretta riduzione del patrimonio netto.

La modifica è di non poco conto, non solo per le modifiche nei prospetti dei bilanci, ma anche per i suoi riflessi su una serie di norme che fanno riferimento alla nozione di patrimonio netto. Si pensi, ad esempio, al limite previsto per l’emissione delle obbligazioni.

Passando ora al conto economico, la novità più rilevante consiste sicuramente nell’eliminazione delle voci di costo e di ricavo relative alla sezione straordinaria.

Vengono poi introdotte specifiche voci di dettaglio relative ai rapporti intercorsi con imprese sottoposte al controllo delle controllanti, e la macroclasse “D) Rettifiche di valore delle attività finanziarie” è sostituita da “D) Rettifiche di valore delle attività e passività finanziarie”.

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Deducibilità delle perdite fiscali: effetti

Deducibilità delle perdite fiscali: effetti
Lo spirito delle modifiche normative, un confronto tra vecchia e rivisitata disciplina e, nel concreto, la recuperabilità dei risultati negativi ai fini delle imposte differite
L’articolo 23, comma 9, del decreto legge 98/2011, ha introdotto un nuovo regime di riporto delle perdite fiscali, ora contenuto nell’articolo 84 del Tuir.

La nuova disposizione
Dalla lettura della “relazione illustrativa” al Dl in argomento, si desume la ratio della norma, principalmente quella di rispondere a un’esigenza di rigore e di semplificazione.
L’intenzione del legislatore, infatti, è stata quella di evitare, da un lato, di costringere le imprese a realizzare operazioni straordinarie allo scopo di ottenere un refresh delle perdite in “scadenza”, operazioni che, di fatto, vanificano la limitazione temporale al riporto, e, dall’altro, di limitare complessi esercizi di valutazione della recuperabilità delle stesse perdite ai fini dell’iscrizione e/o mantenimento delle relative imposte differite durante il processo di formazione del bilancio di esercizio.

La nuova formulazione dell’articolo 84 garantirebbe, inoltre, sempre nei disegni del legislatore, un effetto di stabilizzazione del gettito che, fin dall’anno successivo a quello/i in perdita, verrebbe assicurato in misura percentuale anche in presenza di perdite riportate a nuovo.

In sintesi, la norma prevede, per il riporto delle perdite, l’eliminazione del limite temporale di cinque anni a favore di un riporto temporalmente illimitato, ma introduce un limite quantitativo, cioè le perdite pregresse sono, ora, scomputabili in ragione dell’80% del reddito imponibile. L’eccedenza del 20% può essere scomputata dal reddito degli esercizi successivi, senza alcun limite di tempo.

Confronto nuovo/vecchio articolo 84 del Tuir
Comma 1 (in vigore fino al 5/7/2011)
Nuovo comma 1
“La perdita di un periodo d’imposta, determinata con le stesse norme valevoli per la determinazione del reddito, può essere computata in diminuzione del reddito dei periodi d’imposta successivi, ma non oltre il quinto, per l’intero importo che trova capienza nel reddito imponibile di ciascuno di essi.” La perdita di un periodo d’imposta, determinata con le stesse norme valevoli per la determinazione del reddito, può essere computata in diminuzione del reddito dei periodi d’imposta successivi in misura non superiore all’ottanta per cento del reddito imponibile di ciascuno di essi e per l’intero importo che trova capienza in tale ammontare. (…)
Comma 2
Nuovo comma 2
Le perdite realizzate nei primi tre periodi d’imposta dalla data di costituzione possono, con le modalità previste al comma 1, essere computate in diminuzione del reddito complessivo dei periodi d’imposta successivi senza alcun limite di tempo a condizione che si riferiscano ad una nuova attività produttiva.” Le perdite realizzate nei primi tre periodi d’imposta dalla data di costituzione possono, con le modalità previste al comma 1, essere computate in diminuzione del reddito complessivo dei periodi d’imposta successivi entro il limite del reddito imponibile di ciascuno di essi e per l’intero importo che trova capienza nel reddito imponibile di ciascuno di essi a condizione che si riferiscano ad una nuova attività produttiva”.

Interessati dalla nuova disciplina sono esclusivamente i soggetti Ires previsti all’articolo 73, lettere a), b) e d), del Tuir.
Sono fuori dal regime, invece, i soggetti Irpef in regime di contabilità ordinaria, per i quali continua ad applicarsi il comma 3, dell’articolo 8, del Tuir, e gli enti non commerciali che esercitano attività d’impresa, di cui alla lettera c) dell’articolo 73.

Per quel che concerne la decorrenza del nuovo regime, l’articolo 23, comma 6, del Dl 98/2011 stabilisce che “in deroga all’articolo 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212, le disposizioni del presente articolo si applicano a decorrere dal periodo d’imposta in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto”.
A tal proposito, l’Agenzia delle Entrate, con la circolare 53/2011, ha sottolineato che “la disposizione contenuta nel comma 9 del citato articolo 23 (…) è applicabile anche alle perdite maturate nei periodi d’imposta anteriori a quello di entrata in vigore delle disposizioni in commento” (cfr articolo “Riporto delle perdite d’impresa, nuove regole solo per l’Ires”, pubblicato su FiscoOggi il 6 dicembre 2011).

Recuperabilità delle perdite ai fini delle imposte differite
La relazione governativa, come anticipato, ha posto l’attenzione sulla complessità di valutazione della recuperabilità delle perdite, relativamente all’iscrizione delle imposte differite. Si considerino, ad esempio, le variazioni in aumento e in diminuzione da apportare all’utile/perdita civilistica, le quali si distinguono, in conseguenza del differente impatto sul bilancio, in quanto le differenze temporanee si traducono, in esercizi successivi, in variazioni fiscali di segno opposto, mentre le differenze permanenti si traducono in rettifiche definitive.
Le differenze temporanee concorrono a determinare la base di calcolo delle imposte anticipate e differite.
Sono originate prevalentemente da differenze tra il risultato prima delle imposte da bilancio civilistico e l’imponibile fiscale, che hanno origine in un esercizio e si annullano in uno o più esercizi successivi. Si tratta di ricavi e costi o di parte di essi che concorrono a formare il reddito fiscale in un periodo d’imposta diverso da quello nel quale concorrono a formare il risultato civilistico.
Le imposte sul reddito hanno la natura di oneri sostenuti dall’impresa nella produzione del reddito.

Per il principio della competenza, nel bilancio sono recepite le imposte che:

  • pur essendo di competenza di esercizi futuri, sono esigibili con riferimento all’esercizio in corso (imposte anticipate)
  • pur essendo di competenza dell’esercizio, si renderanno esigibili solo in esercizi futuri (imposte differite).

La loro contabilizzazione deriva, appunto, dalle differenze temporanee tra il valore attribuito a una attività o a una passività secondo criteri civilistici e il valore attribuito a quell’attività o a quella passività ai fini fiscali.

La perdita per un periodo d’imposta può essere normalmente portata a diminuzione del reddito imponibile di esercizi futuri.
Il beneficio fiscale potenziale connesso a perdite riportabili, secondo corretti principi contabili, non è iscritto a bilancio fino all’esercizio di realizzazione dello stesso, salvo che sussistano contemporaneamente le seguenti condizioni:

  1. esiste una ragionevole certezza di ottenere, in futuro, imponibili fiscali che potranno assorbire le perdite riportabili, entro il periodo nel quale le stesse sono deducibili secondo la normativa tributaria
  2. le perdite in oggetto derivano da circostanze ben identificate ed è ragionevolmente certo che tali circostanze non si ripeteranno.

Soprattutto il punto 2 fa cambiare l’orizzonte valutativo degli amministratori, in ordine all’iscrizione in bilancio, venuto meno il termine temporale del riporto delle perdite e quindi, l’arco temporale “vincolato” dei cinque esercizi.
Se sussistono tali condizioni, “il risparmio fiscale connesso a perdite riportabili sarà quindi iscritto nello stato patrimoniale tra le attività per imposte anticipate (Voce C.II. 4-ter), avendo come contropartita a conto economico un accredito della voce 22 – Imposte sul reddito dell’esercizio, correnti, differite e anticipate”.
Secondo il paragrafo H.II. (Perdite fiscali), dell’Oic 25, “un’imposta anticipata derivante da perdite riportabili ai fini fiscali, non contabilizzata in passato in quanto non sussistevano i requisiti per il suo riconoscimento, è iscritta nell’esercizio in cui tali requisiti emergono”.

L’utilizzo delle perdite in Unico SC 2012
La novità “equipara” le perdite ordinarie a quelle realizzate nei primi tre periodi d’imposta. Non vi è un ordine prestabilito nell’utilizzo delle perdite, cioè se siano utilizzabili prima quelle di cui al comma 1 (entro un limite quantitativo) o al comma 2 (senza alcun limite) dell’articolo 84 del Tuir.
Al principio, è stato sostenuto, dalla dottrina, che le imprese avrebbero “consumato” innanzitutto le perdite prodotte nei primi tre periodi d’imposta dalla loro costituzione, le quali consentono l’abbattimento integrale del reddito prodotto. Il criterio di utilizzo prioritario sembrava rispondere, non solo a una regola di convenienza, ma anche a una disciplina contemplata nello stesso articolo 84, nella parte – non modificata dalla norma in esame – in cui si dispone, in via generale (e salve le deroghe espressamente previste) che “la perdita di un periodo […] può essere computata in diminuzione del reddito dei periodi d’imposta successivi […] per l’intero importo che trova capienza nel reddito imponibile di ciascuno di essi”.

L’Agenzia delle Entrate, in occasione dell’annuale appuntamento con Telefisco, il 25 gennaio scorso, ha sostenuto che “la disposizione non stabilisce alcun ordine di priorità nell’utilizzo qualora il contribuente disponga di perdite pregresse in parte riferibili ai primi tre periodi di imposta, in parte ai successivi”, pertanto, “in assenza di regola al riguardo, si ritiene che il contribuente abbia la facoltà (e non l’obbligo) di utilizzare prioritariamente le perdite relative ai primi tre periodi di imposta potendo, in alternativa, scegliere di impiegare dapprima quelle maturate negli esercizi successivi”.

esempio quadro RN con perdite capienti

Nell’esempio n. 1, il contribuente ha un reddito “lordo” pari a 11mila euro, perdite “in misura limitata” (ex articolo 84, comma 1, Tuir) pari a 5mila e perdite “in misura piena” (ex articolo 84, comma 2, Tuir) pari a 6mila euro.

Il limite delle perdite compensabili “in misura limitata” è dato dall’80% di 11mila cioè 8.800 euro, importo, quindi, che risulta essere interamente compensabile rispetto alle perdite “spendibili”.

esempio 2, Quadro N con perdite eccedenti

Nell’esempio n. 2 il reddito “lordo” è sempre pari a 11mila euro. Le perdite “in misura limitata” consistono in 9mila euro e quelle “in misura piena” sono pari a 1.300 euro. Il limite delle perdite compensabili “in misura limitata” è pari all’80% di 11mila, quindi, 8.800. In tal caso, le perdite “a disposizione” non sono interamente utilizzabili rispetto al limite sul reddito “lordo”. Infatti, dei 9mila euro di basket a disposizione, 200 non saranno spendibili, perché superano, appunto, il limite di 8.800 e dovranno essere riportate al periodo d’imposta successivo, per trovare poi compensazione con gli eventuali redditi futuri. L’ammontare a disposizione relativo alle perdite “in misura piena”, pari a 1.300 euro, riduce ulteriormente il reddito imponibile. Nell’esempio proposto, quindi, 247 è l’imposta calcolata sul reddito netto dichiarato pari a 900 (11.000 – 8.800 – 1.300).

perdite di impresa non compensate

Detraibilità delle spese di istruzione – esperto risponde

23 Aprile 2014
Il caso – Sono madre di tre figli e, ogni anno, in occasione della compilazione del modello 730, abbiamo dubbi in merito a quelle che sono le spese di istruzione effettivamente detraibili.
Potremmo avere un quadro completo delle disposizioni attualmente vigenti?

Analisi – In primo luogo merita di essere chiarito che è consentita esclusivamente la detrazione delle spese sostenute per la frequenza di:
– corsi di istruzione secondaria di primo e secondo grado (ovvero le c.d. “scuole medie” e “scuole superiori”);
– universitaria;
– di perfezionamento e/o di specializzazione universitaria;
tenuti presso università o istituti pubblici o privati, italiani o stranieri.

Tuttavia è bene precisare come nel nostro ordinamento, essendo previsto l’obbligo scolastico fino all’età di 16 anni, non può essere rinvenuto alcun vincolo di pagamento delle tasse scolastiche fino al terzo anno delle scuole superiori.

Molto spesso, tuttavia, i genitori corrispondono degli importi all’istituto frequentato dal ragazzo di età inferiore ai 16 anni: in tal caso si deve più correttamente parlare di erogazioni liberali piuttosto che di spese di istruzione.

Le erogazioni liberali in oggetto sono comunque detraibili ai sensi dell’art. 15, comma 1, lettera i-octies) del Tuir, ma in questo caso la detrazione è personale e non spetta se sostenuta nell’interesse dei familiari fiscalmente a carico.
La spesa deve essere finalizzata all’innovazione tecnologica, all’edilizia scolastica e universitaria e all’ampliamento dell’offerta formativa e la detrazione spetta a condizione che il pagamento venga effettuato con versamento postale o bancario o con carte di debito, carte di credito, carte prepagate, assegni bancari e circolari.

Nel caso in cui siano rispettati i requisiti appena richiamati, l’erogazione liberale in oggetto potrà essere indicata nel quadro E, sez. I, righi da E8 a E12, codice 31 (qualora si proceda alla compilazione del modello di dichiarazione 730/2014) oppure nel quadro RP, righi RP8 a RP14, sempre codice 31 (nel caso in cui si opti per la compilazione del modello UnicoPF/2014).

Le spese di istruzione detraibili –
 Sono considerate fiscalmente detraibili tutte le spese sostenute per la frequenza dei corsi di istruzione secondaria e universitaria, compresi i Conservatori di musica e gli istituti musicali pareggiati.
Tali oneri sono deducibili secondo il principio di cassa, nell’esercizio in cui la spesa è stata sostenuta.

Sono altresì detraibili le spese sostenute per la frequenza di istituti privati, ma in tal caso l’importo ammesso in detrazione non può essere superiore a quello che si sarebbe sostenuto per le tasse e i contributi degli istituti statali.

Nel tempo si sono inoltre succeduti diversi chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate, che hanno sancito la detraibilità delle spese sostenute per:
– i corsi di dottorato di ricerca presso l’Università (risoluzione n.11 del 2010);
– i master universitari (circolare n. 101 del 2000);
– i corsi SSiS per l’abilitazione ad insegnare (risoluzione n.77 del 2008);
– i corsi tenuti presso le università telematiche, se istituite e riconosciute con decreto del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (risoluzione n.6 del 2007);
– le spese per la partecipazione alle prove d’accesso ai corsi universitari a numero chiuso (risoluzione n.87 del 2008);
– le soprattasse per esami di profitto e laurea;
– le spese di immatricolazione e iscrizione ad anni fuori corso.
È stato altresì chiarito che le spese sostenute per i corsi di specializzazione per i laureati sono detraibili, purché gli stessi siano riconosciuti dall’ordinamento universitario (circolare n.7 del 1193).
Da ciò ne discende che, per esempio, non sono detraibili le spese sostenute per i corsi di specializzazione organizzati dagli Ordini professionali in vista di eventuali esami di abilitazione.

Sono detraibili anche i corsi presso istituti e università private o straniere, ma in tal caso è necessario far riferimento alla spesa per la frequenza di corsi analoghi tenuti presso le Università statali italiane.

Le spese non detraibili – Si ricorda, infine, che non possono essere considerate detraibili le altre spese sostenute per la frequenza dei corsi di studio, come, ad esempio, quelle per l’acquisto di testi scolastici, di strumenti musicali, di materiale di cancelleria etc. (Risoluzione ministeriale 17/06/80, n. 8/803), nonché gli importi corrisposti per i viaggi ferroviari, vitto e alloggio necessari per consentire la frequenza alle scuole (Risoluzione ministeriale 27/10/80, n. 2/1184).

Autore: Redazione Fiscal Focus

Imposta di registro: il ravvedimento

23 Aprile 2014
Premessa – Con il ravvedimento operoso, il contribuente che abbia commesso una violazione tributaria, formale e/o sostanziale, può rimuoverla spontaneamente, purché non sia iniziata un’attività di controllo, beneficiando di riduzioni automatiche delle sanzioni applicabili. Tale istituto è applicabile anche all’imposta di registro.

Violazioni – Per l’imposta di registro le violazioni sanabili sono l’omessa richiesta di registrazione dell’atto e l’omesso versamento dell’imposta (ad esempio, dell’imposta dovuta per le annualità successive alla prima di un contratto di locazione di durata pluriennale).

Omessa registrazione – Con riferimento alla prima violazione (omessa registrazione), la regolarizzazione avviene in due fasi, dapprima effettuando il versamento dell’imposta, maggiorata degli interessi legali, e della sanzione ridotta, successivamente chiedendo la registrazione dell’atto all’Agenzia delle Entrate. Il ravvedimento si perfeziona con l’ultimo adempimento, cioè con la richiesta di registrazione. È pertanto in relazione a tale adempimento che occorre verificare la tempestività della sanatoria e che non siano iniziate attività di controllo.

Sanzione ridotta – La sanzione base è pari al 120%-240% dell’imposta dovuta (art. 69, D.P.R. 26.4.1986 n. 131). Per effetto del ravvedimento, se la richiesta di registrazione è presentata con ritardo non superiore a 90 giorni, la sanzione applicata è quella prevista dall’art. 13, lett. c), D.Lgs. 18.12.1997, n. 472, pari ad 1/10 del minimo della sanzione base. Come chiarito dalla C.M. 23.7.1998, n. 192, infatti, tale norma riguarda anche l’imposta di registro, in quanto l’espressione “dichiarazione” usata nella specie dal legislatore va intesa in senso lato, quindi comprensiva anche della nozione di “atto” o “denuncia”.

Termine –
 La regolarizzazione può avvenire anche successivamente al novantesimo giorno, purché entro un anno dalla scadenza del termine di presentazione dell’atto alla registrazione. In tal caso, è dovuta la sanzione nella misura di 1/8 del minimo (art. 13, lett. b), D.Lgs. 472/1997).

Omesso versamento – Con riferimento all’omesso versamento dell’imposta, la violazione viene sanata con il versamento di tributo, interessi e sanzione ridotta. La sanzione piena è pari, ai sensi dell’art. 13, co. 2, D.Lgs. 18.12.1997, n. 471: per i versamenti effettuati con un ritardo non superiore a 15 giorni, ad 1/15 del 30% del tributo, per ogni giorno di ritardo; per i versamenti effettuati successivamente al quindicesimo giorno, al 30% dell’imposta dovuta.

Termine –
 Ai sensi delle lett. a) e b) dell’art. 13, D. Lgs. 472/1997, la sanzione ridotta se la regolarizzazione avviene entro 30 giorni dalla scadenza del termine, è pari a 1/10 della sanzione (c.d. ravvedimento sprint o breve, a seconda che intervenga entro i primi 15 giorni o nei successivi). Ad esempio, il versamento di un’imposta di euro 100 con due giorni di ritardo sconterà una sanzione pari a euro 0,4 (euro 100 * 30% sanzione base * 1/15 * 2 giorni ritardo * 1/10 riduzione ravvedimento), cioè pari allo 0,2% del tributo per ogni giorno di ritardo. Se, invece, il pagamento fosse effettuato al sedicesimo giorno di ritardo, la sanzione ridotta sarebbe pari a euro 3 (euro 100 * 30% sanzione base * 1/10 riduzione ravvedimento), cioè pari al 3% del tributo. Infine se la regolarizzazione avviene oltre i 30 giorni, ma entro un anno dalla scadenza del termine di versamento, a 1/8 della sanzione del 30% (c.d. ravvedimento lungo), cioè pari al 3,75% del tributo.

Autore: Redazione Fiscal Focus

La correzione degli errori contabili

9 Aprile 2014
Il caso – In occasione della chiusura dei conti al 31.12.2013 ci siamo accorti come vi siano alcuni errori tra le scritture relative all’anno precedente. Sono importi irrisori e derivano principalmente da alcune piccole fatture per le quali è stato erroneamente registrato il pagamento o spese che sono state registrate due volte. Quale deve essere il corretto comportamento contabile da tenere?

L’analisi – Nel caso in cui sia necessario correggere degli errori in bilancio è necessario ricorrere alla contabilizzazione di una sopravvenienza straordinaria (attiva o passiva).
È bene tuttavia considerare come il principio contabile OIC n. 29 abbia espressamente chiarito che debbano essere necessariamente distinti gli errori determinanti da quelli non determinanti.
Più nello specifico, sono definiti errori determinanti quegli errori che hanno un effetto talmente rilevante sui bilanci su cui essi sono stati commessi che i bilanci medesimi non possono più essere considerati attendibili: nei casi più gravi, in questo caso, può essere addirittura necessario correggere i bilanci degli esercizi precedenti.
Nel caso, invece, degli errori non determinanti, sarà necessario correggerli nell’esercizio stesso in cui essi vengono scoperti, attraverso la rettifica della posta contabile che a suo tempo fu interessata dall’errore, con contropartita la voce afferente alle sopravvenienze straordinarie.
In quanto componenti straordinari di reddito, dette sopravvenienze andranno contabilizzate nella voce “E.20 Proventi straordinari” (sopravvenienze straordinarie attive) o “E.21 Oneri straordinari” (sopravvenienze straordinarie passive).
I movimenti dei conti finanziari- Alcuni problemi potrebbero porsi con riferimento a quegli errori che riguardano esclusivamente componenti finanziarie.
Si pensi, come presentato nel caso di specie, a una fattura per la quale sia erroneamente stato rilevato il pagamento al fornitore.
In questo caso, sebbene i principi contabili nulla dicano in merito, autorevole dottrina ha sottolineato come sarebbe errato movimentare un conto economico.
Secondo quanto prima detto sarebbe infatti necessario movimentare il conto sopravvenienze attive (in contropartita al conto cassa) e sopravvenienza passiva (in contropartita al conto debiti verso fornitori), ma ciò entrerebbe in contrasto con il principio di rappresentazione veritiera e corretta.
Pare pertanto più opportuno stornare i due conti con una scrittura inversa.
In tal caso, la scrittura contabile che dovrà essere effettuata, alla data in cui l’errore viene rilevato, è la seguente: Cassa contanti (dare) a Fornitore (avere).

Autore: Redazione Fiscal Focus

Professionisti: quando il rimborso spese fa reddito

Il Testo unico delle imposte sui redditi, all’articolo 54, definisce la nozione di reddito di lavoro autonomo derivante dall’esercizio di arti e professioni, costituito dalla differenza tra i compensi in denaro o natura percepiti nel periodo di imposta e le spese sostenute nello stesso periodo, in relazione all’attività svolta. Dalla lettura della norma emerge che la tassazione di tali compensi, nonché la deducibilità delle spese, avviene secondo il principio di cassa, e che, in ogni caso, ci si deve trovare innanzi a compensi incassati e spese sostenute inerenti all’attività svolta. A tal proposito, la risoluzione n. 69/E del 2003 ha precisato che rientrano nella nozione di compenso anche i rimborsi spese, a condizione che risultino inerenti alla produzione del reddito di lavoro autonomo.

In generale, i rimborsi spese possono essere suddivisi in tre categorie: le anticipazioni effettuate in nome e per conto del committente, le spese a forfait e i rimborsi a piè di lista.

Le anticipazioni effettuate in nome e per conto del committente, pur debitamente documentate, non rappresentano un reddito per il professionista, anche nel caso in cui siano state sostenute per la produzione del reddito di lavoro autonomo. Il documento di spesa, in questo caso, dovrà essere intestato al cliente, e il professionista non potrà portare in deduzione dal proprio reddito il relativo onere. Parimenti, nel momento in cui il committente provvede al rimborso delle anticipazioni, il professionista dovrà emettere un documento in cui evidenzierà tali anticipazioni che, ai fini Irpef, non saranno soggette a ritenuta d’acconto, e, ai fini Iva, saranno escluse ex articolo 15 del Dpr n. 633/1972.

Nel caso in cui, invece, il professionista sostenga delle spese per conto del cliente, ma a nome proprio, con relativo documento di spesa intestato all’esercente la professione, le stesse concorreranno alla formazione del reddito di lavoro autonomo, saranno soggette a ritenuta d’acconto e saranno imponibili ai fini Iva.
Le spese forfetarie, come peraltro i rimborsi a piè di lista, concorrono a formare il reddito e saranno assoggettate a ritenuta a titolo d’acconto nella misura del 20 per cento, se erogate a soggetti residenti, o del 30 per cento, a titolo di imposta, se erogate a soggetti non residenti; risultano, inoltre, imponibili ai fini Iva. Nel caso in cui il committente riconosca al professionista, oltre al compenso vero e proprio, anche un rimborso forfetario per le spese sostenute, queste ultime saranno deducibili nel limite del 2 per cento del proprio fatturato.

Per quanto attiene ai rimborsi a piè di lista, un discorso a parte meritano le spese relative a prestazioni alberghiere e somministrazioni di alimenti e bevande in pubblici esercizi sostenute dal committente per conto del professionista e da questi addebitate in fattura. Come chiarito dalla circolare 28/E del 2006, ai sensi dell’articolo 36, comma 29, decreto legge n. 223/2006, con effetto dal 4 luglio 2006, tali spese sono integralmente deducibili dal reddito di lavoro autonomo e non soggiacciono al limite del 2 per cento, previsto dal comma 5 dell’articolo 54 del Tuir. La deduzione integrale, però, è subordinata al rispetto di una serie di adempimenti tributari tassativi. In particolare, l’esercente il servizio alberghiero o di ristorazione dovrà consegnare al committente il documento fiscale a lui intestato, con l’esplicito riferimento al professionista che ha usufruito del servizio. Il committente dovrà comunicare al professionista l’ammontare della spesa sostenuta, mediante l’invio della copia della documentazione fiscale ricevuta. Il professionista dovrà emettere la parcella, comprensiva dei compensi e delle spese pagate, al committente, e, qualora siano state rispettate tutte le condizioni, considererà il costo integralmente deducibile. L’impresa committente, infine, solo dopo aver ricevuto la parcella dal professionista, potrà imputare a costo la prestazione, comprensiva dell’importo a titolo di rimborso spese.