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Con la pace fiscale, più gettito e meno contenzioso

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

La semplificazione deve iniziare con il taglio delle liti e una vera sanatoria sulle cartelle di pagamento

Uffici e contribuenti devono evitare le liti inutili. Considerate le recenti novità introdotte in tema di contenzioso e riscossione, è indispensabile un colpo di spugna sul passato. E’ ora di fare pace e chiudere l’enorme contenzioso pendente che negli ultimi mesi è anche aumentato, a seguito della sentenza della Corte costituzionale 37 del 17 marzo 2015, che ha “azzerato” i dirigenti nominati senza concorso dall’agenzia delle Entrate. Così, gli amanti delle liti e del formalismo si appellano alla illegittimità degli atti firmati dai funzionari incaricati, con conseguente richiesta di nullità delle iscrizioni a ruolo. In verità, non è così, anche perché nella stessa sentenza della Corte costituzionale si fa riferimento al principio univoco e consolidato della Cassazione, in base al quale, per la legittimità degli atti, è sufficiente che gli stessi provengano e siano riferibili all’ufficio che li ha emanati. Per la Cassazione, sezione tributaria civile, sentenza 22810/15, udienza del 21 ottobre 2015, depositata il 9 novembre 2015, sono validi gli atti firmati dai dirigenti incaricati o da funzionari delegati. La nullità dell’atto, in quanto sottoscritto da un dirigente incaricato, deve essere eccepita in sede di presentazione del ricorso alla commissione tributaria provinciale. Dopo la sentenza dei giudici di legittimità, si sono però “sgonfiate” notevolmente le aspettative dei contribuenti che hanno intrapreso la strada del contenzioso. In ogni caso, per uffici e contribuenti, è arrivata l’ora di smetterla con i formalismi ingiustificati. La sostanza deve sempre prevalere sulla forma.

Rottamazione cartelle, chiusura liti pendenti e liti potenziali

E’ anche vero che il caos fiscale ha superato ogni limite di umana sopportazione. Tre possono essere le proposte per una vera semplificazione: definizione agevolata delle somme iscritte a ruolo, delle liti pendenti e delle liti potenziali. La sanatoria sulla riscossione consentirebbe anche di superare le polemiche sulle presunte “persecuzioni” di Equitalia e degli altri agenti della riscossione e di incrementare i recuperi dell’evasione da riscossione. Basti pensare che fra il 2000 e il 2012 il Fisco ha iscritto a ruolo importi per circa 807,7 miliardi di euro. Nello stesso periodo, cartelle per 193,1 miliardi sono state cancellate per varie ragioni, per esempio, perché il Fisco ha perso in giudizio contro il presunto debitore, ma gli altri 614,6 miliardi di crediti sono rimasti in piedi e solo 69 miliardi (l’11,2% del totale) sono stati incassati davvero. Il resto, 545 miliardi, è da incassare. Di queste somme, però, è certo che sarà impossibile recuperarne circa 150miliardi di euro, in quanto si tratta di somme a carico di contribuenti falliti. Dai restanti 390miliardi di euro, si dovranno togliere le somme a ruolo a carico di soggetti deceduti o eredi che hanno rinunciato all’eredità e altre somme a carico di contribuenti che non posseggono nulla. Considerato che le somme incassate da Equitalia nei primi sei mesi del 2014 sono di circa 3,7 miliardi di euro, ci vorrebbero 50 anni per incassare le somme iscritte a ruolo. Tenuto conto che di tutte le somme iscritte a ruolo, gli incassi difficilmente potranno arrivare al 5%, una soluzione potrebbe essere quella di riaprire la vecchia sanatoria di cui all’articolo 12 della legge 289/2002, cosiddetta rottamazione cartelle. La riapertura, con gli opportuni “aggiornamenti” sulle somme incluse in ruoli affidati agli agenti della riscossione entro il 30 giugno 2015, potrebbe essere consentita, pagando il 25% dell’importo iscritto a ruolo. Il forfait del 25% delle somme si potrebbe “estendere” anche ai debiti a ruolo per i contributi Inps e per gli altri debiti. Un’altra proposta potrebbe riguardare la riapertura della definizione delle liti pendenti, eliminando però il limite di 20mila euro, che era stato previsto per la precedente definizione che si è chiusa il 2 aprile 2012. Alla chiusura delle liti pendenti, si potrebbe infine “accompagnare” la definizione delle liti potenziali. Si potrebbero così definire gli accertamenti per i quali non sono scaduti i termini per il ricorso; gli inviti al contraddittorio per Iva, imposte dirette o altre imposte indirette; i processi verbali di constatazione, sia della Guardia di Finanza, sia degli uffici, relativamente ai quali non è stato notificato accertamento o ricevuto invito al contraddittorio.

Con la pace fiscale, soldi subito e stop alle liti

Le risorse, che potrebbero arrivare dalla pace fiscale, utili anche per agevolare il D. E. F., documento di economia e Finanza, avrebbero un duplice obiettivo: incassare subito un buon gettito, certo e definitivo, e ridurre notevolmente le liti pendenti. E’ anche vero che in alcuni casi le somme accertate sono esagerate e, con la definizione amichevole, l’incasso sarà sicuramente inferiore alle imposte contestate, ma tenere in vita il contenzioso costa tanto sia agli uffici, sia ai contribuenti, cioè alla collettività. Per il Governo, l’alternativa, oggi più che mai di grande attualità, è perciò quella solita: tanti, troppi soldi, forse mai, o pochi, maledetti e subito. Non si parla di condoni, ma di una tregua per chiudere le tante liti tra Fisco e contribuenti, con gli uffici dell’agenzia delle Entrate, che ormai sono al collasso con il contenzioso da gestire, che sta arrivando a cifre insostenibili che sfiora il milione delle liti pendenti. Soldi subito e basta litigare. Con buona pace per tutti e con benefici per i contribuenti e per le casse dell’erario.

Autore: Salvina Morina e Tonino Morina

Assunzione detenuti e internati: modalità attuative credito d’imposta

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate n.153321 del 27.11.2015

Con il Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate n.153321 del 27.11.2015 sono state definite le modalità attuative del credito d’imposta di cui all’articolo 3 della legge 22 giugno 2000, n. 193, e successive modificazioni, concesso a favore delle imprese che assumono, per un periodo di tempo non inferiore a trenta giorni, lavoratori detenuti o internati, anche quelli ammessi al lavoro esterno ai sensi dell’articolo 21 della legge 26 luglio 1975, n. 354, ovvero detenuti semiliberi provenienti dalla detenzione, o che svolgono effettivamente attività formative nei loro confronti.

Le disposizioni contenute nel presente provvedimento decorrono dal 1° gennaio 2016.

I crediti d’imposta maturati fino al 31 dicembre 2015, non ancora interamente utilizzati in compensazione, sono fruiti dalle imprese, a decorrere dal 1° gennaio 2016, secondo le disposizioni del presente provvedimento, nei limiti dell’importo residuo risultante dalla differenza tra i crediti comunicati all’Agenzia delle Entrate dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia e l’ammontare dei crediti fruiti in compensazione utilizzando il codice tributo 6741, rilevati dall’Agenzia delle Entrate attraverso i modelli F24 presentati successivamente alle comunicazioni del citato Dipartimento.

Il primo step previsto dal Provvedimento riguarda l’individuazione delle imprese beneficiarie. A tal fine il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia trasmette all’Agenzia delle Entrate, entro il 31 dicembre di ciascun anno e con modalità telematiche definite d’intesa, l’elenco delle imprese beneficiarie del credito per l’anno successivo, con l’importo concesso a ciascuna di esse.

Il suddetto credito d’imposta è utilizzabile in compensazione, presentando il modello F24 esclusivamente attraverso i servizi telematici ENTRATEL e FISCONLINE messi a disposizione dall’Agenzia delle Entrate, secondo modalità e termini definiti con provvedimento del Direttore della stessa Agenzia.

Il Provvedimento in commento sancisce che l’Agenzia delle Entrate verifica, per ciascun modello F24 ricevuto, che l’importo del credito d’imposta utilizzato non risulti superiore all’ammontare del beneficio complessivamente concesso all’impresa, al netto dell’agevolazione fruita attraverso i modelli F24 già presentati. Nel caso in cui l’importo del credito utilizzato risulti superiore al beneficio residuo, il relativo modello F24 è scartato e i pagamenti ivi contenuti si considerano non effettuati.

Autore: redazione fiscal focus

Prima casa e abitazione principale: conosciamo la differenza?

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Premessa – Spesso si tende a far confusione tra concetti di “Prima casa” e “Abitazione principale” e pensare che siano la stessa cosa.

Certo in alcuni casi possono coincidere (è il caso di una persona che possiede un solo immobile, nel quale risiede anche con la propria famiglia), ma in altre ipotesi può trattarsi di immobili diversi (è il caso di un soggetto possessore ad esempio di due immobili dove uno dei due è “prima casa” e l’altro è “abitazione principale”).

E’ importante conoscere le differenze poiché a seconda che si tratti di pima casa o seconda casa o si tratti di abitazione principale o abitazione a disposizione sono previste agevolazioni fiscali e normative diverse.

La prima casa – Il concetto di prima casa è di carattere prettamente fiscale, poiché all’atto di stipula del rogito (compravendita, donazione, ecc.) consente di beneficiare di una serie di agevolazioni, quali ad esempio:

  • il pagamento di un’aliquota ridotta per le imposte ipotecaria e catastale in caso di compravendita di un immobile (es. imposta di registro del 2% in luogo del 9%);
  • il pagamento di un’aliquota ridotta per le imposte ipotecaria e catastale in caso di donazione di un immobile;
  • il pagamento di un’aliquota ridotta per le imposte ipotecaria e catastale in caso di successione ereditaria.

In particolare, affinché l’immobile oggetto del rogito possa essere considerato “prima casa”, per l’acquirente, è necessario che siano rispettate le seguenti condizioni (contemporaneamente):

  1. L’immobile deve essere di tipo residenziale e non di lusso (es. categoria A2).
  2. Non essere titolare, neppure per quote o in comunione legale, su tutto il territorio nazionale, di diritti di proprietà, uso, usufrutto, abitazione o nuda proprietà, su altro immobile acquistato, anche dal coniuge, usufruendo delle agevolazioni per l’acquisto della prima casa;
  3. E’ necessario essere residenti o lavorare nel comune dell’immobile, o provvedere a trasferirvi la residenza entro 18 mesi dall’acquisto;
  4. Non essere titolare, esclusivo o in comunione col coniuge, di diritti di proprietà, usufrutto, uso e abitazione, su altra casa nel territorio del Comune dove si trova l’immobile oggetto dell’acquisto agevolato;
  5. Il soggetto acquirente deve essere una persona fisica.

La differenza tra prima casa e abitazione principale, può essere individuata al punto 3) delle predette condizioni. Infatti, il fatto stesso che sia sufficiente lavorare nel comune in cui si acquista la casa o avere in esso la residenza ma non è necessario abitare nella casa da acquistare, ci fa capire come la prima casa possa essere qualcosa di diverso dall’abitazione principale, che è invece quella dove si ha la proprio dimora abituale (cioè la residenza).

Con riferimento alla condizione di cui al punto 3) è previsto che nel caso, per l’acquisto, si facesse un mutuo, per poter poi detrarre fiscalmente gli interessi passivi, la casa che si acquista dovrà diventare abitazione principale (pertanto occorre portarci la residenza) entro 12 mesi e non 18 mesi.

L’abitazione principale – Il concetto di abitazione principale è di carattere prettamente residenziale. In particolare l’abitazione principale coincide con l’immobile in cui il soggetto ha la propria residenza o meglio dimora abituale.

Anche all’abitazione principale sono legate una serie di agevolazioni fiscali, quali ad esempio:

  1. l’esenzione IMU se l’immobile è di categoria catastale non di lusso (es. A/2);
  2. l’applicazione di un’aliquota agevolata IMU e di una detrazione IMU se l’immobile è di categoria catastale di lusso (es. A/1);
  3. la possibilità di detrarre gli interessi passivi del mutuo stipulato per l’acquisto;
  4. altre agevolazioni previste dal comune, come quelle per la stipula dei nuovi contratti relativi alle utenze domestiche (acqua, luce, gas).

Esempio – Si supponga che il sig. Mario sia residente nel comune di Napoli e l’immobile (cat. A/2) in cui ha la residenza è di sua proprietà in seguito a successione per decesso del padre (l’immobile non è stato oggetto di precedente agevolazione prima casa). Tale immobile, dunque, rappresenta la sua “abitazione principale”.

Il sig. Mario decide di acquistare un secondo immobile (cat. A/2) situato nel comune di Caserta (intestandolo interamente a se stesso). Il comune di Caserta rappresenta altresì il proprio luogo di lavoro. In tale ipotesi, lasciando la residenza nell’attuale immobile di Napoli, ne consegue che il secondo immobile acquistato può essere considerato “prima casa” e quindi beneficiare delle relative agevolazioni fiscali mentre l’immobile in cui lascia la residenza continua ad essere la sua “abitazione principale”.

Dunque, il sig. Mario è proprietario di due immobili di cui uno è “prima casa” e l’altro “abitazione principale”.

Autore: PIRONE PASQUALE

Gestione separata INPS e cumulo di contributi: c’è possibilità di pensione

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Premessa – Spesso può accadere che un soggetto abbia maturato i requisiti contributivi previsti dalla normativa pensionistica per poter accedere alla pensione, ma ha contributi versati in più gestioni previdenziali gestite dall’INPS (esempio gestione separata, gestione dipendenti e gestione ex Inpdap). Si tratta di anni contributivi che se presi singolarmente non permetterebbero di maturare il diritto alla pensione poiché non si raggiungono i requisiti pensionistici previsti per una specifica gestione ma che se sommati (e quindi ricongiunti) potrebbero consentire l’accesso alla pensione con la gestione separata poiché questa rappresenta l’ ultima posizione previdenziale cui si era iscritti.

In particolare, la possibilità di ricongiungere alla gestione separata i periodi contributivi versati alle altre gestioni previdenziali è espressamente prevista dall’art. 3 DM n. 282/1996 in cui è disposto che “gli iscritti alla gestione separata che possono far valere periodi contributivi presso l’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti, le forme esclusive e sostitutive della medesima, le gestioni pensionistiche dei lavoratori autonomi di cui alla legge n. 233 del 1990 hanno facoltà di chiedere nell’ambito della gestione separata il computo dei predetti contributi, ai fini del diritto e della misura della pensione a carico della gestione stessa, alle condizioni previste per la facoltà di opzione di cui all’art. 1, comma 23, della legge n. 335 del 1995”.

I requisiti necessari per l’esercizio della facoltà e i chiarimenti dell’INPS – Il predetto art. 3 DM n. 282/1996, dunque, consente l’utilizzo nella gestione separata dei periodi contributivi di lavoro dipendente e di lavoro autonomo presenti in altre gestioni previdenziali.

Per avvalersi di questa facoltà è necessario avere i requisiti richiesti per esercitare l’opzione al sistema contributivo e cioè:

  1. un’anzianità contributiva inferiore a 18 anni al 31/12/1995;
  2. possesso di almeno 15 anni di contribuzione di cui 5 dopo il 31/12/1995.

In merito al requisito di cui al punto 1), l’INPS con la circolare n. 184 del 18 novembre 2015 ha chiarito che occorre far riferimento all’anzianità complessivamente maturata entro la data del 31/12/1995 computando tutta la contribuzione (obbligatoria, figurativa, volontaria e da riscatto) posseduta dal soggetto, al momento dell’esercizio della facoltà in questione, nelle gestioni indicate dall’articolo 3 del D.M. n. 282/96 purché non ancora utilizzata per la liquidazione di un trattamento pensionistico e eventuali periodi coincidenti temporalmente saranno conteggiati una sola volta.

Inoltre, sono esclusi dal computo i soggetti iscritti per la prima volta dopo l’1/1/1996 (c.d. contributivi “puri”) ed anche i soggetti che, al 31/12/1995, sono in possesso di sola contribuzione in gestioni non rientranti nell’ambito di applicazione del citato articolo 3 ( es. in Casse professionali) o la cui contribuzione, anteriore all’ 1/1/1996, ha già dato luogo ad un trattamento pensionistico.

In merito al requisito di cui al punto 2), con la stessa circolare n. 184 l’istituto di previdenza chiarisce che anche in tal caso si prenderà in considerazione tutta la contribuzione (obbligatoria, figurativa, volontaria e da riscatto), posseduta dal soggetto nelle gestioni indicate dall’articolo 3 del D.M. n. 282/1996, non sovrapposta temporalmente e non ancora utilizzata per la liquidazione di un trattamento pensionistico.

I requisiti di anzianità contributiva necessari per la facoltà di computo sono perfezionati anche sulla base del cumulo dei periodi assicurativi risultanti negli Stati membri dell’Unione europea e negli Stati con i quali sono in vigore accordi bilaterali di sicurezza sociale che prevedono la totalizzazione dei periodi per il diritto alle prestazioni.

Infine, si precisa che non è condizione ostativa all’esercizio della facoltà in parola, la circostanza che il soggetto richiedente abbia già maturato il diritto a pensione in una delle gestioni interessate dal computo o sia già titolare di trattamento pensionistico in un qualsiasi fondo.

Le prestazioni pensionistiche conseguibili – L’esercizio della facoltà di computo di cui all’art. 3 D.M. n. 282/1996 è utile ai fini del conseguimento di:

  • pensione di vecchiaia;
  • pensione anticipata;
  • pensione di inabilità;
  • assegno ordinario di invalidità;
  • pensione indiretta ai superstiti;
  • pensione supplementare.

La pensione sarà erogata dalla gestione separata e quindi soggiace alla normativa prevista per i trattamenti erogati nella suddetta gestione (es. almeno 5 anni di contribuzione versata nella predetta gestione).

La domanda – Come chiarito nella circolare n. 184/2015, trattandosi di una “facoltà”, il soggetto interessato deve fare esplicita richiesta del computo nella stessa domanda di pensione e in mancanza la sede INPS cui è stata presentata domanda non è tenuta ad applicare d’ufficio l’istituto in questione.

Con l’esercizio della facoltà, il soggetto interessato consegue la pensione di vecchiaia in gestione separata in base ai requisiti anagrafici e contributivi indicati nella circolare INPS n. 35/2012 (fissati dalla legge n. 2014/2011). E’ possibile, altresì, conseguire la pensione anticipata in gestione separata con i requisiti di cui al punto 2.2. della stessa circolare n. 35 del 2012.

Quindi, ad esempio, nel 2016, potrebbe fare domanda di pensione anticipata con cumulo nella gestione separata (sempre se sussistono i requisiti per l’esercizio dell’opzione) chi compie 63 anni e 7 mesi di età ed ha 20 anni di contribuzione effettiva (di cui 5 nella gestione separata).

Autore: Pirone Pasquale

ANTIRICICLAGGIO: contratti di locazione e obblighi per gli avvocati

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Il caso – L’avvocato è tenuto a rispettare gli adempimenti previsti dalla disciplina antiriciclaggio nel caso in cui provveda a redigere un contratto di locazione o comodato?

Si rientra in questo caso nell’ipotesi di cui all’articolo 12, comma 1, lettera b) del D.Lgs. n.231/2007 “gestione di denaro, strumenti finanziari o altri beni”?

L’analisi – Come noto, il D.Lgs. n. 231/2007 non fornisce un elenco dettagliato delle operazioni al ricorrere delle quali devono scattare gli obblighi di adeguata verifica della clientela, né per i dottori commercialisti ed esperti contabili, né per gli avvocati.

Con specifico riferimento agli avvocati e ai notai viene tuttavia chiarito che questi ultimi sono tenuti ad osservare gli obblighi in materia di antiriciclaggio:

  • quando in nome o per conto dei propri clienti, compiono qualsiasi operazione di natura finanziaria o immobiliare
  • quando assistono i propri clienti nella predisposizione o nella realizzazione di operazioni riguardanti:
    1. il trasferimento a qualsiasi titolo di diritti reali su beni immobili o attività economiche;
    2. la gestione di denaro, strumenti finanziari o altri beni;
    3. l’apertura o la gestione di conti bancari, libretti di deposito e conti di titoli;
    4. l’organizzazione degli apporti necessari alla costituzione, alla gestione o all’amministrazione di società;
    5. la costituzione, la gestione o l’amministrazione di società, enti, trust o soggetti giuridici analoghi.

I contratti di affitto e di locazione

Con specifico riferimento alla redazione dei contratti di affitto, nel tempo si sono avute interpretazioni contrastanti.
Il Consiglio Nazionale Forense con il parere 24 ottobre 2012, n. 62 (Rel. Cons. Merli), ha chiarito che “non esiste, in linea generale, obbligo di segnalazione e/o di adeguata verifica con riferimento ai contratti di locazione, in quanto essi non trasferiscono diritti reali e non costituiscono un’attività economica
Viene tuttavia successivamente chiarito che occorre prestare particolare attenzione a tutti quei casi in cui il contratto di locazione o affitto generi nell’avvocato il sospetto di riciclaggio o di finanziamento al terrorismo (si pensi, a tal proposito, ad un contratto di locazione che preveda un canone decisamente troppo alto per i normali standard di mercato).
Si vuole aggiungere al quadro tracciato dal parere del Consiglio Nazionale Forense che, ai sensi dell’articolo 16 del D.Lgs. 231/2007, scattano gli obblighi di adeguata verifica della clientela “quando vi è sospetto di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo, indipendentemente da qualsiasi deroga, esenzione o soglia applicabile
Si rende inoltre necessaria la segnalazione dell’eventuale operazione sospetta.

L’interpretazione del Mef

Questa prima interpretazione del Consiglio Nazionale Forense è stata tuttavia successivamente smentita dal Mef, il quale ha chiarito che anche l’assistenza fornita da un legale nella predisposizione di un contratto di locazione configura un’attività di “gestione di denaro, strumenti finanziari o altri beni” ex art. 12, comma 1, lett. c), n. 2, D.Lgs. n. 231/2007.
Pertanto, anche in questo caso, l’avvocato sarà tenuto ad osservare gli obblighi antiriciclaggio contenuti nel D.Lgs. n. 231/2007, allo stesso modo di quanto previsto per i dottori commercialisti ed esperti contabili.
È stato inoltre chiarito che, in tutti i casi, il limite dei 15.000 euro (al di sopra del quale scattano gli obblighi di adeguata verifica della clientela) deve essere riferito al canone periodico previsto dal contratto.
Pertanto:

  • nel caso in cui sia stato stipulato un contratto nel quale è prevista la corresponsione di un canone semestrale di importo pari a 16.000 euro scattano gli obblighi di adeguata verifica della clientela,
  • se, nello stesso contratto, è previsto un canone mensile di euro 1.500 il professionista non sarà chiamato a rispettare gli obblighi di adeguata verifica della clientela (sebbene, paradossalmente, il canone annuale sia maggiore).

Si ricorda, infine, che nel caso di contratto di affitto/di locazione devono essere identificate entrambe le parti, ovvero sia il locatore che il conduttore.

I contratti di comodato
Con specifico riferimento ai contratti di comodato, invece, con i chiarimenti UIC del 27 marzo 2007 è stato affermato che questi ultimi costituiscono operazione da registrare, qualora il valore della cosa data in consegna sia superiore a 15.000 euro.
Data la gratuità della prestazione non potrà invece farsi riferimento, ovviamente, al valore del corrispettivo.

Autore: redazione fiscal focus

Assegnazione, estromissione, trasformazione agevolata: le opzioni a confronto

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Il DDL di Stabilità 2016 prosegue il cammino verso la definitiva approvazione e sembra che siano in dirittura d’arrivo l’insieme delle misure che permettono alle imprese di far fuoriuscire beni con un impatto fiscale “light”, nonché porre in essere una trasformazione in società semplice. A seconda dei casi si potrà scegliere tra le varie possibilità concesse dal Legislatore.

Ambito soggettivo – Da un punto di vista soggettivo, l’estromissione riguarda le sole imprese individuali, mentre assegnazione e trasformazione riguardano le società, di persone o di capitali.

Ambito oggettivo –Differenze sussistono per ciò che riguarda i beni “agevolabili”.

L’assegnazione non è rivolta a tutti beni dell’impresa, ma si limita l’applicazione:

  • ai beni immobili (tranne quelli strumentali per destinazione);
  • ed ai beni mobili iscritti in pubblici registri non utilizzati quali beni strumentali nell’esercizio dell’impresa.

L’estromissione è invece possibile per i soli beni strumentali, per natura o per destinazione. Nella trasformazione agevolata ciò che conta è che la società che intende trasformarsi deve avere per oggetto esclusivo o principale la gestione di beni immobili o di beni mobili registrati.

Esercizio dell’opzione, base imponibile e aliquote – L’esercizio dell’opzione deve avvenire entro il 30 Settembre 2016, fatta eccezione per l’estromissione che deve avvenire entro il 31 Maggio 2016. L’aliquota dell’imposta sostitutiva è pari all’8% per assegnazione, estromissione e trasformazione agevolata.

Eccezioni sono previste per l’assegnazione da parte della società nel caso in cui si verifica la condizione di non operatività in almeno due periodi d’imposta nel triennio 2013-2015 (aliquota 10,5%) e nel caso della presenza di riserve in sospensione d’imposta annullate per effetto dell’assegnazione o presenti nel patrimonio della società che si trasforma (aliquota 13%).

Il vero elemento di novità è la determinazione della base imponibile costituita dalla differenza tra il valore del bene ed il suo costo fiscalmente riconosciuto. Il valore del bene andrà definito in riferimento al suo valore catastale.

Per ciò che riguarda in particolare l’assegnazione, si da la possibilità al contribuente che aderisce al regime agevolativo di poter optare tra le seguenti scelte:

  • il valore di mercato così come definito dall’art. 9, D.P.R. 917/1986;
  • il valore catastale utilizzando i moltiplicatori ex art. 52, D.P.R. 131/1986.

Optando per il valore catastale si dovrà procedere a porre in essere il seguente calcolo:

  • rendita catastale + il 5% della rendita catastale * i moltiplicatori ex art. 52, D.P.R. 131/1986.

Per i terreni la rendita catastale andrà rivalutata del 25%.

Versamento imposta sostitutiva – In tutti i casi analizzati il versamento dell’imposta sostitutiva andrà effettuato:

  • il 60% entro il 30.11.2016;
  • il restante 40% entro il 30.06.2017.
Autore: redazione fiscal focus

Contratto di locazione: l’APE può essere “autodichiarato”

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Premessa – L’ A.P.E. (Attestato di Prestazione Energetica) è un documento che descrive le caratteristiche energetiche di un edificio, di un abitazione o di un appartamento.

Al momento della vendita (e quindi dell’acquisto) o della locazione di un immobile, oltre ad essere obbligatorio, è utile per informare sul consumo energetico e aumentare il valore degli edifici ad alto risparmio energetico.

È redatto da un “soggetto accreditato” chiamato certificatore energetico che solitamente è un tecnico abilitato alla progettazione di edifici e impianti come l’architetto, l’ingegnere e il geometra (la formazione, la supervisione e l’accreditamento dei professionisti sono gestiti dalle Regioni con apposite leggi locali).

L’A.P.E.in caso di compravendita o locazione – Dunque, prima della stipula di un contratto di compravendita o di locazione avente ad oggetto un immobile, il proprietario deve obbligatoriamente dotarsi dell’A.P.E.

Infatti, l’art. 6, comma 2, primo periodo, del D.lgs. n. 192/2005 (così come sostituito dall’art. 6 della legge n. 90 del 2013) espressamente dispone che “nel caso di vendita, di trasferimento di immobili a titolo gratuito o di nuova locazione di edifici o unità immobiliari, ove l’edificio o l’unità non ne sia già dotato, il proprietario è tenuto a produrre l’attestato di prestazione energetica”.

Il successivo secondo periodo dello stesso comma 2 dispone altresì che “in tutti i casi, il proprietario deve rendere disponibile l’attestato di prestazione energetica al potenziale acquirente o al nuovo locatario all’avvio delle rispettive trattative e consegnarlo alla fine delle medesime; in caso di vendita o locazione di un edificio prima della sua costruzione, il venditore o locatario fornisce evidenza della futura prestazione energetica dell’edificio e produce l’attestato di prestazione energetica entro quindici giorni dalla richiesta di rilascio del certificato di agibilità”.

Dunque, si evince, che l’A.P.E. deve essere esistente sin dall’inizio della trattativa e il venditore o locatore deve consegnarlo all’altra parte al momento della definitiva stipula del relativo contratto di vendita o di locazione.

L’obbligo di allegare l’A.P.E. al contratto – Il successivo comma 3 del novellato art. 6 D.lgs. n. 192/2005 dispone che “nei contratti di compravendita immobiliare, negli atti di trasferimento di immobili a titolo oneroso e nei nuovi contratti di locazione di edifici o di singole unità immobiliari soggetti a registrazione è inserita apposita clausola con la quale l’acquirente o il conduttore dichiarano di aver ricevuto le informazioni e la documentazione, comprensiva dell’attestato, in ordine alla attestazione della prestazione energetica degli edifici; copia dell’attestato di prestazione energetica deve essere altresì allegata al contratto, tranne che nei casi di locazione di singole unità immobiliari”.

Dunque, non vi è più previsto l’obbligo di allegare l’ A.P.E. ai contratti di cessione a titolo gratuito di immobili e ai contratti di locazione di singole unità abitative ed è stato previsto, invece, l’obbligo di inserire nel contratto di locazione (o di cessione dell’immobile a titolo gratuito)una clausola con la quale “il conduttore dichiara di aver ricevuto le informazioni e la documentazione, comprensiva dell’attestato, in ordine alla attestazione della prestazione energetica degli edifici”.

Dunque, l’obbligo della predetta clausola può considerarsi come una vera e propria “autocertificazione” con cui il locatore e conduttore dichiarano di essere in possesso del certificato A.P.E.

L’obbligo di allegare la certificazione resta fermo, invece, per i contratti di nuova locazione aventi per oggetto interi edifici e non singole unità immobiliari.

Riepilogando, vi è obbligo di allegare l’A.P.E. ai contratti di compravendita (aventi ad oggetto sia interi edifici che singole unità abitative) e ai contratti di locazione (o trasferimento a titolo gratuito) aventi ad oggetto solo interi edifici. Non vi è, inveve, obbligo di allegare A.P.E. ai contratti di locazione (o trasferimento a titolo gratuito) aventi ad oggetto singole unità immobiliari.

Il regime sanzionatorio – Ai sensi della nuova disciplina varata dal DL 23 dicembre 2013, n. 145, sono previste esclusivamente sanzioni amministrative (non è più prevista la sanzione della nullità del contratto). Dall’1 ottobre 2015, il regime sanzionatorio prevede le seguenti sanzioni:

  • in caso di violazione dell’obbligo di dotare di un attestato di prestazione energetica gli edifici di nuova costruzione e quelli sottoposti a ristrutturazioni importanti, il costruttore o il proprietario è punito con la sanzione amministrativa non inferiore a 3.000 euro e non superiore a 18.000 euro;
  • In caso di violazione dell’obbligo di dotare di un attestato di prestazione energetica gli edifici o le unità immobiliari nel caso di vendita, il proprietario è punito con la sanzione amministrativa non inferiore a 3.000 euro e non superiore a 18.000 euro;
  • in caso di violazione dell’obbligo di dotare di un attestato di prestazione energetica gli edifici o le unità immobiliari nel caso di nuovo contratto di locazione, il proprietario è punito con la sanzione amministrativa non inferiore a 300 euro e non superiore a 1.800 euro;
  • in caso di omessa dichiarazione o allegazione, se dovuta, le parti sono soggette al pagamento, in solido e in parti uguali, della sanzione amministrativa pecuniaria da euro 3.000 a euro 18.000; la sanzione è da euro 1.000 a euro 4.000 per i contratti di locazione di singole unità immobiliari e, se la durata della locazione non eccede i tre anni, essa è ridotta alla metà. Il pagamento della sanzione amministrativa non esenta comunque dall’obbligo di presentare la dichiarazione o la copia dell’attestato di prestazione energetica entro 45 giorni.
Autore: Pasquale Pirone

Forfettari e minimi: il calcolo dell’acconto

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Premessa – Il contribuente che per effetto delle norme transitorie ha mantenuto il regime dei minimi di cui alla Legge 244/2007 (art. 1 comma 117) adottato fin già dal 2014 anche per il periodo d’imposta 2015 deve calcolare l’acconto con le regole previste per tale regime. In pratica l’acconto va calcolato adottando il metodo storico, nella misura del 100% di quanto dovuto a titolo di imposta complessiva per il 2014. In particolare si dovrà fare riferimento al rigo LM14 di Unico 2015.

Regime dei minimi – I soggetti che nel 2014 hanno applicato il regime dei minimi possono determinare l’acconto 2015 sia con il metodo storico che con il metodo previsionale. Con riferimento agli acconti occorre evidenziare quanto segue:

  • il regime dei minimi non prevede l’assoggettamento ad IRAP e quindi i soggetti in esame non sono tenuti al versamento del relativo acconto;
  • va verificata la necessità di versare l’acconto IRPEF 2015 qualora dal Mod. UNICO 2015 risulti, oltre all’imposta sostitutiva, anche un’IRPEF dovuta (derivante dal possesso di altri redditi di natura diversa rispetto a quelli conseguiti in regime dei minimi, ordinariamente assoggettati a tassazione).

Fuoriuscita minimi – I contribuenti che fuoriescono dal regime dei minimi (ad esempio, a partire dal 1° gennaio 2015) e adottano il regime ordinario, determineranno il reddito 2015 nei modi ordinari assoggettando lo stesso ad IRPEF. Considerando il meccanismo di scomputo previsto nel quadro RN, Mod. UNICO PF, i soggetti fuoriusciti dal regime versano l’acconto dell’imposta sostitutiva (ancorché per lo stesso periodo siano soggetti all’IRPEF) che successivamente verrà fatta “confluire” nell’IRPEF. In sostanza, tali contribuenti versano l’acconto 2015 utilizzando i codici tributo previsti per l’imposta sostitutiva e dovranno indicare quanto versato a tale titolo a rigo RN38, colonna 4, Mod. UNICO 2016 PF.

Regime forfettario – I contribuenti che, a partire dal 01.01.2015, hanno optato, o sono naturalmente transitati per il regime forfettario di cui all’articolo 1, commi da 54 a 89, della legge 190/2014, non devono per quest’anno versare alcun acconto con riferimento all’imposta sostitutiva dovuta con aliquota del 15%. Il contribuente che proviene dal regime ordinario, transitando ad un regime con imposta sostitutiva, può valutare l’ipotesi di una determinazione dell’acconto IRPEF in via previsionale, non considerando il reddito d’impresa/lavoro autonomo.

Calcolo previsionale – Il contribuente che, nel 2015, è transitato per obbligo o per opzione nel regime forfettario provenendo da un regime ordinario dovrà valutate attentamente il da farsi. Sul punto va detto che manca nel regime forfettario di cui alla legge di Stabilità 2015 una disposizione analoga a quella prevista all’abrogato articolo 1, comma 117, della legge 244/2007 che obbligava i “minimi” a considerare anche in sede di calcolo previsionale le regole ordinarie e non quelle del regime agevolato. Pertanto, in assenza di indicazioni previste in tal senso, il contribuente in questi casi potrebbe validamente procedere a rideterminare l’acconto non su basi storiche ma su quelle previsionali arrivando per questi versi anche ad azzerare quanto dovuto.

Inizio attività forfettario – Per chi ha iniziato l’attività direttamente nel nuovo regime forfettario non ci sono problemi di sorta poiché; la norma istitutiva del nuovo sistema contabile si limita a stabilire che il pagamento dell’imposta sostitutiva (del 15%) va effettuato negli stessi termini e con le modalità previste per il versamento Irpef. Secondo il metodo storico il contribuente non è tenuto a versare acconti relativi all’imposta sostitutiva.

Autore: Devis Nucibella

Legge di Stabilità 2016: taglio IRES rinviato al 2017

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Il taglio IRES è rinviato al 2017. E’ quanto affermato dal primo Ministro Matteo Renzi nella Sala degli Orazi e Curiazi dei Musei Capitolini a Roma durante l’evento “Italia, Europa: una risposta al terrore”.

In effetti il rinvio era già contenuto nel DDL di Stabilità 2016, prevedendo una riduzione “anticipata” al 2016 a condizione dell’ottenimento del via libera quasi vincolante dei competenti organi Europei. Ora invece, a seguito dell’allarme terrorismo, la priorità è la sicurezza.

Taglio IRES: 2016 o 2017? – Per quanto riguarda il taglio dell’IRES, nel disegno di legge veniva rinviata al 2017 il taglio dal 27,5% al 24% dell’IRES, salvo anticipare, come precedentemente accennato, la riduzione al 2016 condizionata all’ottenimento di maggiore flessibilità nei conti da parte dell’Unione Europea.

In particolare sarebbe stato possibile anticipare il taglio IRES al 2016 se la Commissione Ue avesse riconosciuto lo 0,2% di flessibilità sul deficit, circa 3,3 miliardi, per l’evento migratorio eccezionale. Come sottolineato dal Ministro Padoan nella lettera inviata all’UE “il costo degli eventi eccezionali migratori è pari a 3,1 miliardi, 0,2 del Pil. E ove questa clausola sia riconosciuta, noi anticiperemo al 2016 misure che abbiamo già previsto per il 2017, segnatamente l’Ires, segnatamente i denari per ulteriori investimenti sull’edilizia scolastica. Si tratta, in attesa di Bruxelles, di un’approvazione condizionata”.

La risposta della UE non è ancora arrivata in via definitiva, ma tutto faceva presagire l’esito positivo della richiesta italiana. Nonostante ciò si è deciso di non anticipare la riduzione del taglio IRES al 2016. Nessuna incidenza dell’aumento delle risorse per la sicurezza, che non confluiscono nei calcoli del rapporto deficit/pil.

Bonus 80 euro esteso alle forze dell’ordine – Altra importante novità annunciata dal Premier è l’estensione del bonus 80 euro a tutte le donne e gli uomini che lavorano con le forze dell’ordine a cominciare da chi sta sulla strada.

Autore: redazione fiscal focus

Limite di spesa più alto per il bonus mobili

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Detrazione per chi acquista l’abitazione aumentata a 16.000 €

Premessa – La commissione bilancio del Senato ha modificato il testo del disegno di legge di stabilità 2016 alzando da 10.000 a 16.000 la spesa massima su cui si calcola la detrazione Irpef del 50% per l’acquisto di mobili da parte di “giovani coppie”.

Bonus mobili – Come noto l’articolo 16 co. 2 del D.L. n.63/2013 (più volte prorogato) ha introdotto il “bonus mobili”, che consiste nel fatto che i contribuenti che fruiscono della detrazione per interventi di recupero del patrimonio edilizio possono fruire di un’ulteriore riduzione d’imposta per l’acquisto di mobili e di grandi elettrodomestici di classe energetica non inferiore alla A+ (A per i forni), per le apparecchiature per le quali sia prevista l’etichetta energetica, finalizzati all’arredo di immobili oggetto di ristrutturazione. Tale agevolazione prorogata da ultimo dalla legge di stabilità 2015 fino al 31.12.2015 risulta oggetto di ulteriore proroga fino al 31.12.2016 sulla base di quanto previsto dal disegno di legge di stabilità 2016.

Agevolazione per giovani coppie – Ma la novità sta nel fatto che al “bonus Mobili” tradizionale si aggiunge un nuovo incentivo fiscale, esclusivamente per giovani coppie: una detrazione Irpef del 50% per l’acquisto di mobili (non per i grandi elettrodomestici) ad arredo dell’unità immobiliare, acquistata dagli stessi e “da adibire ad abitazione principale”. Il limite delle spese agevolabili è di 16.000 euro, quindi, la detrazione Irpef massima sarà di 8.000 euro da ripartire in 10 anni.

Scopo – Obiettivo, incentivare il mercato delle compravendite immobiliari dopo quello delle ristrutturazioni edilizie. Per la prima volta questo legame stretto fra le due agevolazioni (lavori e mobili) sarebbe superato e subentrerebbe invece un’altra condizione necessaria per ottenere lo sgravio: l’acquisto di una casa (abitazione principale).

Copertura – Il mancato gettito Irpef dovuto al raddoppio del bonus mobili sarà coperto dal Fondo per interventi strutturali di politica economica. Questo fondo è stato costituito nel 2005 presso il Mef con una dote di 2,2 miliardi di entrate stimate dalla sanatoria edilizia, ora scesa al minimo di 30 milioni (annualità 2016). Per la copertura necessaria al raddoppio del bonus l’emendamento attinge al rifinanziamento del Fondo – per 300 milioni l’anno a partire dal 2016 – previsto dallo stesso ddl Stabilità.

Ambito soggettivo – L’agevolazione spetta alle giovani coppie che costituiscono “un nucleo familiare composto da coniugi”, prima del pagamento della spesa (è sufficiente essere sposati dal giorno prima) oppure conviventi more uxorio che abbiano costituto un nucleo da almeno tre anni. In entrambe le ipotesi uno dei due componenti non deve aver superato i 35 anni.

Ambito temporale – L’acquisto dei mobili deve avvenire dal 1.1.2016 al 31.12.2016 e trattandosi di persone fisiche sarà rilevante il principio di cassa. Non è invece chiaro il momento in cui la coppia deve essere proprietaria dell’immobile, dal testo del disegno di legge non è previsto espressamente che la casa venga acquistata nello stesso periodo d’imposta. Ancora meno chiaro risulta il termine entro cui l’immobile deve essere adibito ad abitazione principale.

Autore: redazione fiscal focus

Rivalutazione beni d’impresa: le problematiche non risolte

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Si potrebbe finalmente dare una svolta applicativa alla possibilità di rivalutazione

Il disegno di legge di Stabilità 2016 prevede la riapertura dei termini per la rivalutazione dei beni d’impresa; si fa riferimento ai beni risultanti nel bilancio riferito al periodo d’imposta in corso alla data del 31 dicembre 2014 che possono essere oggetto di rivalutazione nel 2015.

La legge di stabilità 2016 quindi riprende la possibilità di rivalutare i beni d’impresa.

Possono ricorrere alla rivalutazione i soggetti indicati nell’art.73 del TUIR, che non adottano i principi contabili internazionali ai fini della redazione del bilancio; i suddetti soggetti possono, in deroga a quanto previsto dall’art. 2426 c.c., rivalutare i beni d’impresa, materiali ed immateriali, e le partecipazioni in società controllate e collegate ai sensi dell’art. 2359 c.c. costituenti immobilizzazioni, ad eccezione degli immobili alla cui produzione o scambio è diretta l’attività d’impresa (c.d. immobili merce), risultanti dal bilancio d’esercizio in corso al 31 dicembre 2014.

Il maggior valore attribuito ai beni rivalutati si considera riconosciuto ai fini IRES/IRPEF ed IRAP e delle relative addizionale a decorrere dal terzo esercizio successivo a quello con riferimento al quale la rivalutazione è stata effettuata, mediante il versamento di un’imposta sostitutiva:

  • del 16% per i beni ammortizzabili
  • del 12% per i beni non ammortizzabili.

In altri termini, il riconoscimento dei maggiori valori si ha a partire dal 2018.

Analisi criticità – Analizzando con un approccio critico la riproposizione della rivalutazionenella Legge di Stabilità 2016 si deve comunque mettere in risalto come nel corso degli anni, sia stata molto limitata la risposta delle imprese alla possibilità di procedere alla rivalutazione dei beni; bisogna, affinchè il ricorso a tale procedura diventi più conveniente e sensato, cercare di capire quali sono gli aspetti intrinsechi che hanno determinato lo scarso appeal e intervenire per far si che tale strumento diventi effettivamente utile e conveniente rispetto a quelle che sono le reali necessita dell’impresa stessa.

Quali sono le ragioni che hanno portato ad uno scarso ricorso a tale procedura?

In primis si ricorda che, la rivalutazione deve obbligatoriamente operare sia ai fini fiscali sia ai fini civilistici; non è quindi possibile optare per una delle due scelte; ma quale sarebbe il motivo per il quale un’impresa dovrebbe decidere di procedere alla rivalutazione e quindi pagare un’imposta sostitutiva in un’unica soluzione per poi avere degli effetti fiscali positivi solo qualche anno dopo? Ricordiamo inoltre che la rivalutazione del bene al netto dell’imposta sostitutiva versata concorre alla formazione del reddito. Quindi si individuano già due profili critici, ossia, le non appetibili aliquote sostitutive, e l’obbligatorietà di procedere sia ad una rivalutazione civile sia fiscale. Perché quindi non riammettere la possibilità di rivalutare solo in bilancio vista la sempre più crescente necessità di avere bilanci sempre più attendibili?

Un altro aspetto sul quale si pone l’accento è quello che riguarda i terreni sottostanti e pertinenziali ai fabbricati da rivalutare; la circolare 13/E/2014 stabilisce che “ ai fini della rivalutazione i terreni sottostanti e pertinenziali vanno compresi nella categoria omogenea dei beni non ammortizzabili mentre i fabbricati, se strumentali, vanno considerati come beni ammortizzabili e quindi rientrano nell’apposita categoria”.

Sarebbe tutto chiaro sennonché la categoria indicata per i beni non ammortizzabili non esiste, se non solo ai fini dell’aliquota da applicare.

Quindi i terreni sottostanti e pertinenziali ai fabbricati da rivalutare in quale categoria omogenea rientrano?

Parliamo di criticità fortemente limitanti, e per questo che il legislatore dovrebbe porre enfasi su tali fattori, modificando alcune disposizioni e rendere finalmente conveniente per l’impresa, ricorrere ad un istituto che finora si è caratterizzato per potenzialità nascoste piuttosto che espresse.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Antiriciclaggio: anche gli avvocati coinvolti

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Ci sono adempimenti che vengono spesso dimenticati. Più che dimenticati, si potrebbe più correttamente dire, soffocati: soffocati da tutti gli altri adempimenti, quelli per i quali la scadenza è più imminente e deve essere necessariamente rispettata.

Tutto il resto viene quindi relegato tra le formalità rinviabili ad una data imprecisata: fino a quando, almeno, non scattano le sanzioni.

Stiamo parlando della disciplina antiriciclaggio, e di tutti quegli adempimenti che la stessa ci obbliga a rispettare: adempimenti che possono apparire soltanto formali, ma dietro ai quali si nasconde un apparato sanzionatorio di tutto rispetto, fatto non solo di sanzioni amministrative sicuramente sproporzionate, ma anche di sanzioni penali.

Gli avvocati

Se i commercialisti e gli esperti contabili fanno ormai da tempo i conti con questa particolare disciplina, ci sono altri professionisti che la stanno sicuramente sottovalutando.

Stiamo parlando degli avvocati, i quali sono comunque tenuti all’osservanza della normativa antiriciclaggio quando, in nome o per conto dei loro clienti, compiono qualsiasi operazione di natura finanziaria o immobiliare e quando assistono i clienti nella predisposizione o nella realizzazione di operazioni riguardanti:

1) il trasferimento a qualsiasi titolo di diritti reali su beni immobili o attività economiche;

2) la gestione di denaro, strumenti finanziari o altri beni;

3) l’apertura o la gestione di conti bancari, libretti di deposito e conti di titoli;

4) l’organizzazione degli apporti necessari alla costituzione, alla gestione o all’amministrazione di società;

5) la costituzione, la gestione o l’amministrazione di società, enti, trust o soggetti giuridici analoghi.

Si pensi, quindi, ad una consulenza legale per la riscossione di una polizza assicurativa, alla redazione di un contratto di comodato o di affitto, ai risarcimenti che comportano il trasferimento di un importo in denaro.

Attività, queste, che vengono svolte quotidianamente negli studi legali, ma che, frequentemente, non sono correlate agli adempimenti antiriciclaggio.

La segnalazione delle operazioni sospette

Giova tuttavia di essere ricordato che, ai sensi dell’articolo 12 del D.Lgs. 231/2007, l’obbligo di segnalazione delle operazioni sospette non trova applicazione se le informazioni sono ricevute dal cliente:

  • nel corso dell’esame della posizione giuridica o dell’espletamento dei compiti di difesa o di rappresentanza in un procedimento giudiziario o in relazione a tale procedimento;
  • nell’ambito della consulenza sull’eventualità di intentare o evitare un procedimento,
  • ove tali informazioni siano ricevute o ottenute prima, durante o dopo il procedimento stesso.

L’esonero dall’obbligo della segnalazione non comporta però l’esclusione dagli obblighi di adeguata verifica della clientela.

Ciò significa che, anche se si ricadesse in un’ipotesi nella quale non dovrà essere comunque effettuata la segnalazione, il professionista sarà comunque obbligato a procedere all’identificazione del cliente e del titolare effettivo, senza dimenticare la conservazione e la registrazione dei dati.

Autore: redazione fiscal focus

L’Home Restaurant tra obblighi e incertezza

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Premessa – In un periodo di crisi in cui si è chiamati a reinventarsi una qualche attività lavorativa, si sta diffondendo sempre più nel nostro paese l’idea dell’Home Restaurant.

Molte sono le persone che, spinte dalla passione e dall’amore per la cucina hanno deciso di trasformare la propria casa in un ristorante occasionale aperto per amici, conoscenti o semplici viaggiatori ed in cui offrire ricette tipiche con prodotti locali valorizzando il territorio ed offrendo occasioni d’incontro.

Il fenomeno dell’Home Restaurant è partito nel 2006 in America, per poi approdare nel 2009 anche nel Regno Unito ed estendersi a macchia d’olio anche nel resto degli altri Paesi, tra cui non ultimo l’Italia.

In Italia è equiparata alla ristorazione – Poiché si tratta di un’attività che può generare un vero e proprio business per chi decidesse di intraprenderla, è necessario rispettare le regole di legge previste da ciascun Paese.

Tuttavia, in Italia, manca ancora una specifica normativa che disciplini tale attività. L’unica normativa di riferimento attuale è rappresentata dalla risoluzione Mise n. 50481/2015, con cui il Ministero dello Sviluppo Economico ha equiparato l’attività di Home Restaurant ad una vera e propria attività di ristorazione e quindi di somministrazione di alimenti e bevande.

Nel nostro Paese, l’attività di somministrazione di alimenti e bevande è disciplinata dalla legge n. 287/1991 così come modificata dal decreto legislativo n. 59/2010, e in cui è fatta distinzione tra attività esercitate nei confronti del pubblico indistinto e attività riservate a particolari soggetti, e ai sensi dell’ articolo 1, comma 1 della predetta legge “per somministrazione si intende la vendita per il consumo sul posto” che si esplicita in “… tutti i casi in cui gli acquirenti consumano i prodotti nei locali dell’esercizio o in una superficie aperta al pubblico, all’uopo attrezzati”.

Richiamando quando appena esposto, il Mise, nella citata Risoluzione, afferma che l’attività in questione anche se esercitata solo in alcuni giorni dedicati e tenuto conto che i soggetti che usufruiscono delle prestazioni sono in numero limitato, non può che essere classificata come un’attività di somministrazione di alimenti e bevande, in quanto anche se i prodotti vengono preparati e serviti in locali privati coincidenti con il domicilio del cuoco, essi rappresentano comunque locali attrezzati aperti alla clientela.

Inoltre, se si considera che la fornitura delle predette prestazioni comporti anche il pagamento di un corrispettivo, l’attività in discorso si configura come un’attività economica in senso proprio con la conseguenza che la stessa non può considerarsi un’attività libera e pertanto è da assoggettarsi alla stessa normativa prevista per chi esercita un’attività di somministrazione di alimenti e bevande.

Peraltro, tale orientamento era già stato dato in precedenza dallo stesso Mise con la nota n. 98416 del 12 giugno 2013, in cui lo stesso Ministero classificava come un’attività vera e propria di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande quella effettuata da un soggetto che, proprietario di una villa, intendeva preparare cibi e bevande nella propria cucina fornendo tale servizio solo su specifica richiesta e prenotazione da parte di un committente e quindi solo per gli eventuali invitati.

Pertanto, chi a oggi vuole intraprendere l’attività di Home Restaurant, previo possesso dei requisiti di onorabilità nonché professionali di cui all’articolo 71 del decreto legislativo n. 59/2010, è tenuto a presentare la SCIA o a richiedere l’autorizzazione, ove trattasi di attività svolte in zone tutelate.

Essendo equiparata a una vera e propria attività di ristorazione aperta al pubblico, inoltre, è necessario porre in essere tutti gli altri adempimenti previsti in materia di igiene (HACCP, autocontrollo, ecc.) e di pubblica sicurezza, senza dimenticare che trattandosi di attività economica in senso proprio (e quindi attività d’impresa) sarà necessario aprire partita IVA e certificare i guadagni.

Dunque, un’idea originale e semplice che nel nostro Paese rischia di perdersi per via dei meandri e della durezza burocratica italiana.

La proposta di un DDL ad hoc – Tuttavia un disegno di legge (non ancora discusso né approvato) in materia di Home food è stato presentato nel 2014. Si tratta del DDL 1271 del 27 febbraio 2014, il cui contenuto può essere sintetizzato nei seguenti punti:

  • utilizzo della propria struttura abitativa, anche se in affitto, fino ad un massimo di due camere, per un massimo di venti coperti al giorno;
  • i locali dell’abitazione destinati all’attività devono possedere i requisiti igienico-sanitari per l’uso abitativo previsti dalle leggi e dai regolamenti vigenti;
  • nessuna necessita di cambio di destinazione d’uso della struttura abitativa;
  • obbligo di adibire la struttura abitativa ad abitazione personale;
  • obbligo di comunicare al comune competente l’inizio dell’attività, unitamente ad una relazione di asseveramento redatta da un tecnico abilitato;
  • nessuna iscrizione al registro esercenti il commercio;
  • obbligo del comune di effettuare il sopralluogo al fine di confermare l’idoneità della struttura abitativa all’esercizio dell’attività di home food;
  • applicazione del regime fiscale previsto dalla normativa vigente per le attività saltuarie.

Il 29 luglio 2015 è stata, inoltre, presentata una nuova proposta di legge in Parlamento da parte dell’on. Nino Minardo, di contenuto simile al sopracitato DDL ma con ulteriori due previsioni: necessità per il gestore di conseguire un certificato HACCP e l’inserimento di una soglia (10.000 euro) ai fini della determinazione della saltuarietà dell’attività.

Autore: Pasquale Pirone

Retribuzione di dicembre: arriva la tredicesima

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Breve riepilogo della disciplina riguardante la tredicesima mensilità

Premessa – Il periodo natalizio è alle porte ormai, e con esso l’erogazione della tanto agognata tredicesima mensilità, riconosciuta dal D.P.R. n. 1070/1960. Infatti, come di consueto, a tutti i lavoratori subordinati, inclusi i lavoratori domestici, spetta una mensilità aggiuntiva rispetto allo stipendio normalmente percepito, corrisposto di solito una volta all’anno entro il 25 dicembre ovvero al momento della risoluzione del rapporto di lavoro, se precedente, in relazione alle quote maturate a tale data.

Ma vediamo nel dettaglio le regole e caratteristiche tipiche dell’importo aggiuntivo.

Caratteristiche generali – Innanzitutto, è bene specificare che l’importo non è derogabile in pejus dalla contrattazione collettiva e assume tenore di legge erga omnes con il menzionato Decreto. Inoltre, si tratta di una forma di retribuzione “differita”, concetto questo che accoglie tutte quelle indennità e somme (tra cui appunto le mensilità aggiuntive e il trattamento di fine rapporto) la cui maturazione avviene nel periodo di paga (ovvero, come nel caso del TFR, nell’anno) e la cui corresponsione si verifica in corso d’anno ovvero alla cessazione del rapporto di lavoro.

Regole della tredicesima – Le regole per la gestione della tredicesima mensilità sono individuate dai contratti collettivi e a questi va fatto sempre riferimento per verificarne le modalità di computo e di maturazione. Per quanto riguarda la sua maturazione, la quasi totalità dei contratti collettivi adottano il sistema della maturazione sulla base dei mesi di servizio. Tale sistema, in pratica, prevede che un mese risulti utile ai fini della maturazione della tredicesima mensilità (nonché della quattordicesima, se prevista, del TFR, delle ferie e dei permessi) se il rapporto di lavoro risulta in essere per una frazione di mese pari o superiore a 15 giorni di calendario. Al contrario, se la frazione di mese non supera i 14 giorni di calendario, il mese non si considera utile alla maturazione della mensilità aggiuntiva. Esso viene maturato nel periodo “gennaio-dicembre” dell’anno di riferimento (anno solare).

Le assenze – Particolare attenzione va rivolta alla gestione delle assenze. Infatti, se queste ultime si protraggono per più di 15 giorni, il mese deve essere considerato interamente non utile alla maturazione delle mensilità aggiuntive. Generalmente le mensilità aggiuntive non maturano durante le assenze per congedo parentale, malattia del bambino, sciopero, assenze non giustificate, permessi non retribuiti, ecc., ma vanno comunque verificate le disposizioni contrattuali. In ogni caso, sono poi i CCNL a individuare i periodi di assenza durante i quali si matura il diritto alla mensilità aggiuntiva.

CIG – Un discorso a parte merita la tredicesima mensilità in concomitanza con un periodo di cassa integrazione guadagni. Mentre in caso di CIG a orario ridotto le mensilità aggiuntive maturano regolarmente, in caso di sospensione a zero ore il mese non può considerarsi utile se tale sospensione risulta superiori a 15 giornate di calendario. L’INPS, in ogni caso, provvede a integrare (sempre nella misura dell’80% della retribuzione spettante) anche i ratei delle mensilità aggiuntive (compresa la quattordicesima), qualora risulti non superato il massimale del mese nel quale sono state corrisposte le integrazioni salariali ordinarie.

Aspetto previdenziale e fiscale – Infine, sul versante previdenziale si evidenzia che la tredicesima mensilità, in quanto retribuzione, deve essere assoggettata a contribuzione previdenziale e a ritenute fiscali. In merito al trattamento fiscale, invece, si evidenzia come, in fase di tassazione delle mensilità aggiuntive, non vengano riconosciute le altre detrazioni né le detrazioni per carichi di famiglia.

Autore: redazione fiscal focus

Acconto IVA 2015: la scadenza è fissata al 28 dicembre

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

La scelta è tra metodo storico, analitico e previsionale

E’ prevista per il 28 dicembre la scadenza del pagamento dell’acconto IVA 2015 (il 27 cadrà di domenica). Al via dunque i calcoli per la determinazione dell’acconto, tenendo sempre sconto che si potrà optare: per il metodo storico, per il metodo previsionale o quello analitico.

L’acconto versato va scomputato dall’importo dell’imposta da versare:

  • per il mese di dicembre dell’anno in corso (per i mensili), scadente il 18 gennaio 2016 (il 16 gennaio 2016 è un sabato);
  • ovvero da quello per l’ultimo trimestre, da pagare entro il 16 marzo 2016.

Metodo storico – La determinazione dell’acconto sulla base del “dato storico” consiste nel calcolare l’importo dovuto nella misura dell’88% del versamento effettuato (o che avrebbe dovuto essere effettuato) nello stesso periodo dell’anno precedente (2014).

La base di riferimento è quindi commisurata all’ammontare dell’IVA a debito risultante:

  • dalla liquidazione IVA relativa al mese di dicembre 2014, per i contribuenti mensili;
  • dalla liquidazione IVA relativa al quarto trimestre 2014, per i contribuenti trimestrali “speciali” (o “per natura”) di cui all’art. 74 co. 4;
  • dalla dichiarazione annuale relativa al 2014 (UNICO 2015), per i contribuenti trimestrali “per opzione” di cui all’art. 7 del D.P.R. 542/99.

Tenendo presente che nel caso in cui, tra il periodo d’imposta precedente e l’attuale, si sia verificato il passaggio di regime:

  • da trimestrale a mensile, si deve considerare un terzo del versato per l’ultimo trimestre 2014 (acconto più versato in sede di dichiarazione);
  • da mensile a trimestrale, si deve necessariamente eseguire la somma inerente ai versamenti di ottobre, novembre e dicembre (acconto e saldo) 2014.

I riferimenti dichiarativi – Per chi adotta il metodo storico, la determinazione dell’acconto IVA 2015 può avvenire moltiplicando l’88% all’eventuale importo dell’Iva a debito risultante dall’ultima liquidazione del 2014, individuabile:

  • nel rigo VH12 della dichiarazione annuale Iva 2015, relativa al 2014, per i contribuenti che versano l’Iva con periodicità mensile;
  • per quelli trimestrali che hanno avuto un saldo Iva 2014 a debito, nella somma dell’importo pagato come acconto Iva relativo al 2014 (rigo VH13) e quello pagato come saldo 2014 (rigo VL38), al netto degli interessi passivi dell’1% pagati per quest’ultimo (rigo VL36);
  • per quelli trimestrali che hanno chiuso il 2014 con saldo Iva a credito, dalla differenza tra l’acconto 2014 versato (rigo VH13) e il credito Iva annuale 2014 (rigo VL33).

Metodo previsionale – Chi sceglierà invece di adottare il metodo previsionale, determinerà l’acconto sulla base della stima delle operazioni che verranno effettuate fino alla chiusura del 2015.

Se si prevede di dover liquidare:

  • per il mese di dicembre del 2014 (contribuenti mensili), o;
  • per il quarto trimestre 2015 (contribuenti trimestrali “speciali”), o
  • per la dichiarazione del 2015 (contribuenti trimestrali “per opzione”),

un importo a titolo di acconto IVA inferiore a quello versato nel 2014, l’acconto dell’88% è calcolato su tale minore importo.

In pratica, il contribuente deve fare una stima delle fatture attive da emettere e di quelle passive da ricevere entro la fine dell’anno.

Al fine di rendere omogenei l’importo relativo al “dato storico” e quello “previsionale”, quest’ultimo deve essere considerato al netto dell’eventuale eccedenza detraibile riportata dal mese o dal trimestre precedente.

Metodo analitico – L’atro metodo a disposizione è quello analitico. L’acconto, nella misura del 100%, emerge da una liquidazione periodica aggiuntiva, ottenuta sommando algebricamente i seguenti elementi:

  • (con segno +) l’IVA a debito relativa alle operazioni annotate (o che avrebbero dovuto essere annotate) nei registri IVA per il periodo tra il 1° dicembre e il 20 dicembre 2015 (contribuenti mensili) e tra il 1° ottobre e il 20 dicembre 2015 (contribuenti trimestrali);
  • (con segno +) l’IVA a debito relativa alle operazioni effettuate tra il 1° novembre ed il 20 dicembre, ma non ancora annotate non essendo decorsi i termini di emissione della fattura o di registrazione;
  • (con segno -) l’IVA a credito relativa agli acquisti e alle importazioni annotati nel registro degli acquisti nel periodo compreso tra il 1° dicembre e il 20 dicembre 2015 (contribuenti mensili) e tra il 1° ottobre e il 20 dicembre (contribuenti trimestrali);
  • (con segno -) l’IVA a credito relativa alle operazioni intracomunitarie, per le quali la corrispondente IVA a debito è stata già considerata (per effetto della doppia registrazione);
  • (con segno -) l’eventuale IVA a credito riportata dalla liquidazione relativa al periodo precedente (mese di novembre o terzo trimestre).

Autore: redazione fiscal focus

NUOVO BILANCIO:NEL CONTO ECONOMICO NIENTE SEZIONE STRAORDINARIA

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

A seguito delle novità introdotte con il D.Lgs. n.139/2015 nel nuovo conto economico non è più prevista, tra l’altro, l’indicazione degli oneri e dei proventi straordinari.

Dal 2016, pertanto, questi componenti di reddito dovranno essere riclassificati tra le voci ordinarie di costi e di ricavi del conto economico.

Ma perché questa scelta del Legislatore?

Ebbene, come noto, il D.Lgs. n.139/2015 recepisce le novità introdotte dalla Direttiva 2013/34/UE, con la quale si è cercato di adeguare il sistema informativo di bilancio alle attuali esigenze delle società di capitali.

Soprattutto con riferimento agli oneri e proventi straordinari si è rilevato come la loro esposizione in bilancio fosse spesso dettata da valutazioni soggettive del redattore. Ecco quindi il motivo per il quale il legislatore comunitario ha deciso di eliminare tale sezione dal conto economico, tenendo altresì conto delle disposizioni dettate dai principi contabili internazionali.

L’informativa da fornire in nota integrativa

Come poter dare evidenza, dunque, degli eventi straordinari che hanno inciso sulla determinazione del reddito?

Il Legislatore ha a tal fine previsto che la nota integrativa preveda una nuova, specifica, indicazione, relativa, appunto, ai costi e ricavi di entità o incidenza particolare.

Giova tuttavia di essere ricordato che, già in passato, l’articolo 2427 c.c. richiedeva l’esposizione della composizione delle voci “oneri straordinari” e “proventi straordinari” nella nota integrativa, se di ammontare apprezzabile.

Cosa è cambiato rispetto la vecchia formulazione?

In linea di massima è possibile affermare che il nuovo testo dell’articolo 2427 c.c. individua espressamente i casi in cui si può parlare di oneri e proventi straordinari, senza limitarsi più, come in passato, a rinviare alle voci del conto economico.

Pertanto, in virtù delle modifiche introdotte deve ritenersi ormai assodato che la straordinarietà del componente di reddito non è determinata dalla sua fonte ma dall’eccezionalità:

  • del suo importo
  • o della sua incidenza.

La congiunzione “o” lascia inoltre comprendere che questi due aspetti sono alternativi, ragion per cui sarà sufficiente l’eccezionalità dell’importo dell’onere/provento, oppure della sua incidenza, non essendo invece necessaria la compresenza dei due requisiti.

L’ ”eccezionalità”

La nuova definizione di oneri e proventi straordinari, tuttavia, apre la strada ad alcune incertezze, soprattutto in merito all’effettiva portata del carattere dell’ “eccezionalità”.

Quando può dirsi che l’entità o l’incidenza siano eccezionali?

Sicuramente sarà necessario attendere la riformulazione dei principi contabili nazionali per avere un quadro più completo.

Tuttavia, quello che è certo è che l’eccezionalità dovrà essere valutata con riferimento alla singola realtà aziendale.

Come sottolineato già da alcuni Autori potrebbe pertanto accadere che un costo/provento di carattere eccezionale per un’impresa potrebbe non esserlo per la controparte.

La definizione fornita dall’Oic 12

L’attuale principio OIC 12 fornisce una definizione di attività straordinaria che, come già detto, si discosta molto da quanto previsto dal D.Lgs. n. 139/2015.

Come già anticipato, infatti, i principi contabili nazionali si soffermano sulla fonte del provento/onere, senza tenere in considerazione l’entità o l’incidenza.

Più precisamente viene chiarito che “l’attività straordinaria include i proventi e gli oneri la cui fonte è estranea all’attività ordinaria della società. Sono considerati straordinari i proventi e gli oneri che derivano da:

  1. a) eventi accidentali ed infrequenti;
  1. b) operazioni infrequenti che sono estranee all’attività ordinaria della società.” 
    Autore: Lucia Recchioni

Accessibile via computer o cellulare, ci troveremo i nostri dati sanitari, referti, farmaci assunti. Ma potremo caricarci anche le informazioni dello smartwatch, sul nostro stile di vita. Il decreto che dà il via entra in vigore il 26 novembre (SPID)

STA PER ARRIVARE il primo luogo unico digitale per la nostra salute: con tutti i dati sanitari, i farmaci e i referti, le informazioni sulla nostra attività fisica. Accessibili via internet, da computer o cellulare. Si chiama Fascicolo sanitario elettronico e dopo tanti mesi di rinvii il Governo ha appena pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto che ne dà il via e che entrerà in vigore il 26 novembre. Il decreto chiede alle Regioni di fare il Fascicolo entro il 31 dicembre, ma ci sono dubbi che la data sarà rispettata, anche per via degli stessi ritardi nella pubblicazione del decreto. Alcune Regioni però sono già avanti (Lombardia, Emilia-Romagna, Provincia di Trento, Toscana) e le altre seguiranno.
Vediamo che cosa potremo farci, ma anche gli ostacoli che restano da superare per la realizzazione.

I contenuti del fascicolo. Sappiamo che il Fascicolo conterrà i link ad alcuni dati necessari (che dovranno esserci per forza) e ad altri invece facoltativi. Nel primo gruppo ci sono i dati identificativi, i referti, i verbali di pronto soccorso, le lettere di dimissione, il profilo sanitario sintetico, il dossier farmaceutico, il consenso o diniego a donazione organi e tessuti. Nei dati facoltativi, che potranno essere inseriti da medici, strutture sanitarie o dal paziente stesso, ci sono prescrizioni, farmaci assunti, vaccinazioni, certificati medici, esenzioni, “bilanci di salute”, tra le altre e numerose cose previste dal decreto. “Sarà uno strumento abilitante non solo per la cura ma anche per il benessere di tutti noi”, dice Roberto Moriondo, responsabile dei rapporti con le Regioni presso il Comitato di indirizzo dell’Agenzia per l’Italia Digitale. “I pazienti potranno infatti scaricare sul fascicolo i propri dati di attività fisica, che vengono dalle macchine della palestra o dal proprio smartwatch”, aggiunge.

Punto unico di monitoraggio per diagnosi e cura. È comodo e utile di per sé avere un posto unico con tutti i nostri dati di interesse sanitario. Lo è per noi, per tenere sotto controllo alcuni parametri; ma lo è anche per il nostro medico curante o il medico del pronto soccorso, per esempio, per migliorare la pratica di diagnosi e terapia. In particolare può essere utile durante le emergenze, appunto al pronto soccorso, per capire quali medicinali somministrare o quali no. Si possono evitare così anche classici errori, in ospedale, come la somministrazione di medicinali a cui il paziente è allergico oppure destinati a un’altra persona (a causa di dati errati). Il fascicolo è una novità complementare con la ricetta elettronica, di cui pure il ministero della Salute ha pubblicato questa settimana il decreto attuativo. Il medico curante potrà prescrivere un medicinale, un esame o una terapia associandone il codice al codice fiscale del paziente. Potremo quindi andare in farmacia o in un centro medico (per esami e terapie) senza ricetta fisica, ma soltanto con un promemoria fornito dal medico (su carta semplice). Fascicolo e ricetta elettronica assicurano insomma una centralizzazione e razionalizzazione delle informazioni, con risparmio di costi e un minore rischio di errori, rispetto all’uso della carta. Centralizzazione significa anche che i nostri dati sono disponibili a tutti i medici e ospedali del Paese. Quando cambieremo città per curarci, non dovremo più portarci dietro lastre, referti (anche in forma di CD), con il rischio- anche- che qualche informazione sia persa.

Tempistiche e modalità di accesso. Veniamo ai punti critici. I tempi: al momento non si sa quante Regioni riusciranno a rispettare la data del 31 dicembre. Tutte stanno affrontando infatti problemi a coinvolgere i medici di famiglia (che chiedono di essere pagati un extra, per questo servizio). In certi casi, inoltre aziende sanitarie e ospedaliere non sono ancora del tutto informatizzate e quindi non possono agevolmente alimentare il fascicolo dei propri pazienti. Meno critiche – ma pure ancora da completare – le modalità di accesso. “La Provincia di Trento, che ha il più avanzato esempio di fascicolo sanitario elettronico già in uso, contente ai cittadini l’accesso via computer dotato di smart card. Il che non è molto comodo. Sta ora sperimentando un accesso via codici o token, forniti dal sistema sanitario nazionale”, dice Moriondo. Il tutto sarà a puntino solo con il debutto di Italia Login e del Sistema pubblico dell’identità digitale, progetti che permetteranno un accesso unico e semplificato a tutti i servizi della PA (compresi quelli sanitari).

La repubblica di ALESSANDRO LONGO

IVA: il trattamento degli omaggi NON rientranti nell’attività d’impresa

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cessione “irrilevante” ai fini IVA

Il trattamento fiscale degli omaggi dipende dalla natura del bene, dal soggetto destinatario, ma anche dal valore del bene. Tutte queste caratteristiche condizionano il trattamento fiscale degli omaggi, ciascuno con un proprio peso. In via generale, il punto di partenza per analizzare il trattamento fiscale degli omaggi ai fini Iva, e la distinzione tra beni che rientrano o meno nell’ambito dell’attività propria dell’impresa.

Beni che NON rientrano nell’attività d’impresa – Per tale fattispecie, il punto di partenza è il trattamento che i beni destinati ad essere “omaggiati” subiscono a “monte”. In base alle disposizioni dell’art. 19 bis1, co. 1, lett. h), D.P.R. 633/1972, non è ammessa in detrazione l’imposta relativa alle spese di rappresentanza, come definite ai fini delle imposte sul reddito, tranne quelle sostenute per l’acquisto di beni di costo unitario non superiore a lire cinquantamila” (euro 25,82).

Per quanto riguarda la definizione di spese di rappresentanza, anche ai fini IVA (C.M. 34/E/2009) è necessario fare riferimento a quanto disposto dall’art. 1, DM 19.11.2008 che definisce di rappresentanza “le spese per erogazioni a titolo gratuito di beni e servizi, effettuate con finalità promozionali o di pubbliche relazioni e il cui sostenimento risponda a criteri di ragionevolezza in funzione dell’obiettivo di generare, anche potenzialmente, benefici economici per l’impresa ovvero sia coerente con pratiche commerciali di settore”.

Affinché la spesa per l’omaggio rientri tra quelle di rappresentanza è necessario che le spese: I) siano sostenute con finalità promozionali e di pubbliche relazioni; II) siano ragionevoli in funzione dell’obiettivo di generare benefici economici; III) siano coerenti con gli usi e le pratiche commerciali del settore.

All’interno delle spese di rappresentanza individuate in base ai suddetti criteri, l’art. 19 bis1, co. 1, lett. h), D.P.R. 633/1972 prevede:

  • la detraibilità dell’IVA per i beni rientranti nelle spese di rappresentanza per i beni di costo unitario NON superiore a € 25,82;
  • l’indetraibilità dell’IVA per i beni rientranti nelle spese di rappresentanza per i beni di costo unitario superiore a € 25,82.

Il trattamento a “valle” – Il trattamento a “valle”, ai fini IVA, dei beni destinati ad essere omaggiati, NON rientranti nell’attività d’impresa, è rinvenibile nell’art. 2, co. 2, n. 4), D.P.R. 633/1972.La richiamata disposizione prevede che“Costituiscono inoltre cessioni di beni: 4) le cessioni gratuite di beni ad esclusione di quelli la cui produzione o il cui commercio non rientra nell’attività propria dell’impresa se di costo unitario non superiore a lire cinquantamila (euro 25,82) e di quelli per i quali non sia stata operata, all’atto dell’acquisto o dell’importazione, la detrazione dell’imposta a norma dell’articolo 19, anche se per effetto dell’opzione di cui all’articolo 36-bis;.

La successiva cessione gratuita del bene (omaggio), dunque, indipendentemente da valore dell’omaggio è esclusa da campo di applicazione dell’IVA.

Le spese per alimenti e bevande – Per quanto riguarda l’acquisto di alimenti e bevande (ovviamente che non formano oggetto dell’attività d’impresa), l’art. 19, co. 1, lett. f), D.P.R. 633/1972 prevede che “non è ammessa in detrazione l’imposta relativa all’acquisto o all’importazione di alimenti e bevande ad eccezione di quelli che formano oggetto dell’attività propria dell’impresa o di somministrazione in mense scolastiche, aziendali o interaziendali o mediante distributori automatici collocati nei locali dell’impresa”.

Tuttavia, in deroga a tale disposizione, l’Amministrazione Finanziaria nella C.M. 54/E/2002 ha riconosciuta la detrazione dell’IVA purché gli stessi siano di costo unitario non superiore a € 25,82 e rientrino fra le spese di rappresentanza per le quali trova applicazione la citata lett. h).

Omaggi ai dipendenti – Per quanto riguarda gli omaggi ai dipendenti NON rientranti nell’attività d’impresa, ai fini Iva, non possono essere considerate spese di rappresentanza, in quanto prive del requisito di sostenimento per finalità promozionali.

L’IVA relativa ai beni destinati ai dipendenti è da considerare indetraibile per mancanza di inerenza con l’esercizio dell’impresa.

Autore: redazione fiscal focus

Codice tributo per investimenti in beni strumentali

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Con la Risoluzione n. 96 di ieri le Entrate hanno istituito il relativo codice

Premessa – Con la risoluzione n. 96 di ieri 19 novembre, l’Agenzia delle Entrate ha istituito il codice tributo per l’utilizzo del credito d’imposta, mediante F24, dell’incentivo fiscale previsto dal “decreto competitività” a favore dei titolari di reddito d’impresa.

Ambito soggettivo – Beneficiari del credito d’imposta di cui all’articolo 18 del DL 91/2014 sono i contribuenti titolari di reddito d’impresa che, nel periodo compreso tra l’entrata in vigore della disposizione (25 giugno 2014) e il 30 giugno scorso, hanno effettuato investimenti in nuovi beni strumentali (macchinari e impianti) compresi nella divisione 28 della tabella Ateco 2007 e destinati a strutture produttive ubicate nel territorio dello Stato.

Credito – Il bonus fiscale, pari al 15% delle spese sostenute in eccedenza rispetto alla media degli analoghi investimenti realizzati nei cinque periodi di imposta precedenti (con facoltà di escludere dal calcolo della media il periodo in cui l’investimento è stato maggiore), è utilizzabile esclusivamente in compensazione, mediante modello F24, e deve essere ripartito in tre quote annuali di pari importo: la prima, a decorrere dal 1° gennaio del secondo periodo d’imposta successivo all’investimento.

Codice tributo – Per consentirne la fruizione a partire dall’inizio del prossimo anno, secondo le modalità fornite con la Circolare 5/2015, la Risoluzione 96/E del 19 novembre 2015 istituisce lo specifico codice tributo “6856”, operativo dal 1° gennaio 2016.

Compilazione – Questo va esposto nella sezione “Erario” del modello F24, in corrispondenza delle somme indicate nella colonna “importi a credito compensati” ovvero, nei casi in cui il contribuente debba procedere a riversare l’agevolazione, nella colonna “importi a debito versati”. Nel campo “anno di riferimento” deve essere riportato l’anno di sostenimento della spesa.

Autore: redazione fiscal focus

Equitalia: autodichiarazione per la sospensione

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Nuove regole per la riscossione della cartelle di pagamento

Premessa – Nell’istanza di sospensione di una cartella di pagamento è sufficiente un’autodichiarazione che indica le motivazioni poste alla base della richiesta del blocco delle procedure di riscossione.

Decreto riscossione – Il Decreto riscossione (D.Lgs. n.159/2015) in vigore dal 22 ottobre 2015, modifica le regole sulla sospensione legale della riscossione. In base alla normativa attualmente vigente, il contribuente raggiunto da un atto ritenuto indebito può richiedere il blocco delle procedure di riscossione nelle ipotesi di: intervenuta prescrizione; decadenza o pagamento del credito antecedente alla formazione del ruolo; ottenimento di sgravio emesso dall’ente creditore; annullamento o sospensione (amministrativa o giudiziale) dell’atto; qualsiasi altra causa di non esigibilità del credito.

Autodichiarazione – A tal fine è sufficiente presentare un’autodichiarazione all’Agente della Riscossione, rappresentando il ricorrere di una delle suddette ipotesi. L’agente della riscossione ha poi 10 giorni di tempo per trasmettere l’istanza e la documentazione allegata all’ente creditore al fine di avere conferma circa la sussistenza delle ragioni del debitore ed ottenere, in caso affermativo, la sollecita trasmissione della sospensione o dello sgravio direttamente sui propri sistemi informativi. Nell’ambito della suddetta procedura, il termine entro cui il debitore, a pena di decadenza, dovrà presentare la richiesta di sospensione all’agente della riscossione è ridotto da 90 a 60 giorni, decorrenti dalla notifica della cartella di pagamento o del provvedimento esecutivo o cautelare ‘‘contestato’’ (art. 1). Per evitare la presentazione di istanze meramente dilatorie viene poi cancellata la ‘‘clausola aperta’’ che consentiva di richiedere la sospensione in virtù di ‘‘qualsiasi altra causa di non esigibilità del credito’’. Tale previsione, chiarisce la relazione illustrativa, è tesa a evitare il possibile uso strumentale dell’istituto.

Ragioni – Fermo restando l’obbligo di dettagliare nell’istanza di sospensione le ragioni alla base della presunta illegittimità dell’atto, non sarà più possibile indicare una causa di inesigibilità diversa da quelle seguenti: prescrizione o decadenza del diritto al credito in data antecedente a quella in cui il ruolo è reso esecutivo; avvenuto sgravio o sospensione dell’atto sottostante, in via amministrativa o giudiziale; annullamento dell’atto sottostante con una sentenza emessa in un giudizio in cui l’agente per la riscossione non era parte; pagamento effettuato all’ente creditore in data antecedente alla formazione del ruolo.

Esito istruttoria – Rispetto alla vecchia disciplina, si prevede che l’ente creditore non debba più comunicare, nel termine di 60 giorni dal ricevimento dell’istanza, l’esito dell’istruttoria al debitore e all’agente della riscossione. La soppressione di tale adempimento, che nella realtà limita l’operatività dell’ente, consentirà a quest’ultimo di poter rispondere al debitore senza attendere il decorso dei predetti 60 giorni. Fino alla comunicazione di tale esito, si prevede la sospensione del termine di 200 giorni (previsto dall’art. 53, comma 1 del D.P.R. n. 602/ 1973) che comporta l’inefficacia del pignoramento eventualmente già eseguito.

Autore: redazione fiscal focus

Processo tributario telematico

l processo tributario si rinnova:

dal 1° dicembre 2015 diventa pienamente operativo, anche se per ora solo nelle Commissioni tributarie provinciali e regionali dell’Umbria e della Toscana, il processo tributario telematico;

dal 1° gennaio 2016 entrano in vigore la quasi totalità delle nuove norme contenute nel D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156 che ha riformato la disciplina del contenzioso tributario, in attuazione della delega fiscalecontenuta nella legge n. 23/2014.

Con la telematizzazione, gli atti viaggeranno, via PEC, in formato digitale (il formato principe sarà il PDF) e, nello stesso formato, avverranno tutte le notificazioni e comunicazioni del processo.

Tutto ruoterà intorno ad un sistema informatico messo a punto dal Ministero il Sistema Informativo della Giustizia Tributaria (S.I.Gi.T.) al quale possono accedere – previa autenticazione – i giudici tributari, le parti del processo, i procuratori e difensori (avvocati, dottori commercialisti, consulenti del lavoro ecc.), il personale abilitato delle segreterie delle Commissioni tributarie, i consulenti tecnici e altri soggetti, quali organi tecnici dell’Amministrazione dello Stato o di altri enti pubblici compreso il Corpo della Guardia di finanza.

La piattaforma contiene le informazioni relative alla organizzazione delle Commissioni tributarie e alla modulistica utilizzata, garantendo l’accesso ai servizi telematici riservati ai contribuenti ed agli operatori di settore (“telecontenzioso” e “prenotazione on line” degli appuntamenti).

Il sistema entrerà in vigore il 1° dicembre 2015 ed interesserà le commissioni tributarie di Toscana ed Umbria, per poi essere esteso, dopo una prima fase di rodaggio, a tutto il territorio nazionale.

Dal 1° gennaio 2016, poi, entreranno in vigore anche le nuove norme sul contenzioso tributario introdotte dal D.Lgs. n. 156/2015. Tra le tante novità,  alcune si intrecciano, inevitabilmente, con la digitalizzazione del processo tributario. Ad esempio, per quanto riguarda le notifiche tramite PEC. In particolare, viene ampliato l’uso della posta elettronica certificata per le comunicazioni e le notificazioni nel processo tributario. Oltre a confermare quanto già previsto, si dispone che le notificazioni tra le parti e il successivo deposito presso la Commissione tributaria possano avvenire per via telematica, tenendo conto di quanto stabilito nel regolamento sul processo tributario telematico.

In definitiva, appare evidente che le nuove regole avranno un impatto notevole sull’intero sistema del contenzioso tributario rendendolo più efficiente e al passo con l’attuale era improntata sulla digitalizzazione.

Ciò comporta però una riformulazione di processi, attività e modi di operare, sia da parte della Pubblica amministrazione sia, soprattutto, da parte di chi, per professione, si occupa della difesa dei contribuenti innanzi alle Commissioni tributarie.

Fonte IPSOA

DDL concorrenza: le proposte dei commercialisti

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Osservazioni e proposte di modifica del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili

I commercialisti sono tornati ad occuparsi del DDL sulla concorrenza, e hanno ribadito le loro precedenti posizioni presentando osservazioni e proposte di modifica nel corso dell’audizione del 18 novembre presso la Commissione Industria, Commercio e Turismo del Senato.

Il Consiglio nazionale ha altresì proposto, sempre nella stessa sede, una modifica all’attuale disciplina del trasferimento d’azienda, al fine di estendere agli atti di trasferimento della proprietà ed ai contratti che hanno per oggetto il godimento dell’azienda la procedura già prevista per la cessione di quote delle srl.

Le precedenti posizioni

In occasione della precedente audizione del Consiglio Nazionale dello scorso mese di giugno, l’attenzione si concentrò su alcune particolari disposizioni de DDL n. 3012, le quali sicuramente necessitavano di un’analisi più approfondita.

Più precisamente gli articoli del DDL oggetto delle osservazioni furono:

  • l’articolo 28, dedicato alla semplificazione del passaggio di proprietà dei beni immobili ad uso non abitativo di valore non superiore a 100.000 euro;
  • l’articolo 30, disciplinante le semplificazioni connesse al trasferimento di quote di srl e la costituzione sulle stesse di diritti parziali;
  • l’articolo 30, comma 2, relativo al deposito presso il registro delle imprese degli atti, delle denunce e delle comunicazioni per i quali non è previsto l’obbligo di atto pubblico o della scrittura privata autenticata.

Le perplessità espresse dal CNDCEC sono state parzialmente recepite dalla Commissione Giustizia e, quindi, molte delle disposizioni di cui al DDL n. 3012 non hanno trovato accoglimento nell’attuale DDL n. 2085.

Tuttavia ancora persistono degli aspetti che necessitano di attenzione, tra i quali il CNDCEC sottolinea:

  • l’articolo 45, dedicato alla sottoscrizione digitale di taluni atti;
  • l’attuale disciplina sul trasferimento d’azienda e l’estensione agli atti di trasferimento della proprietà ed ai contratti aventi ad oggetto il godimento dell’azienda della procedura di deposito presso il registro delle imprese prevista per il trasferimento di partecipazioni di srl.

Il trasferimento delle quote di srl

L’articolo 45, comma 1 del DDL n. 2085 prevede che “i contratti aventi ad oggetto il trasferimento di quote sociali di società a responsabilità limitata e la costituzione sulle stesse di diritti parziali sono redatti per atto pubblico o scrittura privata autenticata, ovvero con le modalità di cui all’articolo 36, comma 1-bis, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, e successive modificazioni, oppure, anche in deroga all’articolo 11, comma 4, del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 7 dicembre 1995, n. 581, per atto firmato digitalmente, ai sensi dell’articolo 25 del codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni, dalle parti del contratto e sono trasmessi ai competenti uffici del registro delle imprese attraverso un modello uniforme tipizzato con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e con il Ministro dello sviluppo economico”.

Pertanto, con il nuovo articolo 45 viene aggiunta una nuova modalità per il trasferimento delle partecipazioni sociali delle srl e di costituzione sulle stesse di diritti parziali, ovvero per atto firmato digitalmente dalle parti.

Ebbene, i commercialisti, in occasione dell’audizione hanno confermato le loro perplessità in merito alle nuove disposizioni introdotte, le quali “trasferiscono competenze proprie di alcune professioni regolamentate a soggetti che non sono abilitati all’esercizio della professione, che non vantano competenze specifiche nelle materie oggetto dell’intervento normativo e che, soprattutto, non forniscono all’utenza concrete garanzie circa l’affidabilità della prestazione resa.”

Il trasferimento d’azienda

In occasione dell’audizione presso la Commissione Industria, Commercio e Turismo del Senato è stata inoltre avanzata la proposta di estendere l’attuale disciplina in tema di trasferimento delle quote di Srl al trasferimento d’azienda.

Come sottolineato anche dal consigliere Maurizio Grosso, consigliere delegato alle Tecnologie informatiche “nell’ottica di aumentare la concorrenza e ridurre gli oneri a carico delle imprese, i vertici della professione propongono una modifica all’attuale disciplina del trasferimento d’azienda del codice civile (art. 2556) in modo da estendere agli atti di trasferimento della proprietà ed ai contratti che hanno per oggetto il godimento dell’azienda (con esclusione degli immobili) la procedura prevista per la cessione di quote di srl fin dal 2008. Gli intermediari commercialisti garantiscono così il versamento delle imposte indirette dovute, il rispetto degli adempimenti antiriciclaggio e la diffusione della digitalizzazione degli atti”.

Autore: redazione fiscal focus

Equitalia: entro il 23 novembre la domanda di riammissione

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Si decade con il mancato pagamento di solo due rate anche non consecutive

Con un comunicato presente sul proprio sito, l’Agente della Riscossione ha reso noto che il termine originario di sabato 21 Novembre per la presentazione della domanda di riammissione alla dilazione di precedenti piani decaduti dal 22 ottobre 2013 al 21 ottobre 2015, è prorogato a lunedì 23 novembre, primo giorno utile lavorativo successivo alla scadenza originaria. La richiesta può essere presentata direttamente agli sportelli del concessionario o tramite raccomandata con ricevuta di ritorno. La domanda è disponibile sul sito di Equitalia: Modulistica – Rateizzazione- RICHIESTA DI RATEIZZAZIONE PER PIANI DECADUTI DAL 22/10/2013 AL 21/10/2015.

Per la riammissione alla rateazione, sono previste condizioni più restrittive rispetto a un primo accesso:
la durata massima non può superare le 72 mensilità (sei anni) e, di conseguenza, anche nelle circostanze di comprovata e grave situazione di difficoltà legata alla congiuntura economica ed estranea alla propria responsabilità, non sarà mai concessa al soggetto riammesso al beneficio la possibilità di accedere a un piano di rateazione straordinario fino a dieci anni; il nuovo piano non è prorogabile e decade con il mancato pagamento di solo due rate anche non consecutive.

Al momento, i primi dati ufficiali, evidenziano che le domande presentate sono pari a 18.688; l’88,2%, ossia 16.474 è stato accolto, per un importo collegato alla rateazione pari a € 426 mln e 134 mila euro.

Si ricorda che Il contribuente che ha ottenuto la riammissione al beneficio della rateazione, non sarà più considerato inadempiente, e cosa rilevante, potrà, se si tratta di un’impresa, riottenere Il DURC e il certificato di regolarità fiscale, il cui possesso è condizione essenziale per partecipare ad appalti di lavori, forniture e servizi.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Novità Legge di Stabilità: canone RAI, estromissione immobili, sconto IMU

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Gli emendamenti approvati in Commissione Bilancio del Senato

Numerosi gli emendamenti approvati ieri in Commissione Bilancio del Senato. Viene confermata la misura che prevede l’estromissione “agevolata” degli immobili strumentali dall’impresa individuale, viene introdotta una norma per evitare la corresponsione di affitti in nero, canone rai rateizzato e con franchigia di 8mila euro.

Estromissione immobili impresa individuale – Viene data in sostanza all’imprenditore individuale, che alla data del 31 ottobre 2015 possiede beni immobili strumentali, la possibilità di optare entro il 31 maggio 2016 per l’esclusione dei predetti immobili dal patrimonio dell’impresa.
Per la determinazione della base imponibile e dell’imposta sostitutiva si rimanda a quanto previsto per l’assegnazione degli immobili ai soci.

Questo significa in termini pratici che la fuoriuscita dell’immobile dal perimetro dell’impresa sconterà una tassazione sostituiva delle imposte sui redditi e dell’IRAP pari all’8%, che dovrà essere applicata sulla differenza tra il valore catastale del bene e il suo costo fiscale.

Contrasto agli affitti in nero – Per evitare la corresponsione di affitti in nero si prevede cheÈ nulla ogni pattuizione volta a determinare un importo del canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato”, prevedendo inoltre che “il conduttore, con azione proponibile nel termine di sei mesi dalla riconsegna dell’immobile locato, può chiedere la restituzione delle somme corrisposte in misura superiore al canone risultante dal contratto scritto e registrato”.

Fondo per il credito alle aziende vittime di mancati pagamenti – Approvato un emendamento che prevede l’istituzione, presso il ministero dello Sviluppo economico, di un Fondo per il credito alle aziende vittime di mancati pagamenti, con una dotazione di 10 milioni di euro all’anno per il triennio 2016-2018.

Canone RAI: rateizzato e con franchigia – Confermata la misura che prevede la corresponsione del Canone RAI con il pagamento della bolletta elettrica, prevedendo tuttavia che l’importo sia suddiviso in dieci rate mensili, addebitate sulle fatture emesse dall’impresa elettrica aventi scadenza del pagamento immediatamente successiva alla scadenza delle rate. Si prevede inoltre che non siano tenuti alla corresponsione del Canone RAI i soggetti con età maggiore a 65 anni e reddito inferiore a 8.000,00 euro.

Chi affitta la seconda casa a canone concordato fruisce di uno sconto IMU del 25% – Uno sconto del 25% ai proprietari di secondo case che le affittano a canone concordato.

Meno risorse al SUD – L’imminente esigenza di aumentare le risorse per la sicurezza vienegarantita riducendo le risorse originariamente previste per il mezzogiorno.

Autore: redazione fiscal focus

Stabile organizzazione personale: il nuovo indirizzo dell’OCSE

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Nell’ambito del progetto BEPS (Base Erosion and Profit Shifting), l’OCSE propone una definizione più stringente di stabile organizzazione personale, al fine di disincentivare comportamenti elusivi.

Va preliminarmente osservato che la definizione di stabile organizzazione personale è rinvenibile nell’art. 5, par. 5, del modello OCSE, laddove si prevede che affinché si configuri la fattispecie della stabile organizzazione personale, devono verificarsi:

  • il requisito soggettivo: le persone che possono configurare la stabile organizzazione personale sono gli agenti «dipendenti» a prescindere dal fatto che l’agente sia una persona fisica o una persona giuridica;
  • il requisito oggettivo: l’agente dispone di poteri che gli consentano di concludere contratti a nome dell’impresa e tali poteri devono essere esercitati abitualmente. Sono escluse le attività con carattere preparatorio e ausiliario.

Per ciò che attiene il requisito oggettivo, la configurazione della stabile organizzazione personale avviene se l’ agente “dipendente” ha il potere di concludere contratti a nome della stessa e tale potere viene esercitato abitualmente. Il potere di concludere contratti a nome dell’impresa indica il possesso da parte dell’agente del potere di rappresentanza e dunque stipulare atti in nome e per conto del proponente.

Proprio su questo aspetto interviene l’OCSE, precisando che la configurazione di una stabile organizzazione personale avviene ogni qualvolta un soggetto svolga abitualmente il ruolo decisivo nella conclusione di contratti che vengono sistematicamente perfezionati senza sostanziali modifiche da parte dell’impresa estera.

Si tratta di una condizione stringente, in quanto il solo fatto che l’agente dipendente intervenga in modo decisivo nella conclusione di contratti, anche se questi vengono poi sottoscritti dal mandante non residente, è condizione sufficiente per la configurazione della stabile organizzazione personale. Stabilire quando l’agente ha un ruolo decisivo nella conclusione dei contratti è estremamente complicato.

L’attuale versione del Commentario al Modello OCSE non si distacca da tale interpretazione: prevede infatti che il potere di concludere contratti in nome dell’impresa estera non è legato alla sottoscrizione materiale dell’atto, in quanto il potere di negoziare tutti gli elementi e dettagli di un contratto in modo vincolante per l’impresa estera già di per sé costituisce l’esercizio del potere di concludere contratti in nome dell’impresa estera.

In tal senso è opportuno evidenziare che già la Suprema Corte in alcune pronunce ha sancito l’esistenza della Stabile organizzazione personale in presenza di agenti dipendenti che svolgessero un ruolo chiave nella conclusione dei contratti, senza che quest’ultimi provvedessero alla stipula degli stessi.

In particolare, la Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, con la sentenza 17.01.2013, n. 1120, ha affrontato lo spinoso tema della c.d. stabile organizzazione personale, con particolare riferimento alle prove necessarie a dimostrare che l’agente dipendente abbia esercitato il potere di concludere contratti in nome e per conto della società estera.

I Giudici di Legittimità hanno affermato il principio secondo cui la configurazione della stabile organizzazione personale in territorio nazionaleavviene quando il fine dei soggetti operanti in territorio italiano è quello di esercitare – in modo non sporadico o occasionale – un’attività economica, che può consistere anche nella sola conclusione di contratti in nome e nell’interesse di una società non residente.

La Cassazione nell’accogliere il ricorso proposto dall’Amministrazione Finanziaria afferma che la rilevante attività negoziale svolta dal legale rappresentate della società estera in territorio italiano, comprovato da elementi probatori a carattere indiziario e presuntivo, considerati globalmente e nella loro reciproca connessione, costituiscono condizione sufficiente per configurare la stabile organizzazione personale.

Nelle conclusioni della Suprema Corte, contrariamente alle indicazioni dell’OCSE, non sono offerti elementi circa l’attività diretta del legale rappresentante della società estera che abbiano contribuito alla conclusione dei contratti stipulati dalla società estera in Italia.

Ciò che si vuole evidenziare è che già ora che le condizioni sono meno stringenti per la configurazione della stabile organizzazione personale, l’indirizzo giurisprudenziale tende a considerare anche solo la partecipazione alla conclusione dei contratti condizione sufficiente per la configurazione della stabile organizzazione personale.

Autore: redazione fiscal focus

Quadro RW: la dichiarazione integrativa non sana la violazione

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Il quadro RW deve essere compilato, ai fini del monitoraggio fiscale, dalle persone fisiche residenti in Italia che detengono investimenti all’estero e attività estere di natura finanziaria a titolo di proprietà o di altro diritto reale indipendentemente dalle modalità della loro acquisizione e, in ogni caso, ai fini dell’Imposta sul valore degli immobili all’estero (IVIE) e dell’Imposta sul valore dei prodotti finanziari dei conti correnti e dei libretti di risparmio detenuti all’estero (IVAFE). L’obbligo di monitoraggio non si configura per i depositi e conti correnti bancari costituiti all’estero il cui valore massimo complessivo raggiunto nel corso del periodo d’imposta non sia superiore a 10.000 euro (art. 2, comma 4-bis, del Decreto Legge 28 gennaio 2014, n. 4, convertito con modificazioni dalla legge 28 marzo 2014, n. 50); resta fermo l’obbligo di compilazione del quadro laddove sia dovuta l’IVAFE.

Cosa succede nel caso in cui il contribuente obbligato alla compilazione del quadro Rw, non provvede alla sua presentazione? È possibile sanare la mancata presentazione con la dichiarazione integrativa?

Innanzitutto andiamo a ricordare quella che è la funzione della dichiarazione integrativa, rimarcando che la stessa interviene laddove emergono errori nella compilazione delle dichiarazioni UNICO, IRAP e IVA presentate dai contribuenti. Può trattarsi di errori dovuti alla semplice errata digitazione di un importo così come quelli derivanti da un’errata valutazione di un onere da dedurre o anche a una semplice dimenticanza nel dichiarare un reddito. Qualora il contribuente si accorga dell’errore commesso, nelle ipotesi in cui i termini di presentazione della dichiarazione siano già scaduti, può rettificarla o integrarla presentando una nuova dichiarazione denominata “Dichiarazione integrativa” entro la scadenza prevista per la dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo. In tal caso potrà applicare le regole del ravvedimento operoso, usufruendo di sanzioni ridotte a un ottavo del minimo.

Se invece il contribuente presenterà la dichiarazione integrativa a sfavore oltre i termini del ravvedimento, ma comunque entro i termini per l’accertamento (31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione), non vengono applicate le riduzioni alle sanzioni; Nel caso di mancata compilazione del quadro la dichiarazione integrativa non risana la violazione; parliamo di una violazione sostanziale e non formale in quanto i dati eventualmente indicati consentono all’Amministrazione di conoscere le disponibilità estere anche se non producono reddito imponibile; la dichiarazione integrativa non consente di far venir meno la sanzione irrogata per la mancata presentazione della sanzione corretta nei termini previsti. La stessa dichiarazione opera ai fini della ridefinizione del reddito imponibile, ma non elimina la sanzione. Il raddoppio dei termini ai fini dell’accertamento riveste rilevanza ai fini processuali, in quanto l’operatività dei termini normali di accertamento potrebbe portare il contribuente ad eccepire la scadenza dei termini utili ai fini della contestazione della violazione.

Autore: redazione fiscal focus

Antiriciclaggio: depenalizzati i reati

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Finalmente uno spiraglio di luce nella complessa disciplina antiriciclaggio e la prospettiva di una riformulazione delle pesanti sanzioni previste.

A trasformare le sanzioni penali di cui al D.Lgs. 231/2007 in sanzioni amministrative non sarà, per ora, il decreto di recepimento della nuova IV direttiva Ue, ma, anticipando i tempi, le riforme potrebbero arrivare dallo schema di decreto legislativo in materia di depenalizzazione.

Le novità previste dal decreto depenalizzazione

Lo schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di depenalizzazione, prevede, all’articolo 1, che “non costituiscono reato e sono soggette alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro tutte le violazioni per le quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda”.

La nuova sanzione amministrativa sarà quindi determinata sulla base di quella che è l’attuale misura della pena pecuniaria prevista.

Più precisamente, potrà essere irrogata:

  • una sanzione da euro 5.000 ad euro 10.000 per i reati puniti con la multa o l’ammenda non superiore, nel massimo, a 5.000 euro;
  • una sanzione amministrativa da euro 5.000 ad euro 30.000 per i reati puniti con la multa o l’ammenda non superiore, nel massimo, a 20.000 euro;
  • ed, infine, una sanzione amministrativa da euro 10.000 ad euro 50.000 per i reati puniti con la multa o l’ammenda superiore a 20.000 euro.

L’impatto sulla disciplina antiriciclaggio

Come noto anche la disciplina antiriciclaggio contempla delle violazioni penalmente rilevanti per le quali è prevista esclusivamente la pena pecuniaria.

Con specifico riferimento ai professionisti tenuti al rispetto degli obblighi antiriciclaggio, l’articolo 55 del D.Lgs. 231/2007 prevede infatti che:

  • la violazione degli obblighi di identificazione è punita con la multa da euro 2.600 a 13.000 euro;
  • l’omessa, tardiva o incompleta registrazione è punita con la multa da euro 2.600 a 13.000 euro.

In entrambi i casi, con l’eventuale approvazione del decreto, le condotte non sarebbero più penalmente rilevanti, ma sarebbe prevista una sanzione amministrativa da euro 5.000 ad euro 30.000.

Le riforme sperate

A seguito delle novità introdotte non vengono eliminate le sanzioni antiriciclaggio, ma le condotte penalmente rilevanti potranno in futuro essere soggette alla sola sanzione amministrativa.

E’ tuttavia da rilevare come quest’ultima potrebbe essere più elevata, in termini economici, di quella attualmente prevista dal D.Lgs. 231/2007.

Mentre la sanzione attualmente prevista è infatti pari, nel massimo, ad una multa di euro 13.000, in futuro la sanzione amministrativa pecuniaria potrebbe raggiungere i 30.000 euro, ovvero più del doppio.

Inoltre, la “forbice” prevista dal legislatore appare sicuramente molto ampia: la sanzione può infatti essere compresa tra i 5.000 e i 30.000 euro. Questo punto va contro tutte le istanze finora avanzate.

Nonostante il possibile intervento riformatore, ci si augura quindi che il legislatore prenda contezza dell’attuale e persistente inadeguatezza del sistema sanzionatorio e possa, in occasione del recepimento della IV Direttiva, rivedere interamente la materia.

L’inadeguatezza e la non proporzionalità del sistema sanzionatorio previsto dal D.Lgs. n. 231/2007 è stato infatti più volte oggetto di attenzione, e, già da tempo, opera presso il Ministero dell’economia e delle finanze un tavolo tecnico volto alla revisione delle sanzioni irrogabili in caso di violazione della disciplina antiriciclaggio.

La speranza è quella che le sanzioni penali siano relegate ai soli casi in cui la violazione sia connessa all’utilizzo di dati e di documenti falsi, senza che possano rilevare, invece, mere inefficienze organizzative degli studi.

Le critiche del CNDCEC

Sicuramente critica è stata la posizione espressa dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili sulle riforme previste.

Come è stato infatti rilevato dal presidente, Gerardo Longobardi, “nel predisporre gli schemi dei decreti legislativi attuativi della delega contenuta nella legge n. 67/2014, relativa alla revisione del sistema sanzionatorio vigente si è posta l’attenzione anche su alcune sanzioni penali previste dalla normativa antiriciclaggio. Ne sono risultate depenalizzate, seppure indirettamente, le condotte previste dall’art. 55 del d.lgs. 231/2007, relative alla violazione degli obblighi di identificazione del cliente e di quelli di registrazione dei dati e delle informazioni acquisiti per l’adeguata verifica della clientela.

Un intervento che, paradossalmente, determinerà un sostanziale raddoppio dell’edittalità delle sanzioni pecuniarie attualmente previste a carico dei professionisti. La sanzione minima aumenterà infatti da € 2.600 a € 5.000 e quella massima da € 13.000 a € 30.000”.

L’effetto, pertanto, è soltanto quello di produrre un aggravio delle sanzioni pecuniarie a fronte di comportamenti che, il più delle volte, costituiscono dei meri inadempimenti formali.

Come ricordato a tal proposito dal Consigliere nazionale delegato all’antiriciclaggio, Attilio Liga, la speranza è quindi quella che “in sede di dibattito parlamentare si attui il necessario coordinamento tra le disposizioni generali contenute negli schemi dei provvedimenti attuativi della legge n. 67/2014 e l’esigenza di revisione delle sanzioni antiriciclaggio previste a carico dei professionisti, che già nella loro formulazione attuale appaiono assolutamente sproporzionate e irragionevoli. Questa, del resto, è un’esigenza condivisa anche dalle istituzioni, al punto da aver promosso la nascita del tavolo tecnico”.

Autore: Lucia Recchioni

SRL a base ristretta. Motivazione dell’avviso ai soci

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

In caso di società di capitali a ristretta base partecipativa, l’avviso di accertamento dei redditi del socio può essere motivato “per relationem”, cioè rinviando a quello relativo ai redditi della società e solo a quest’ultima notificato. Il socio, a norma dell’art. 2261 c.c., ha il potere di consultare la documentazione relativa alla società, quindi di prendere visione sia dell’accertamento presupposto che dei documenti richiamati a suo fondamento.

È quanto emerge dalla sentenza n. 3509/20/15 della Commissione Tributaria Regionale del Lazio.

Una Srl, socia di altra Srl estinta e avente un debito verso l’erario, ha impugnato la decisione di prime cure sostenendone la nullità sul rilievo dell’asserita violazione del litisconsorzio necessario tra la società a ristretta base partecipativa e i suoi soci. Tale doglianza, però, è stata respinta dai giudici di secondo grado della Capitale, i quali hanno anche ricordato un principio espresso dalla Cassazione in tema di motivazione degli avvisi di accertamento in ambito societario.

In sentenza si legge che, “a parte la considerazione che in realtà nella fase di impugnazione si è pervenuti, (omissis) a una trattazione unitaria della vicenda (medesimo collegio, stessa vicenda), pur tenendo distinti i due procedimenti, il primo motivo risulta infondato perché l’art. 14, comma 1 del D.Lgs. n. 546/1992 prevede il litisconsorzio necessario quando l’oggetto del ricorso riguarda ‘inscindibilmente’ più soggetti, ossia l’ineludibile compresenza di più parti, giacché le nozioni di connessione e riunione dei procedimenti non coincidono e non si identificano con il litisconsorzio. Nella concreta fattispecie non ricorre un unico rapporto plurisoggettivo paritario ma due imputazioni di responsabilità: una, principale, concernete la società, l’altra accessoria, in capo ai soci. Nessuna violazione dei diritti alla difesa è quindi ravvisabile”.

E ancora: “con la sentenza n. 21184/2005 la Corte di cassazione così si è pronunciata su una vicenda affine a quella in esame: ‘in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’obbligo di porre il contribuente in condizione di conoscere le ragioni per le quali deriva la pretesa fiscale è soddisfatto dall’avviso di accertamento dei redditi del socio che rinvii ‘per relationem’ a quello relativo ai redditi della società solo a quest’ultima notificato, giacché il socio a norma dell’art. 2261 c.c., ha il potere di consultare la documentazione relativa alla società, e, quindi, di prendere visione sia dell’accertamento presupposto che dei documenti richiamati a suo fondamento, ovvero di rilevarne l’omessa comunicazione. Infatti l’obbligo di motivazione degli atti di accertamento può essere assolto dall’amministrazione finanziaria anche mediante il riferimento a elementi di fatto offerti da documenti che siano nella conoscibilità del destinatario’”.

Si segnala che la suddetta sentenza n. 21184/2005 della Cassazione ha riguardato una fattispecie anteriore all’entrata in vigore dell’art. 7 della L. n, n. 212 del 2000; e infatti in essa si precisa che “condizione necessaria e sufficiente perché – nella vigenza della disciplina precedente all’entrata in vigore dello Statuto del contribuente – la motivazione per relationem dell’atto impositivo possa ritenersi legittima senza che vi sia allegato l’atto di riferimento, è che il contribuente conosca o abbia potuto conoscere tale atto. Sicché non potrebbe affermarsi la nullità di un atto impositivo solo per il fatto che questo sia motivato per relationem (anche in presenza di “rinvio a catena”), ma è necessario che il giudice accerti in fatto – e all’Ufficio spetta il relativo onere probatorio – se l’atto di riferimento sia effettivamente rimasto ignoto al contribuente”.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Ristrutturazione: quando si perde la detrazione

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

I vincoli da rispettare

Premessa – Se il pagamento delle spese per interventi di ristrutturazione non è stato eseguito tramite bonifico bancario o postale o è stato effettuato un bonifico che non riporti le indicazioni richieste la detrazione Irpef non viene riconosciuta.

Detrazione per ristrutturazione – La detrazione fiscale delle spese per interventi di ristrutturazione edilizia è disciplinata dall’art. 16-bis del D.P.R. 917/86 (Testo unico delle imposte sui redditi). Dal 1° gennaio 2012 l’agevolazione è stata resa permanente dal decreto legge n. 201/2011 e inserita tra gli oneri detraibili dall’Irpef. La detrazione è pari al 36% delle spese sostenute, fino a un ammontare complessivo delle stesse non superiore a 48.000 euro per unità immobiliare. Tuttavia, per le spese effettuate dal 26 giugno 2012 al 31 dicembre 2015, il decreto legge n. 83/2012 ha elevato al 50% la misura della detrazione e a 96.000 euro l’importo massimo di spesa ammessa al beneficio.
La perdita – La detrazione non è riconosciuta, e l’importo eventualmente fruito viene recuperato dagli uffici, quando:

  • non è stata effettuata la comunicazione preventiva all’Asl competente, se obbligatoria;
  • il pagamento non è stato eseguito tramite bonifico bancario o postale o è stato effettuato un bonifico che non riporti le indicazioni richieste (causale del versamento, codice fiscale del beneficiario della detrazione, numero di partita Iva o codice fiscale del soggetto a favore del quale il bonifico è effettuato);
  • non sono esibite le fatture o le ricevute che dimostrano le spese effettuate;
  • non è esibita la ricevuta del bonifico o questa è intestata a persona diversa da quella che richiede la detrazione;
  • le opere edilizie eseguite non rispettano le norme urbanistiche ed edilizie comunali;
  • sono state violate le norme sulla sicurezza nei luoghi di lavoro e quelle relative agli obblighi contributivi. Per queste violazioni il contribuente non decade dal diritto all’agevolazione se è in possesso della dichiarazione di osservanza delle suddette disposizioni resa dalla ditta esecutrice dei lavori (ai sensi del Dpr 28 dicembre 2000, n. 445).

Se cambia il possesso – Se l’immobile sul quale è stato eseguito l’intervento di recupero edilizio è venduto prima che sia trascorso l’intero periodo per fruire dell’agevolazione, il diritto alla detrazione delle quote non utilizzate è trasferito, salvo diverso accordo delle parti, all’acquirente dell’unità immobiliare (se persona fisica).

Vendita – In sostanza, in caso di vendita e, più in generale, di trasferimento per atto tra vivi, il venditore ha la possibilità di scegliere se continuare a usufruire delle detrazioni non ancora utilizzate o trasferire il diritto all’acquirente (persona fisica) dell’immobile. Tuttavia, in assenza di specifiche indicazioni nell’atto di compravendita, il beneficio viene automaticamente trasferito all’acquirente dell’immobile.
Decesso -In caso di decesso dell’avente diritto, la fruizione del beneficio fiscale si trasmette, per intero, esclusivamente all’erede che conserva la detenzione materiale e diretta dell’immobile.
Trasferimento dell’inquilino o del comodatario – La cessazione dello stato di locazione o comodato non fa venire meno il diritto alla detrazione in capo all’inquilino o al comodatario che hanno eseguito gli interventi oggetto della detrazione, i quali continueranno quindi a fruirne fino alla conclusione del periodo di godimento.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Crisi da sovraindebitamento dei soggetti non fallibili: l’accordo del debitore

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

I soggetti non fallibili, che si trovano in uno stato di crisi da sovraindebitamento possono, al ricorrere di determinate condizioni, fare riferimento a tre diversi istituti previsti con la Legge n°3 del 27 gennaio 2012, ossia:

  • accordo debitore;
  • piano del consumatore;
  • liquidazione del patrimonio.

E’ opportuno soffermarsi sull’accordo del debitore, andando a ricordare quelle che sono le condizioni per il ricorso a tale procedura, nonché i contenuti e la modalità di presentazione della proposta.

Il debitore non fallibile deve trovarsi in uno stato conclamato di “sovraindebitamento”, ossia di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte.

Gli articoli da 6 a 9 della Legge n°3/2012 stabiliscono che il debitore in stato di sovraindebitamento può proporre ai creditori un accordo di ristrutturazione presentando un piano che: preveda scadenze e modalità di pagamento dei creditori, anche se suddivisi in classi; indichi le eventuali garanzie eventualmente prestate anche da terzi; riporti le eventuali modalità per la liquidazione dei beni.

presentazione della proposta – La proposta di accordo o il piano devono essere depositati presso il Tribunale del luogo di residenza del debitore e devono essere corredati dalla seguente documentazione (art. 9, comma 1, Legge n. 3/2012);.

  • elenco dei creditori, con indicazione delle somme dovute, di tutti i beni del debitore e degli eventuali atti di disposizione compiuti negli ultimi 5 anni;
  • dichiarazione dei redditi degli ultimi 3 anni;
  • attestazione di fattibilità del piano (rilasciata dall’Organismo di composizione della crisi o dal professionista);
  • elenco delle spese correnti necessarie al sostentamento del debitore e del suo nucleo familiare, per il tempo previsto dal piano, corredato da un certificato dello stato di famiglia;
  • (solo per il debitore che svolge attività d’impresa) le scritture contabili degli ultimi 3 esercizi, unitamente alla dichiarazione che ne attesta la conformità all’originale. Contestualmente al deposito della proposta presso il Tribunale, l’organismo di composizione della crisi (OCC) deve provvedere a depositarne copia presso l’agente della riscossione e presso gli uffici fiscali competenti sulla base dell’ultimo domicilio tributario del proponente. La proposta deve contenere la ricostruzione della posizione fiscale del debitore e deve dare contezza di eventuali conten­ziosi pendenti.

Inoltre alla proposta di piano del consumatore è allegata una relazione particolareggiata dell’Organismo di Composizione della Crisi (OCC) contenente (art. 9, comma 3-bis, Legge 3/2012):

  • l’indicazione delle cause dell’indebitamento e della diligenza impiegata dal consuma­tore nell’assumere volontariamente le obbligazioni;
  • l’esposizione delle ragioni dell’incapacità del debitore di adempiere le obbligazioni assunte;
  • il resoconto sulla solvibilità del consumatore negli ultimi cinque anni;
  • l’indicazione della eventuale esistenza di atti del debitore impugnati dai creditori;
  • il giudizio sulla completezza e attendibilità della documentazione depositata dal consumatore a corredo della proposta, nonché sulla probabile convenienza del piano rispetto all’alternativa liquidatoria.

Il Giudice se i requisiti sono rispettati, fissa l’udienza e dispone la comunicazione della proposta e del decreto di fissazione dell’udienza.

L’accordo deve essere raggiunto con i creditori che rappresentano almeno il 60% dei crediti, evidenziando che non concorrono al raggiungimento della soglia di approvazione: i creditori privilegiati, per i quali la proposta può prevedere l’integrale pagamento; il coniuge del debitore, i suoi parenti e affini entro il 4° grado; i cessionari o aggiudicatari dei loro crediti da meno di un anno prima della proposta.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

L’acquisto dell’abitazione principale e la detrazione degli interessi passivi

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

La percentuale di detrazione è pari al 19% calcolato su un importo massimo di 4.000 euro

Il contribuente che ha stipulato un mutuo per l’acquisto dell’abitazione principale, in sede di determinazione Irpef, può procedere alla detrazione degli interessi passivi collegati al contratto di mutuo; la detrazione opera in misura pari al 19 % calcolato su un importo massimo di € 4.000; quindi la detrazione massima prevista è nel complesso pari a € 760.

La detrazione spetta al contribuente acquirente ed intestatario del contratto di mutuo, anche se l’immobile è adibito ad abitazione principale di un suo familiare (coniuge, parenti entro il terzo grado ed affini entro il secondo grado); nel caso di separazione legale anche il coniuge separato, finché non intervenga l’annotazione della sentenza di divorzio, rientra tra i familiari. In caso di divorzio, al coniuge che ha trasferito la propria dimora abituale spetta comunque il beneficio della detrazione per la quota di competenza, se presso l’immobile hanno la propria dimora abituale i suoi familiari. La detrazione spetta anche al “nudo proprietario” (e cioè al proprietario dell’immobile gravato, ad esempio, da un usufrutto in favore di altra persona) sempre che ricorrano tutte le condizioni richieste, mentre non compete mai all’usufruttuario in quanto lo stesso non acquista l’unità immobiliare.

Regime di detraibilitàPer i contratti di mutuo stipulati antecedentemente al 1° gennaio 1993 è stabilito che l’abitazione principale doveva configurarsi entro l’8 dicembre 1993, e che a partire da questa data il contribuente non doveva cambiare la propria abitazione principale, se non solo per motivi di natura lavorativa; la detrazione massima va calcolata su un importo di interessi non superiore a 4.000 euro per ciascun intestatario., per i contratti di mutuo risalenti al periodo che va dal 1 gennaio 1993 fino al 31 dicembre 2000, l’importo massimo della detrazione è calcolato su € 4.000 complessivi, ed è ammessa solo se l’immobile sia diventato abitazione principale entro sei mesi dall’acquisto e che lo stesso acquisto sia avvenuto entro sei mesi antecedenti alla stipula del mutuo o nei sei mesi successivi; infine, per i contratti di mutuo accesi a partire dal 1 gennaio 2001, la detrazione è definita sulla base di un importo massimo relativo agli interessi pari a € 4000 complessivi, se l’immobile è diventato abitazione principale entro un anno dall’acquisto, e se l’acquisto è avvenuto entro l’anno antecedente o successivo all’accensione del mutuo.

Spese detraibili – oltre alla quota di interessi passivi, si possono detrarre anche gli oneri accessori relativi alla stipula del mutuo con la banca, eventuali oneri fiscali e spese aggiuntive come l’imposta di iscrizione o cancellazione di ipoteca e l’imposta sostitutiva sul capitale prestato.

Anche la provvigione per lo scarto rateizzato, le spese notarili sostenute per l’istruzione della pratica di mutuo e le eventuali perizie tecniche rientrano nel conteggio, così come l’apertura di un conto corrente accessorio; è utile evidenziare che l’importo massimo portato in detrazione in ogni caso non può superare le 760 € complessivi.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Sas fallita. Obbligatoria la notifica all’accomandatario

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

La cartella non può essere notificata solo al curatore

L’intimazione di pagamento è atto impugnabile in CTP quando il socio accomandatario della Sas fallita non ha ricevuto la notifica né della cartella di pagamento né del prodromico avviso di accertamento.

È quanto emerge dalla sentenza n. 322/03/15 della Commissione Tributaria Provinciale di Como.

È stata annullata una pretesa erariale portata da una cartella di pagamento notificata al solo curatore di una Sas fallita.

La CTP ha sposato le tesi del socio accomandatario circa il vizio di notifica (con riguardo sia alla cartella sia all’avviso di accertamento sui cui essa si basava, atto divenuto definitivo per mancanza d’impugnazione), con conseguente riconoscimento, in capo al medesimo, del diritto di proporre ricorso avverso l’intimazione di pagamento.

L’adito Collegio comasco, respingendo l’eccezione preliminare d’inammissibilità opposta dalla convenuta Agenzia delle entrate, ha osservato che, se è vero che l’intimazione di pagamento non rientra fra gli atti autonomamente impugnabili ai sensi dell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/92 (il che si giustifica con il fatto che l’intimazione fa seguito alla cartella di pagamento, atto con cui è comunicata al contribuente una pretesa tributaria ormai ben definita), è altresì vero che la mancata notifica della cartella o comunque dell’atto presupposto rende ammissibile l’impugnazione dell’atto successivo (nel caso di specie dell’intimazione di pagamento) ex art. 19, ultimo comma, D.Lgs. n. 546/92. Nel caso in esame, osservano i giudici, ricorre appunto tale circostanza:quanto alla cartella, essa risulta notificata al citato curatore nella data del 17/12/2009, ma non risulta che analoga notifica sia avvenuta nei confronti del (omissis) né vi è prova che detto organo del fallimento abbia informato il fallito della esistenza di tale pretesa tributaria (facente carico a società diversa da quella fallita e circa la quale il ricorrente nega di aver assunto alcun ruolo); come ritenuto dalla costante giurisprudenza di legittimità, l’accertamento tributario, se relativo a crediti maturati prima della dichiarazione di fallimento, deve essere notificato non solo al curatore ma anche al contribuente personalmente (essendo egli esposto alle conseguenze della definitività dell’atto impositivo), che è eccezionalmente abilitato a impugnarlo nella inerzia degli organi fallimentari, non potendo attribuirsi carattere assoluto alla perdita della capacità processuale conseguente alla dichiarazione del fallimento, che può essere eccepita esclusivamente dal curatore nell’interesse della massa dei creditori (cfr. Cass. 2910/09, 17687/13, 4113/14, 9434/14)”.

Insomma, i giudici della Provinciale di Como hanno ritenuto l’irritualità della notifica della cartella di pagamento, quindi l’illegittimità della conseguente intimazione di pagamento.

Il ricorso del socio è stato pertanto accolto, ma non rispetto alla domanda di annullamento dell’atto di diniego all’istanza di autotutela, non essendo esso, ad avviso del collegio giudicante, autonomamente impugnabile davanti al giudice tributario.

Stante la parziale reciproca soccombenza, la Commissione ha disposto l’integrale compensazione delle spese di lite fra le parti.

Autore: redazione fiscal focus

Sanzioni in caso di PEC non propria

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Premessa – L’obbligo di dotarsi di un indirizzo PEC da comunicare ai fini dell’iscrizione nel registro delle imprese è sancito dall’art. 16 comma 6 del Dl 185/2008 e dall’art. 5, commi 1 e 2 del Dl 179/2012.

Spesso accade che al registro delle imprese sia comunicato, sulla posizione di un’impresa, l’indirizzo PEC di cui è titolare un’altra impresa oppure è comunicato l’indirizzo PEC di chi ha predisposto la pratica di iscrizione al registro stesso (ad esempio è indicata la PEC del commercialista).

Le imprese che si trovano in una situazione appena descritta sono chiamate a dotarsi di un indirizzo PEC proprio e a comunicarlo al Registro Imprese, pena l’applicazione di sanzioni.

L’obbligo di dotarsi di PEC propria – L’obbligo di dotarsi di PEC propria da comunicare anche al Registro Imprese è specificamente stato chiarito con la Circolare n. 77684/2014 del Ministero dello Sviluppo Economico , in cui è stato affermato che “considerato quanto previsto dall’art. 16, cc. 6 e 6-bis del DL 185/08, e dall’art. 5, cc. 1 e 2, del DL 179/2012”, si ritiene che “nel caso si rilevi, d’ufficio o su segnalazione di terzi, l’iscrizione di un indirizzo PEC, di cui sia titolare una determinata impresa, sulla posizione di un’altra (o di più altre) – ovvero, comunque, l’iscrizione sulla posizione di un’impresa di un indirizzo PEC che non sia proprio della stessa – dovrà avviarsi la procedura di cancellazione del dato in questione ai sensi dell’art. 2191 c.c., previa intimazione, all’impresa interessata (o alle imprese interessate), a sostituire l’indirizzo registrato con un indirizzo di PEC proprio”.

Inoltre, nella stessa circolare è anche precisato che lo stesso Ministero aveva già avuto occasione di chiarire, (con nota n. 120610 del 16/07/2013, all. 1), che precedenti indicazioni operative fornite in passato, secondo cui era possibile, per le imprese, indicare l’indirizzo di PEC di un terzo, sono da ritenersi ormai superate alla luce della successiva evoluzione normativa, risultando “indubitabile” che per ogni impresa debba essere iscritto, nel registro delle imprese, un indirizzo di PEC alla stessa esclusivamente riconducibile.

Le sanzioni – Sulla base di quanto affermato nella circolare n. 77684/2014, dunque, la Camera di Commercio, prima di procedere alla cancellazione della PEC risultante sulla posizione di un’impresa che non sia quella “propria”, invia a quest’ultima una comunicazione in cui invita a sostituire il predetto dato con un indirizzo PEC proprio.

Nel caso in cui, l’impresa interessata non aderisce a tale invito nel termine indicato nella comunicazione stessa, oltre alla cancellazione dell’indirizzo PEC si rende applicabile la specifica sanzione prevista dall’art. 16, c. 6-bis, del DL 185/08 (nel caso delle società), e dall’art. 5, c. 2, secondo periodo, del DL 179/12 (nel caso delle imprese individuali), secondo le modalità indicate nel parere n. 141955 del 29/08/2013 del Ministero stesso.

In particolare, è prevista una sanzione da 103 a 1.032 euro, con riduzione a 1/3 se l’impresa comunica la PEC “propria” entro i 30 giorni successivi all’irrogazione della sanzione.

E’ importante dare attenzione all’argomento trattato nel presente articolo, poiché l’eventuale cancellazione della PEC sulla propria posizione avrà delle ripercussioni anche sul rapporto tra registro imprese e impresa stessa. Si ricorda, infatti, che l’indirizzo PEC iscritto nel registro delle imprese ha carattere di ufficialità nel rapporto con i terzi e che lo stesso costituisce il sistema di collegamento preferenziale o esclusivo della Pubblica Amministrazione, compresa l’Autorità Giudiziaria e l’Amministrazione Finanziaria.

Autore: Pasquale Pirone

Stabili organizzazioni: quando è dovuta l’IVA in Italia?

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Affinché si possa ritenere che la stabile organizzazione in Italia di un soggetto estero partecipi a un’operazione e sia tenuto per la suddetta operazione al versamento dell’IVA è necessario non solo che la stabile organizzazione partecipi all’operazione ma la stabile deve svolgere una parte essenziale dell’operazione. E’ quanto chiarito dall’Amministrazione Finanziaria in risposta ad un interpello reso noto dalla stampa specializzata (Sole 24 ore del 04.11.2015) che amplia l’interpretazione restrittiva fornita dall’Amministrazione Finanziaria nella C.M. 37/E/2011.

La stabile organizzazione ai fini IVA: rapporti con la casa madre – Il Regolamento Ue 282/2011, facendo proprie numerose interpretazioni giurisprudenziali, ha fornito la definizione di stabile organizzazione ai fini Iva. Il citato Regolamento, oltre a definire puntualmente il concetto di stabile organizzazione ai fini Iva, interviene sulla stabile organizzazione regolando i rapporti con la casa madre e gli effetti ai fini delle regole territoriali relative alle cessioni di beni ed alle prestazioni di servizi.
In particolare:

  • l’art. 11 del citato Regolamento, fornisce la definizione di stabile organizzazione;
  • gli articoli 53 e 21 del Regolamento UE n. 282/2011 stabiliscono quando la stabile organizzazione, partecipando, rispettivamente dal lato attivo e da quello passivo, all’effettuazione dell’operazione, viene considerata soggetto passivo ai fini IVA in luogo della sede dell’attività economica.

La partecipazione delle stabile organizzazione all’effettuazione dell’operazione – La stabile organizzazione è tenuta al versamento dell’IVA solo se partecipa all’effettuazione dell’operazione (art. 192-bis della direttiva 2006/112/CE). L’art. 192-bis della dir. 2006/112/CE, sancisce che, la stabile organizzazione, identificata in uno Stato membro diverso da quello del soggetto da cui essa dipende, fa venir meno l’obbligo generalizzato del reverse charge per i servizi e per i beni forniti al committente nazionale sotto due condizioni: 1. la casa madre effettua operazioni rilevanti nel territorio dello Stato (in cui la stabile organizzazione è identificata); 2. la stabile organizzazione partecipa alla esecuzione del servizio.

Cosa si debba intendere per partecipazione è indicato nel Regolamento UE 282/2011.

L’ articolo 53 del Regolamento Ue 282/2011 individua i casi un cui la stabile organizzazione, che opera come soggetto attivo, sia da prendere in considerazione come soggetto passivo ai fini IVA, in luogo della sede dell’attività economica.
In particolare, la citata disposizione sancisce quando la stabile organizzazione è (non è) tenuta al versamento dell’IVA:

  • non lo è se NON partecipa alla cessione di beni o alla prestazione di servizi ai sensi dell’art. 192- bis, lett. b), della Direttiva n. 2006/112/CE, a meno che la sua struttura sia utilizzata dalla casa madre per operazioni inerenti alla realizzazione della cessione o prestazione, prima o durante l’effettuazione della predetta cessione o prestazione;
  • non lo è se non partecipa alla cessione di beni o alla prestazione di servizi o se ha unicamente funzioni di supporto amministrativo (per esempio, la contabilità, la fatturazione e il recupero crediti);
  • infine, se, viene emessa una fattura con il numero di identificazione IVA attribuito dallo Stato membro della stabile organizzazione alla stessa, si considera, salvo prova contraria, che tale stabile organizzazione abbia partecipato alla cessione di beni o alla prestazione di servizi effettuata in tale Stato membro.

Tali aspetti sono stati oggetto di un intervento operato dall’Amministrazione Finanziaria con la circolare 37/E del 2011. In base ai chiarimenti contenuti nella circolare, “deve escludersi che la stabile organizzazione partecipi all’effettuazione del servizio quando in nessun modo il cedente o prestatore utilizzi le risorse tecniche o umane della stabile organizzazione in Italia per l’esecuzione della cessione o della prestazione in considerazione”.
L’interpretazione fornita dall’Amministrazione Finanziaria non pare del tutto in linea con le indicazioni del Regolamento UE 282/2011, facendo riferimento al semplice utilizzo delle risorse tecniche o umane della stabile organizzazione. Tale interpretazione è stata “ampliata” dalla Commissione UE che nel Working Paper n. 791 del 2014 e Working Paper n. 857/2015) ha precisato, su richiesta italiana, che una stabile organizzazione partecipa all’operazione se i mezzi umani e tecnici della stabile organizzazione sono stati effettivamente utilizzati nel caso concreto al fine di fornire (prima o durante l’esecuzione) un supporto in merito al completamento dell’operazione.
Tale interpretazione viene fatta propria dall’Agenzia delle Entrate, la quale, in risposta ad un interpello reso noto dalla stampa specializzata, ha affermato che affinché si possa ritenere che la stabile organizzazione in Italia di un soggetto estero partecipi a un’operazione e sia tenuto per la suddetta operazione al versamento dell’IVA è necessario non solo che la stabile organizzazione partecipi all’operazione ma la stabile deve svolgere una parte essenziale dell’operazione. E’ quanto chiarito dall’Amministrazione Finanziaria in risposta ad un interpello reso noto dalla stampa specializzata.

Autore: Redazione Fiscal Focus

Cartelle. Affissione dell’avviso alla porta di casa

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Nulla la notifica della cartella esattoriale senza prova che c’era l’avviso di deposito sulla porta di casa

Se il destinatario della cartella esattoriale è irreperibile, l’ufficiale giudiziario deve depositare la copia nella casa del Comune dove la notificazione deve eseguirsi e affiggere l’avviso del deposito alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario, che deve essere pure informato con raccomandata A/r. Il giudice deve accertare il rispetto di questa procedura dalla quale dipende la validità della notifica.

È quanto emerge dalla sentenza 22 ottobre 2015, n. 21529, della Seconda Sezione Civile della Cassazione.

Gli ermellini hanno accolto il ricorso di un cittadino che ha proposto opposizione ex artt. 615 e 617 C.p.c. contro la cartella esattoriale inviatagli da Equitalia per verbali non pagati relativi a infrazioni al Codice della strada.

Nel giudizio di cassazione ha trovato ingresso la contestazione riguardante il vizio di notifica delle cartelle, essendo mancata l’affissione dell’avviso di deposito sulla porta dell’abitazione – in violazione dell’art. 140 C.p.c. – ed essendo stata prodotta in giudizio una copia del frontespizio della busta che non consentiva la riferibilità della raccomandata inviata.

“La censura relativa alla mancata affissione”, scrive la Suprema Corte, “è fondata perché è carente l’accertamento del Giudice di pace sulle modalità della notifica ed in particolare sull’affissione alla porta dell’abitazione”.

La Suprema Corte ha poi chiarito che “avverso la cartella esattoriale sono ammissibili l’opposizione ai sensi della legge n. 689 del 1981 in funzione recuperatoria della pregressa tutela o quella all’esecuzione ex art. 615 Cpc od agli atti esecutivi ex art. 617 Cpc. La prima ha come unici interlocutori gli enti impositori, le altre presuppongono che si instauri correttamente un giudizio di opposizione all’esecuzione od agli atti esecutivi nelle forme e con le modalità del codice di rito”. Nel caso di specie, “il ricorso fa riferimento nell’esposizione del fatto a un avviso di accertamento reperito nel corso del 2010 in cassetta postale e ad una omessa notifica e la sentenza ad una opposizione in cui si deduceva anche l’inesistenza del titolo”.

La causa è stata rimessa al giudice di merito per nuovo giudizio.

Autore: redazione fiscal focus

Perdite su crediti: periodo di deducibilità

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Per i crediti di modesto imposto i sei mesi rappresentano il momento di inizio

Premessa – Per le perdite su crediti di modesta entità il termine dei sei mesi rappresenta il momento a partire dal quale (“dies a quo”) la perdita può essere fiscalmente dedotta: è la corretta adozione dei principi contabili che determina la cancellazione del credito dal bilancio, derivante dall’esercizio in cui è imputata a conto economico a titolo di svalutazione secondo l’apprezzamento degli amministratori.

Decreto internazionalizzazione – Il D.Lgs. n. 147/2015 “Decreto Internazionalizzazione” è intervenuto al fine di dare maggiore certezza al periodo di deducibilità della perdita riferita a crediti di modesto importo (€ 2.500/5.000) che risultano scaduti da almeno 6 mesi.

Testo legislativo – Il nuovo comma 5-bis del citato art. 101, introdotto dall’art. 13, comma 1, lett. d) del Decreto in esame, dispone che la deduzione delle perdite sui predetti crediti: “è ammessa (…) nel periodo di imputazione in bilancio, anche quando detta imputazione avvenga in un periodo di imposta successivo a quello in cui (…) sussistono gli elementi certi e precisi ovvero il debitore si considera assoggettato a procedura concorsuale, sempreché l’imputazione non avvenga in un periodo di imposta successivo a quello in cui, secondo la corretta applicazione dei principi contabili, si sarebbe dovuto procedere alla cancellazione del credito dal bilancio”.

Principi contabili – Di conseguenza la deducibilità di una perdita su crediti di modesto importo/nei confronti di soggetti interessati da procedure concorsuali è ammessa nel medesimo periodo d’imposta di imputazione della stessa a bilancio sulla base dell’applicazione dei Principi contabili, ancorché lo stesso sia successivo a quello di manifestazione delle condizioni per la deducibilità.

Limite temporale – È comunque posto un limite temporale entro il quale è consentita la deducibilità, rappresentato dal periodo d’imposta nel quale, in base ai predetti Principi contabili, il credito avrebbe dovuto essere cancellato dal bilancio (così, ad esempio, per effetto della cessione del credito a terzi, per prescrizione, per effetto della stipula di un accordo di saldo o di stralcio).

Crediti di modesto importo – Relativamente alla perdita su crediti di modesto importo, il Decreto in esame, come evidenziato nella Relazione illustrativa, “accoglie” le soluzioni interpretative già fornite dall’Agenzia delle Entrate nella Circolare 1.8.2013 n. 26/E, in base alle quali il verificarsi della condizione temporale (decorso dei 6 mesi) rappresenta il momento a decorrere dal quale la perdita può essere dedotta; la stessa, non deve necessariamente essere contabilizzata nell’esercizio in cui si è realizzata la predetta condizione.

Periodo successivo – Pertanto, anche qualora l’imputazione secondo la corretta applicazione dei principi contabili avvenga in un periodo di imposta successivo a quello della scadenza del sesto mese dal termine di pagamento concordato, la perdita sarà deducibile in quel periodo di imposta

Periodo d’imputazione – Più precisamente, se la perdita, in applicazione dei Principi contabili è imputata in un esercizio successivo a quello in cui si realizza il requisito del decorso dei 6 mesi, la stessa è deducibile nell’esercizio di imputazione a Conto economico, mentre se la perdita è imputata in un esercizio precedente a quello in cui si realizza il requisito del decorso dei 6 mesi, la stessa è deducibile in quest’ultimo esercizio.

Autore: redazione fiscal focus

Regime dei minimi fino a naturale scadenza

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Premessa – Il disegno di legge di stabilità 2016 attua la riforma dei regimi agevolati prevedendo che dall’anno prossimo il regime forfetario resterà l’unico e in caso di inizio di una nuova attività si applicherà l’aliquota del 5% per i primi 5 anni. In assenza di diposizioni specifiche per i contribuenti minimi si ritiene che possano continuare ad operare con tale regime fino alla naturale scadenza.

Legge di stabilità 2015 – L’art. 1, commi 85 e 88, Legge di Stabilità 2015 ha soppresso il regime dei minimi ex art. 27, commi 1 e 2, DL n. 98/2011 dall’1.1.2015, permettendo però a coloro che al 31 dicembre 2014 erano già in regime di proseguire fino alla scadenza naturale, ossia al termine del quinquennio dall’inizio attività o al compimento del 35° anno di età.

Decreto mille proroghe – Il comma 12-undecies dell’art. 10 del Decreto “Milleproroghe” (D.L. n. 192/2014) in deroga alla disposizione di cui all’art. 1, comma 85, lett. b) e c), Legge di Stabilità 2015 che abroga il regime dei minimi, ha prorogato fino al 31 dicembre 2015 il termine entro il quale i soggetti in possesso dei relativi requisiti possono scegliere di adottare il regime di cui all’art. 27, commi 1 e 2, DL n. 98/2011, con applicazione dell’imposta sostitutiva del 5%. Di fatto, quindi, l’abrogazione del regime dei minimi prevista dalla Legge di Stabilità 2015 è prorogata di un anno.

Bozza legge di stabilità 2016 – Dal 2016 il regime forfetario sarà l’unico agevolato e in caso di inizio di una nuova attività il disegno di legge di stabilità 2016 prevede l’applicazione dell’aliquota del 5% (anziché del 15%) per i primi 5 anni. Non è previsto il mantenimento del regime di favore fino al compimento del 35° anno di età.

Forfettari start up con inizio nel 2015 – I contribuenti che hanno iniziato una nuova attività nel 2015 e che hanno fruito del regime forfetario possono, di fatto, applicare l’aliquota del 10% (anziché del 15%) sul reddito imponibile determinato applicando all’ammontare dei ricavi o compensi percepiti un coefficiente di redditività. Per i quattro anni successivi (dal 2016 al 2019) il disegno di legge di stabilità per il 2016 prevede la possibilità di applicare la nuova aliquota del 5 per cento.

Regime dei minimi – Si pone, al riguardo, il problema di quale disciplina debbano applicare i soggetti che nel 2015 e negli anni precedenti hanno scelto invece, di fruire, ricorrendone i presupposti, del regime “dei minimi”.

Mancanza di disciplina transitoria – Non è stata prevista, infatti, una disciplina transitoria per tali soggetti. Nella Legge n. 190/2014 era stato stabilito, come già detto, che i contribuenti che nel 2014 si erano avvalsi di tale regime avrebbero potuto continuare a fruirne fino alla scadenza del quinquennio e al compimento del 35° anno di età.

D.D.L. stabilità 2016 – Al riguardo si fa presente che nel disegno di legge di stabilità 2016 non vige alcuna norma contraria e pertanto si ritiene che tale disposizione legislativa rimanga in vigore, consentendo conseguentemente ai contribuenti interessati di fruire del regime “dei minimi” fino alla sua naturale scadenza e cioè fino al 5° anno o eventualmente fino al 35° anno di età.

Minimi nel 2015 – Anche la proroga stabilita in sede di conversione del D.L. n. 192/2014 (“Decreto Milleproroghe”) aveva previsto che lo stesso regime poteva essere scelto dai soggetti la cui attività fosse iniziata nel 2015. Il disegno di Legge di stabilità non ha abolito neanche tale previsione e si ritiene, pertanto, che anche tali soggetti possano continuare a fruire del regime di vantaggio fino alla sua naturale scadenza.

Autore: Devis Nucibella

Omessa IVA. A rischio la causa di non punibilità e la soglia più alta

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Il Tribunale di Varese chiede un parere alla CGUE

Lo scorso 22 ottobre è entrata a regime la riforma dei reati tributari ad opera del D.Lgs. n. 158/2015. Tale decreto, fra l’altro, ha innalzato la soglia minima di rilevanza penale per il caso di omesso versamento dell’IVA – detta soglia da 50 mila è salita a 250 mila euro per ciascun periodo d’imposta – e stabilito una causa di non punibilità, nel senso che il contribuente non è punibile ai sensi dell’art. 10 ter del D.Lgs. n. 74/2000 se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, provvede all’integralmente pagamento di quanto dovuto all’Erario, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie, oltreché del ravvedimento operoso.

Queste due importanti novità in materia di reati fiscali sono ora finite sotto la lente d’ingrandimento del Tribunale di Varese che, sospettando la loro non compatibilità con il diritto dell’Unione, ha chiesto “lumi” sul punto alla Corte di Giustizia del Lussemburgo sospendendo, nel frattempo, il procedimento a carico di un amministratore di società.
Il Tribunale di Varese, visto l’art. 267 TFUE, ha chiesto alla CGUE di chiarire:

  • se il diritto europeo, e in particolar modo il combinato disposto degli artt. 4.1, paragrafo 3, TUE, 325 TFUE e dalla direttiva 2006/112 che prevedono l’obbligo di assimilazione in capo agli Stati membri per quanto riguarda le politiche sanzionatorie, possa essere interpretato nel senso che osti alla promulgazione di una norma nazionale che preveda che la rilevanza penale dell’omesso versamento dell’IVA consegua al superamento di una soglia pecuniaria più elevata rispetto a quella stabilita in relazione all’omesso versamento dell’imposta diretta sui redditi;
  • se il diritto europeo, e in particolar modo il combinato disposto degli artt. 4, paragrafo 3, TUE, 325 TFUE e dalla direttiva 2006/112 che impongono l’obbligo a carico Stati membri cli prevedere sanzioni effettive, dissuasive e proporzionate a tutela degli interessi finanziari della UE, possa essere interpretato nel senso che osti alla promulgazione di una norna nazionale che escluda la punibilità dell’imputato (sia esso amministratore, rappresentante legale, delegato a svolgere funzioni di rilevanza tributaria ovvero concorrente nell’illecito), qualora l’ente dotato di personalità giuridica ad esso riconducibile abbia provveduto al pagamento tardivo dell’imposta e delle sanzioni amministrative dovute a titolo di IVA, nonostante l’accertamento fiscale sia già intervenuto e si sia provveduto all’esercizio dell’azione penale, al rinvio a giudizio, all’accertamento della rituale instaurazione del contraddittorio in sede di processo e fin tanto che non si è proceduto alla dichiarazione di apertura del dibattimento, in un sistema che non commina a carico del predetto amministratore, rappresentante legale ovvero al loro delegato e concorrente nell’illecito alcuna altra sanzione, neppure a titolo amministrativo;
  • se la nozione di illecito fraudolento disciplinata all’art. 1 della Convenzione PIF vada interpretata nel senso di ritenere incluso nel concetto anche l’ipotesi di omesso, parziale, tardivo versamento dell’imposta sul valore aggiunto e, conseguentemente, se l’art. 2 della convenzione summenzionata imponga allo Stato membro di sanzionare con pene detentive l’omesso, parziale, tardivo versamento dell’IVA per importi superiori a 50.000,00 euro. In caso di risposta negativa, occorre chiedersi se la prescrizione dell’art. 325 TFUE, che obbliga gli Stati membri a comminate sanzioni, anche penali, dissuasive, proporzionate ed efficaci, vada interpretata nel senso che osti ad un assetto normativo nazionale che esenta da responsabilità penale e amministrativa gli amministratori e i rappresentanti legali delle persone giuridiche, ovvero i loro delegati per la funzione e i concorrenti nell’illecito, per l’omesso, parziale, ritardato versamento dell’’IVA in relazione ad importi corrispondenti a 3 o 5 volte le soglie minime stabilite in caso di frode, pari a 50.000,00 euro.

Non resta che aspettare il verdetto dei giudici lussemburghesi.

Acconti 2015: la cedolare secca

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Importi dovuti e corretta determinazione in Unico

Il 30 novembre prossimo scade anche il secondo acconto dovuto per la cedolare secca.

L’anticipo risulta dovuto se l’importo indicato in rigo RB11 del Modello Unico (colonna 3) è pari o superiore ad € 52.

L’acconto per la cedolare secca è pari al 95% dell’imposta complessivamente dovuta.

Il Metodo di calcolo

Anche l’acconto per la cedolare secca può essere rideterminato con le due consuete modalità. Il metodo storico e quello previsionale.

Con quello storico il conteggio viene effettuato utilizzando come riferimento l’imposta dovuta per l’anno d’imposta 2014. In particolare si deve assumere il 95% dell’imposta indicata nel rigo RB11 colonna 3 di Unico 2015 (rigo denominato “Totale imposta cedolare secca”).

Con il metodo previsionale invece l’acconto è sempre pari al 95% dell’imposta che si presume sarà dovuta per l’anno 2015.

Trattandosi di un anticipo infatti il contribuente può, infatti, sempre ridurre fino anche ad annullare il versamento di quanto originariamente determinato con il metodo storico.

Si ricorda inoltre che, al fine di non incorrere in sanzioni, nel caso di adozione del metodo previsionale l’acconto versato deve essere almeno pari al 95% della cedolare secca che sarà determinata in Unico 2016 redditi 2015.

Nel caso di specie la sanzione prevista è pari al 30% dell’importo non versato o pagato in ritardo.

Rimane comunque, sempre applicabile, anche in caso di versamento incapiente, la disciplina del ravvedimento operoso che, per effetto delle novità introdotte dalla Legge di Stabilità per il 2015 (L. 190/2014), è usufruibile non oltre il momento dell’invio dell’avviso bonario emesso a seguito della liquidazione automatica/controllo formale della dichiarazione.

Per effetto delle novità introdotte con la citata normativa il contribuente può beneficiare di una riduzione delle sanzioni che decresce con l’aumentare del tempo in cui interviene (da 1/10 a 1/6 del minimo), potendo egli stessi, al limite procedere con il ravvedimento non oltre il termine ultimo previsto per l’accertamento ex art. 43 D.p.r. 600/73.

L’indicazione in Unico

L’acconto dovuto sul 2015 va obbligatoriamente fornito, non solo per l’Irpef (rigo RN62), ma anche in ipotesi di applicazione dell’imposta sostitutiva sul reddito fondiario derivante dalla locazione di immobili abitativi (cd “cedolare secca”) per cui l’anticipo richiesto per l’annualità in corso (prima e seconda o unica rata) va segnalato esclusivamente avvalendosi delle regole previste per il calcolo sulla base del “metodo storico” al rigo RB12 del modello Unico.

Gli importi da indicare al suddetto rigo RB12 sono pari al 95% di quanto determinato a rigo RB11(“Totale imposta cedolare secca”). Tale percentuale va ulteriormente suddivisa in:

  • prima rata (colonna 1) pari al 40% del totale dovuto
  • la seconda rata (colonna 2) nella quale indicare il restante 60%.

In altre parole al rigo RB12 in colonna 1 va segnalato il 38% del rigo RB11, invece a colonna 2 il 57% sempre del rigo RB11.

Si ricorda altresì che la prima rata potrebbe non essere stata pagata qualora di ammontare pari od inferiore ad € 103,00. In questa ipotesi al 30 novembre dovrà essere versato l’intero acconto dovuto.

Anche per la cedolare secca vale la stessa regola in tema di Irpef, per cui in caso di abbandono del metodo storico, in RB12 devono essere comunque segnalati gli importi derivanti dal suddetto metodo e non i minori importi versati o che si intendono versare sulla base del calcolo previsionale.

Autore: redazione fiscal focus

Ragionieri tra gli organismi di composizione della crisi

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Anche i ragionieri vedono finalmente riconosciuto il loro diritto ad iscriversi agli Organismi di composizione della crisi da sovra indebitamento.

Con la sentenza del 4 novembre il Tar del Lazio ha infatti accolto il ricorso presentato dal CNDCEC contro i Ministeri della Giustizia, dello Sviluppo Economico e dell’Economia, con il quale l’ente aveva impugnato il Decreto Ministeriale pubblicato nel settembre 2014 che, prevedendo la laurea tra i requisiti di iscrizione negli elenchi degli organismi di composizione, di fatto, escludeva i ragionieri.

Ben trentacinquemila ragionieri, sprovvisti di laurea ma iscritti alla sezione A dell’Albo dei Commercialisti, potranno quindi finalmente ricoprire la qualifica di gestore della crisi da sovra indebitamento.

La soddisfazione del CNDCEC

Grande è la soddisfazione espressa dal Presidente Nazionale dei Commercialisti, Gerardo Longobardi, il quale aveva sin da subito denunciato la contraddittorietà del Decreto nella parte in cui non prevedeva una specifica deroga per i ragionieri.

Come hanno evidenziato infatti i consiglieri nazionali delegati alla materia Felice Ruscetta e Maria Rachele Vigani, il testo mostra tutta la sua contraddittorietà laddove prevede che “per i tre anni successivi alla sua entrata in vigore, i professionisti appartenenti agli ordini professionali dei notai, degli avvocati e dei commercialisti sono esentati dall’attività di formazione obbligatoria, purché documentino di essere stati nominati, in almeno quattro procedure, curatori fallimentari, commissari giudiziali, delegati alle operazioni di vendita nelle procedure esecutive immobiliari ovvero per svolgere i compiti e le funzioni dell’organismo o del liquidatore. Incarichi per i quali i ragionieri hanno l’abilitazione”.

I ragionieri, pertanto, finivano per essere abilitati alla funzione di compositore delle crisi dalle stesse norme transitorie, mentre se ne sanciva, allo stesso tempo, l’esclusione per mancanza dei requisiti.

La sentenza

La sentenza in commento richiama, in primo luogo, le disposizioni del Decreto Legislativo n. 139/2005, con il quale sono stati soppressi gli Ordini dei Dottori Commercialisti e i Collegi dei Ragionieri e Periti Commerciali ed è stato istituito l’Ordine territoriale dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili nonché il CNDCEC.

Come stabilisce lo stesso articolo 1 del Decreto Legislativo n. 139/2005, però le competenze dei Dottori Commercialisti e dei Ragionieri Commercialisti iscritti alla sezione A sono esattamente le stesse e ricomprendono anche le funzioni che il Decreto impugnato attribuisce agli organismi di gestione della crisi.

Appare pertanto evidente come, in mancanza di una puntuale previsione ad opera di una norma equiordinata alla Legge n. 139/2009 “l’introduzione, in sede regolamentare, di una previsione restrittiva in danno dei ragionieri commercialisti e delle competenze che la legge riconosce agli stessi, si riveli illegittima”.

Il Decreto impugnato è stato ritenuto contrastante con la normativa primaria anche in considerazione delle specifiche disposizioni contenute nella Legge n. 3/2012, istitutiva appunto dell’istituto della composizione della crisi di sovra indebitamento.

L’articolo 15, comma 9 della Legge in oggetto prevede infatti che i compiti e le funzioni attribuiti agli organismi di composizione della crisi possano essere svolti anche da professionisti in possesso dei requisiti per essere nominati curatore.

In considerazione del fatto che i ragionieri possono essere nominati curatori fallimentari non si comprende come sia possibile escluderli dagli organismi si composizione della crisi.

Ecco quindi i motivi per i quali il Tar ha deciso di accogliere il ricorso proposto dal CNDCEC.

Autore: redazione fiscal focus

Esenzione Imu per i soggetti Aire

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Chiarimenti del Mef con la Risoluzione 10/DF

Premessa – Per i soggetti Aire è possibile fruire del trattamento di favore in materia di imposta municipale propria (IMU) solamente per una unità immobiliare. Questo è quanto chiarito dal Mef con la risoluzione n. 10/Df del 5 novembre.

Imu per gli Aire – Sono stati richiesti chiarimenti in merito al caso in cui i cittadini italiani residenti all’estero e iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE), aventi diritto all’applicazione del trattamento di favore in materia di imposta municipale propria (IMU), previsto dall’art. 9-bis del D. L. 28 marzo 2014, n. 47, convertito, con modificazioni dalla legge 23 maggio 2014, n. 80, siano proprietari di più abitazioni dislocate in diversi comuni del territorio italiano.

Abitazione principale – In particolare, è stato chiesto quali devono essere in siffatta ipotesi i criteri per stabilire quale immobile debba essere considerato direttamente adibito ad abitazione principale. Al riguardo, il Mef ha richiamato quanto stabilito dal comma 1 della suddetta disposizione che modifica l’art. 13, comma 2, del D. L. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, prevedendo che, a partire dall’anno 2015, “è considerata direttamente adibita ad abitazione principale una ed una sola unità immobiliare posseduta dai cittadini italiani non residenti nel territorio dello Stato e iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE), già pensionati nei rispettivi Paesi di residenza, a titolo di proprietà o di usufrutto in Italia, a condizione che non risulti locata o data in comodato d’uso”. Per completezza il Mef ha richiamato anche il successivo comma 2 dell’art. 9-bis del D. L. n. 47 del 2014 il quale dispone che sull’”unità immobiliare di cui al comma 1, le imposte comunali TARI e TASI sono applicate, per ciascun anno, in misura ridotta di due terzi”. In assenza di specifiche disposizioni in ordine all’individuazione dell’immobile da considerare ai fini dell’equiparazione all’abitazione principale, la stessa possa essere effettuata direttamente dal contribuente.

Caratteristiche – L’abitazione principale deve essere costituita, come espressamente previsto dall’art. 13, comma 2, del D. L. n. 201 del 2011, da una sola unità immobiliare iscritta o iscrivibile in catasto a prescindere dalla circostanza che sia utilizzata come abitazione principale più di una unità immobiliare distintamente iscritta in catasto. In tal caso, le singole unità immobiliari vanno assoggettate separatamente ad imposizione, ciascuna per la propria rendita. Pertanto, il contribuente può scegliere quale delle unità immobiliari destinare ad abitazione principale, con applicazione del regime di favore stabilito dall’IMU per l’abitazione principale; le altre, invece, vanno considerate come abitazioni diverse da quella principale con l’applicazione dell’aliquota deliberata dal comune per tali tipologie di fabbricati. Sulla base dello stesso disposto dell’art. 13, comma 2, del D. L. n. 201 del 2011, il contribuente può considerare come pertinenza dell’abitazione principale soltanto un’unità immobiliare per ciascuna categoria catastale, fino ad un massimo di tre pertinenze appartenenti ciascuna ad una categoria catastale diversa, espressamente indicata dalla norma e che, entro il suddetto limite, il contribuente ha la facoltà di individuare le pertinenze per le quali applicare il regime agevolato.

Scelta – Per quanto riguarda, infine, le modalità con cui deve essere effettuata la scelta da parte del pensionato all’estero dell’immobile da considerare direttamente adibito ad abitazione principale, si fa presente che tale scelta deve essere effettuata attraverso la presentazione della dichiarazione di cui al D. M. 30 ottobre 2012 in cui il proprietario dell’alloggio deve anche barrare il campo 15 relativo alla “Esenzione” e riportare nello spazio dedicato alle “Annotazioni” la seguente frase: “l’immobile possiede le caratteristiche e i requisiti richiesti dal comma 2 dell’art. 13 del D. L. n. 201/2011”. Si ricorda che, come precisato nella risoluzione n. 3/DF del 25 marzo 2015, la dichiarazione IMU vale anche ai fini TASI.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Accertamenti 2009 e 2010: ultime settimane per la notifica

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Con l’approssimarsi della fine d’anno, si avvicinano anche i termini di decadenza dell’azione accertatrice, stabiliti ai fini delle imposte sui redditi e dell’Iva, rispettivamente dagli artt. 43 del DPR n. 600/1973 e 57 del DPR n. 633/1972.

In diverse occasioni la giurisprudenza di merito e di legittimità si è interrogata sul seguente quesito: se l’imminenza dei termini di decadenza per l’accertamento costituiscano (di per sé) un caso di particolare e motivata urgenza, ai fini della legittimità dell’accertamento anticipato, ossia dell’emissione dell’avviso prima del decorso di sessanta giorni dalla chiusura delle operazioni ispettive.

Sul punto si è pronunciata in più occasioni la Corte di Cassazione, fornendo qualche tassello utile per sciogliere uno dei nodi più spinosi sull’argomento, peraltro non affrontato dalle Sezioni Unite nella nota sentenza n. 18184 del 29/07/2013[1].

La normativa. Ai sensi delle citate norme, comuni al settore impositivo diretto e dell’IVA, l’avviso di accertamento deve essere notificato, a pena di nullità, entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione.

Nei casi di omessa presentazione della dichiarazione, l’Amministrazione dispone di un’annualità aggiuntiva; pertanto potrà notificare l’avviso entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui avrebbe dovuto essere presentata la dichiarazione.

Per effetto delle disposizioni menzionate, il prossimo 31 dicembre si verificherà la decadenza per l’accertamento dell’annualità d’imposta 2010, qualora sia stata presentata la relativa dichiarazione, ovvero dell’annualità d’imposta 2009 in caso di omessa dichiarazione.

Annualità con violazioni di rilevanza penale. Ai sensi del terzo comma dei citati articoli, i predetti termini risultano raddoppiati (8 o 10 anni a seconda che sia stata presentata o meno la dichiarazione), per le annualità in cui il contribuente abbia commesso violazioni qualificabili come delitti tributari, ai sensi del D.Lgs. n. 74/2000: di conseguenza, il prossimo 31 dicembre costituirà termine decadenziale per le annualità 2006 (ovvero 2004 nei casi di omessa dichiarazione), qualora siano presenti siffatte circostanze.

Peraltro, tale ultima regola è stata di recente “temperata” a favore del contribuente, con l’entrata in vigore del D.Lgs. 128/2015 per cui, a far data dallo scorso 2 settembre, il raddoppio dei termini accertativi opera solo qualora la denuncia sia stata depositata entro il termine decadenziale ordinario (fatte salve le annualità rientranti nel regime transitorio disciplinato dall’art. 2, comma 2 del medesimo D.Lgs. n. 128/2015).

La regola statutaria.Il comma 7 dell’art. 12 della Legge n. 212/2000 prevede che, nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori.

Ai fini del rispetto di tale moratoria, l’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza.

La ratio della norma va ravvisata nella necessità di assicurare al contribuente un congruo termine per fare conoscere all’ufficio accertatore (che può essere diverso da quello che ha eseguito la verifica fiscale a monte) le proprie osservazioni e richieste, in ossequio a quel principio di reciproca collaborazione ispiratore dello Statuto dei diritti del contribuente, oltre che per consentire il pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale.

Dal tenore letterale della norma statutaria, i rilievi riferibili alle annualità in scadenza (2010 o 2009, in assenza di violazioni penal-tributarie), constatati in attività ispettive concluse nei mesi di novembre e dicembre 2015, potrebbero essere legittimamente oggetto di accertamento “anticipato” (con notifica entro il 31 dicembre 2015) solo in caso di particolare e motivata urgenza.

L’orientamento della Cassazione. In diverse occasioni la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sul seguente quesito: se l’imminenza del termine di decadenza per l’accertamento costituisca o meno un caso di particolare e motivata urgenza, che legittimi l’emissione anticipata dell’avviso.

Nella citata sentenza n. 18184 del 29/07/2013, le Sezioni Unite ebbero a precisare che l’inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento determina di per sé, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, la illegittimità dell’atto impositivo emesso ante tempus, poiché detto termine è posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale.

Sul tema in questione si registrano poi, posizioni diverse all’interno della stessa Cassazione; in alcuni casi l’imminente scadenza dei termini decadenziali è stata ritenuta, di per sé, caso di particolare e motivata urgenza (cfr. sentenze della Sez. Trib. n. 11944 del 13/07/2012 e n. 20769 dell’11/09/2013).

In pronunce più recenti, la medesima Sezione Tributaria ha censurato l’operato degli Uffici che, ritenendo sussistente la particolare e motivata urgenza nell’approssimarsi dei termini decadenziali accertativi, hanno notificato atti impositivi in violazione del disposto di cui all’art. 12, comma 7 dello Statuto.

E’ il caso, ad esempio, delle tre sentenze “gemelle” (nn. 1869/2014 del 29/01/2014, 2279/2014 del 03/02/2014 e 2592/2014 del 05/02/2014), ove la Sezione Tributaria ha affermato che il fatto che l’ufficio derivi il mancato rispetto del termine di 60 giorni dalla prossimità dei termini di decadenza per l’azione accertatrice, non rileva in quanto tale circostanza non chiarisce le ragioni per le quali l’ufficio non si era precedentemente attivato, onde rispettare il termine dilatorio.

Nella successiva pronuncia n. 7315 del 18/03/2014 la stessa Sezione Tributaria ha chiarito che l’eventualità di evitare una decadenza non può integrare, di per sé, la ragione di urgenza contemplata dalla norma, altrimenti si verrebbero a convalidare in via generalizzata tutti gli atti in scadenza, in contrasto con il principio affermato dalle Sezioni Unite (secondo il quale il requisito dell’urgenza deve essere riferito alla concreta fattispecie).

[1] Per il commento di tale pronuncia, cfr. “Accertamento anticipato: casi di ammissibilità”, sul Fiscal-Focus.info del 28 aprile 2014, del medesimo autore.

Autore: Marco Brugnolo

Patent box e credito d’imposta R&S: agevolazioni cumulabili

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Premessa – Doppia agevolazione per le imprese che svolgono attività di ricerca e sviluppo e le formalizzano attraverso marchi, brevetti, ecc.. Si potrà infatti usufruire sia del credito d’imposta per R&S che del patent box. Entrambi gli strumenti sono stati introdotti dalla Legge di Stabilità 2015.

Credito d’imposta R&S – L’unica condizione prevista per l’ottenimento del credito d’imposta è che si tratti di imprese. Sono incluse anche le stabili organizzazioni di soggetti non residenti.

Ai fini della determinazione del credito d’imposta sono agevolabili, tra l’altro, le spese per il personale altamente qualificato impiegato nelle attività di ricerca e sviluppo, in possesso di un titolo di dottore di ricerca, ovvero iscritto ad un ciclo di dottorato presso una università italiana o estera, ovvero in possesso di laurea magistrale in discipline di ambito tecnico o scientifico come da classificazione Unesco Isced (International Standard Classification of Education).

Sono altresì agevolabili le quote di ammortamento delle spese di acquisizione o utilizzazione di strumenti e attrezzature di laboratorio, nonché le spese relative a contratti di ricerca stipulati con università, enti di ricerca ed organismi equiparati,competenze tecniche e privative industriali relative a un’invenzione industriale, biotecnologica, a una topografia di prodotto a semiconduttori o a una nuova varietà vegetale anche acquisite da fonti esterne.

Non sono agevolabili le spese per il personale (personali ausiliario e tecnici), costi relativi a immobili e terreni, costi per studi di fattibilità, altri costi di esercizio.

Patent box – Il patent box, introdotto dalla Legge di Stabilità 2015, prevede che la quota di reddito e del valore della produzione che può essere oggetto di agevolazione venga definita in base al rapporto tra i costi di attività di ricerca e sviluppo sostenuti per il mantenimento, l’accrescimento e lo sviluppo del bene immateriale eleggibile e i costi complessivi sostenuti per produrre tale bene. Si fa riferimento ai costi fiscalmente rilevanti.

La questione più controversa della nuova misura, chiarita con l’emanazione del Decreto attuativo, riguarda l’individuazione del costi di R&S rilevanti ai fini del calcolo dell’agevolazione.

La questione più controversa della nuova misura riguardava l’individuazione del costi di R&S rilevanti ai fini del calcolo dell’agevolazione, che è stata esaustivamente affrontata nell’art. 8 del D.M. 30.07.2015.

In particolare, rientrano nell’ambito delle attività di R&S:

  • la ricerca fondamentale;
  • la ricerca applicata;
  • lo sviluppo sperimentale e competitivo;
  • il design;
  • l’ideazione e la realizzazione del software protetto da copyright;
  • le ricerche preventive, i test e le ricerche di mercato e gli altri studi e interventi anche finalizzati all’adozione di sistemi anticontraffazione, il deposito, l’ottenimento e il mantenimento dei relativi diritti, il rinnovo e la protezione degli stessi;
  • le attività di presentazione, comunicazione e promozione in grado di accrescere il carattere distintivo e/o la rinomanza dei marchi.

Il cumulo delle agevolazioni – Il Legislatore nulla ha disposto in merito alla cumulabilità degli incentivi. In questo caso, in riferimento al precedente credito d’imposta R&S istituito con la Finanziaria 2007, era stato chiarito che il credito d’imposta è cumulabile con altri contributi pubblici e agevolazioni sempre che le norme disciplinati le altre misure non dispongano diversamente (vedi C.M. 46/E/2008). Tale chiarimento risulta ancora valido e applicabile alla situazione prospettata.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

 

Rimborsi fiscali: i termini per la richiesta

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Documento del 31 ottobre 2015 della Fondazione Nazionale Commercialisti

Un interessante documento della Fondazione Nazionale Commercialisti (FNC – documento del 31 ottobre 2015) che analizza i termini per la richiesta dei rimborsi fiscali, distinguendo a seconda delle tipologia di rimborso e della causa sottesa alla richiesta di rimborso.

Il punto di partenza nell’analisi della fattispecie indicata è il dato normativo. Va osservato in via preliminare che per la ripetizione del pagamento indebito, l’ordinamento tributario italiano prevede un regime speciale basato sull’istanza di parte, da presentare, a pena di decadenza dal relativo diritto, nel termine previsto dalle singole leggi di imposta o possono essere disciplinati dalle norme generali del Contenzioso Tributario.

Nello specifico, bisogna far riferimento:

  • all’art. 38 del DPR n. 602/1973, il quale, in tema di rimborso delle imposte sui redditi, stabilisce il dies a quo nella “data del versamento” o in quella “in cui la ritenuta è stata operata”;
  • all’art. 21, co. 2, del D.Lgs. n. 546/1992, in virtù del quale “la domanda di restituzione, in mancanza di disposizioni specifiche, non può essere presentata dopo due anni dal pagamento ovvero, se posteriore, dal giorno in cui si è verificato il presupposto della restituzione”.

Dopo aver analizzato in via generale la normativa che disciplina la fattispecie, vengono analizzati alcuni casi particolari: rimborso degli acconti, imposte non dovute per agevolazioni fiscali o disposizioni fiscali con effetto retroattivo, la dichiarazione di incostituzionalità di una norma fiscale, ritardata trasposizione nell’ordinamento interno di una direttiva comunitaria, overulling, ecc……

Nella seconda parte del lavoro vengono analizzate nel dettaglio le questione relative ai rimborsi per le imposte sui redditi e a quelle sull’IVA.

Rimborso acconti – Uno dei casi più interessanti è quello relativo alla presentazione dell’istanza di rimborso per il versamento indebito di acconti.

Nel caso di specie – evidenzia la FNC – il termine di decadenza per la presentazione dell’istanza di rimborsi decorre dal versamento del saldo nel caso in cui il diritto al rimborso derivi da un’eccedenza dei versamenti in acconto, rispetto a quanto risulti dovuto a saldo oppure qualora derivi da pagamenti cui inerisca un qualche carattere di provvisorietà, poiché subordinati alla successiva determinazione, in via definitiva, dell’obbligazione o della sua misura.

Invece, decorre dal giorno del versamento dell’acconto stesso nel caso in cui quest’ultimo, già dal momento in cui venne eseguito, non fosse dovuto o non lo fosse nella misura in cui fu versato, ovvero qualora fosse inapplicabile la disposizione di legge in base alla quale venne effettuato, poiché in questi casi l’interesse e la possibilità di richiedere il rimborso sorge sin dal momento in cui avviene il pagamento.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Stabilità 2016 e settore agricolo: non solo misure a favore

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Da un lato lo Stato da ma dall’altro…..

Come già scritto in precedenza in merito alle misure a favore previste dalla legge di stabilità 2016, ossia l’abolizione dell’IRAP e dell’IMU, è opportuno andare ad analizzare quelle che sono invece i provvedimenti che sicuramente determineranno un malumore per il gli operatori del settore agricolo. A partire dal 2016 è prevista un’ulteriore rivalutazione dei redditi domenicali e agrari, un incremento dell’aliquota relativa all’imposta di registro per l’acquisto dei terreni, e l’abolizione del regime di esonero.

Rivalutazione dei redditi – Per quanto riguarda la rivalutazione dei redditi, il governo ha aumentato la rivalutazione dal 7% al 30% ai soli fini di determinazione dell’imposte sui redditi, da ciò potrà aumentare l’Irpef a carico dei produttori agricoli, a causa del maggior aumento del reddito tassabile; si augura comunque che tale ulteriore rivalutazione non riguardi gli IAP ( imprenditori agricoli professionali) che si ritiene debbano rientrare in quanto previsto nel comma 50 dell’art. 3 legge 662/1996 che appunto prevede ai fini della determinazione delle imposte sui redditi, una rivalutazione dell’80 % per i redditi domenicali e del 70 % per i redditi agrari.

Imposta di registro trasferimento terreni agricoli – Il Legislatore ha previsto un aumento dell’aliquota relativa all’imposta di registro che si applica ai trasferimenti di terreni agricoli, prevedendo una percentuale che passa dal 12 al 15 %, ad eccezione però per gli IAP che possono rifarsi alla piccola proprietà contadina prevista dall’art. 2 comma 4 bis, DL 30/12/1999 n. 194, convertito nella legge 25/2010, ossia ad una imposta di registro e ipotecaria fisse, e ad un’imposta catastale pari all’1 %.

Rideterminazione del valore di acquisto dei terreni agricoli – anche per quanto riguarda la rideterminazione del valore di acquisto, in caso di potenziale emersione di plusvalenze l’aliquota dell’imposta sostitutiva passa dal 4 % all’8 %, solo se la cessione del terreno si perfeziona entro 5 anni dall’acquisto e per i terreni posseduti dal 1 gennaio 2015.

Regime di esonero – Infine la legge di stabilità 2016 prevede, a partire dal 1 gennaio 2017 l’abolizione del regime di esonero (di cui al comma 6 dell’art 34 DPR 633/1972) , per i piccoli produttori agricoli con un volume d’affari inferiore a 7.000 €; ciò comporterà un aggravio di costi, nonché di adempimenti, a cui prima non erano chiamati a rispondere.

Quindi, possiamo dire, che da un lato si è data in questi giorni molta enfasi a misure quali, l’abolizione dell’IRAP e dell’IMU, ma è opportuno sottolineare che in ogni caso si deve far fronte alle mancate entrate legate a queste manovre, nonché andare ad individuare quelle fonti tramite le quali farne fronte; da qui quindi l’adozione delle misure sopra descritte che sicuramente creeranno non pochi malumori tra gli operatori del settore agricolo.

Autore: redazione fiscal focus

Stabile organizzazione: l’opzione per la branch exemption

 Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Con il Decreto crescita e internalizzazione si prevede la possibilità per il soggetto residente svolgente attività d’impresa di optare per la branch exemption per tutte le stabili organizzazioni estere. Tradotto in termini pratici, in deroga al principio di tassazione su base mondiale, l’impresa italiana potrà decidere di non far concorrere alla determinazione del proprio reddito imponibile gli utili e le perdite prodotte dalla stabile organizzazione estera.

L’efficacia delle nuove disposizioni –Le citate disposizioni si applicheranno a decorrere dal periodo di imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore del decreto. Come noto, il D.lgs.147/2015 è entrato in vigore il 22.10.2015. Pertanto, le disposizioni in questione si applicheranno dal periodo d’imposta 2016.

L’esercizio dell’opzione –Si tratta di un regime fiscale opzionale irrevocabile che una volta prescelto interessa tutte le stabili organizzazioni estere dell’impresa residente, al momento della costituzione delle medesime, al fine di evitare arbitraggi.

L’esercizio dell’opzione deve avvenire al momento di costituzione della stabile organizzazione, con effetto dal medesimo periodo d’imposta, ed è irrevocabile.

Per le stabili organizzazioni già esistenti si prevede che l’opzione in argomento possa essere esercitata entro il secondo periodo d’imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore delle norme in esame, con effetto dal periodo d’imposta in corso a quello di esercizio della stessa.

Ai fini dell’esercizio della citata opzione, il contribuente dovrà indicare separatamente, nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta di esercizio dell’opzione, gli utili e le perdite attribuibili a ciascuna stabile organizzazione nei cinque periodi d’imposta antecedenti a quello di esercizio dell’opzione; se ne deriva una perdita fiscale netta questa compenserà gli utili successivamente realizzati dalla stabile organizzazione e dall’imposta dovuta si computeranno le eventuali eccedenze positive di imposta estera riportabili ai sensi dell’articolo 165, comma 6 del TUIR.

Nel caso di stabile organizzazione localizzata in Stati paradisiaci, l’opzione potrà essere esercitata al verificarsi alternativamente ad una delle seguenti condizioni:

  • le società non residenti svolgano un’effettiva attività industriale o commerciale;
  • dalle partecipazioni detenute non consegua l’effetto di localizzare i redditi in territori diversi da quelli di cui al decreto emanato ai sensi dell’articolo 168-bis del TUIR;
  • l’insediamento all’estero non rappresenta una costruzione artificiosa volta a conseguire un indebito vantaggio fiscale.

In caso di esercizio dell’opzione, senza la sussistenza delle suddette esimenti implicherà l’applicazione, alle stabili organizzazioni, della disciplina delle controlled foreign companies – CFC e delle regole di imputazione del reddito per trasparenza contenute nell’articolo 167 del TUIR.

Nel caso di esercizio dell’opzione con riferimento alle stabili organizzazioni per le quali non sono state applicate le disposizioni in materia di CFC si applicheranno, sussistendone le condizioni, le disposizioni sulla tassazione integrale dei dividendi.

Con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate, da emanarsi entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del predetto decreto, saranno disciplinate le modalità applicative delle disposizioni precedentemente commentate.

Autore: REDAZIONE FISCAL FOCUS

Mise: 50 milioni per l’imprenditorialità giovanile

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Forti agevolazioni per piccole imprese giovanili e a conduzione femminile

La circolare 9 ottobre 2015, n° 75445, visto quanto stabilito dal regolamento adottato con decreto 8 luglio 2015, n. 140 del Ministro dello sviluppo economico, individua criteri e modalità di concessione delle agevolazioni previste dal decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 185; le stesse sono poste in essere al fine di agevolare la nascita di micro e piccole imprese, competitive, a prevalente o totale partecipazione giovanile o femminile. La circolare individua, pertanto, i termini e le modalità di presentazione delle domande di agevolazione, nonché le necessarie specificazioni e indicazioni operative per la concessione ed erogazione delle agevolazioni; le risorse finanziarie a disposizione sono pari a 50 milioni di euro.

Soggetti beneficiari – L’art.5 del regolamento individua i soggetti che possono beneficiare del provvedimento in oggetto, ossia le imprese:

  • costituite in forma societaria, ivi incluse le società cooperative;
  • la cui compagine societaria è composta, per oltre la metà numerica dei soci e di quote di partecipazione, da soggetti di età compresa tra i diciotto e i trentacinque anni ovvero da donne;
  • costituite da non più di 12 (dodici) mesi dalla data di presentazione della domanda di agevolazione;
  • di micro e piccola dimensione, secondo la classificazione di cui all’allegato 1 del Regolamento GBER.

Investimenti ammissibili – Sono ammissibili alle agevolazioni, i programmi di investimento da realizzare in tutto il territorio nazionale con spese non superiori a euro 1.500.000,00 promossi nei settori:

  • produzione di beni nei settori dell’industria, dell’artigianato, della trasformazione dei prodotti agricoli;
  • fornitura di servizi alle imprese e alle persone;
  • commercio di beni e servizi;
  • turismo;
  • settori, di particolare rilevanza per lo sviluppo dell’imprenditorialità giovanile.

Caratteristiche finanziamentole agevolazioni in oggetto, sono concesse ai sensi e nei limiti del Regolamento de minimis n. 1407/2013 si configurano come un finanziamento agevolato a tasso pari a zero, della durata massima di otto anni e di importo non superiore al 75% della spesa ammissibile. L’agevolazione è subordinata, in particolare, al rispetto dei massimali previsti dal precitato regolamento europeo, ai sensi del quale le agevolazioni possono avere un importo massimo complessivo, in termini di equivalente sovvenzione lordo (ESL), di euro 200.000,00 (duecentomila/00) nell’arco di tre esercizi finanziari per impresa unica, fatte salve le specifiche limitazioni dettate nel settore del trasporto merci su strada per conto terzi.

A partire dal prossimo 13 gennaio 2016 infatti, sarà possibile compilare le domande esclusivamente per via elettronica, utilizzando la piattaforma informativa messa a disposizione da Invitalia.

Professionisti e cassa: onere deducibile o costo?

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Premessa – Ogni anno i professionisti sono chiamati a liquidare e versare i contributi alla cassa di appartenenza e ogni volta il dubbio che sorge, è sempre lo stesso: tali contributi sono da considerarsi oneri deducibili dal reddito complessivo (ai sensi dell’art. 10 del TUIR) o oneri deducibili da reddito professionale (ai sensi dell’art. 54 del TUIR)?

Sul tema vi è un forte contrasto tra prassi amministrativa (Agenzia delle Entrate) e giurisprudenza (Corte di Cassazione), configurandosi così un’obiettiva incertezza sulla portata della norma.

Secondo l’Agenzia delle Entrate trattasi di onere deducibile dal reddito complessivo ai sensi dell’art. 10 del TUIR e quindi da riportare nel quadro RP del Modello Unico, mentre per la Cassazione si tratta di onere deducibile dal reddito professionale poiché costo inerente all’attività esercitata.

La tendenza del contribuente è di considerare tali contributi come onere deducibile dal reddito di lavoro autonomo poiché si preferisce seguire l’orientamento di un organo che fissa un principio di legge qual è appunto la Cassazione, con il rischio di subire un accertamento dalla parte del fisco (il cui orientamento è fissato attraverso circolari e risoluzioni interne prive, invece, di effetto “normativo”).

L’orientamento giurisprudenziale – Il predetto orientamento della Corte di Cassazione è contenuto nella sentenza n. 2781/2001 (confermato altresì nell’ordinanza n. 1939/2009), in cui il giudice ha espressamente ritenuto che “a norma dell’art. 10, comma 1 , lettera i) del d.p.r. 597/1973, dal reddito complessivo si deducono, se non sono deducibili nella determinazione dei singoli redditi che concorrono a formarlo e purché risultino da idonea documentazione, i contributi previdenziali e assistenziali versati in ottemperanza a disposizioni di legge. Nel caso di specie, i contributi previdenziali in questione erano deducibili in sede di determinazione del reddito professionale. L’art. 50 (oggi art. 54), 1° comma, del d.p.r. 597/1973 consente, infatti, per la determinazione del reddito di lavoro autonomo, la deduzione delle spese “inerenti” all’esercizio dell’arte o professione effettivamente sostenute nel periodo d’imposta. Ora, i contributi versati dai notai alla cassa Nazionale del Notariato sugli onorari loro spettanti sono indubbiamente “inerenti”, e cioè connessi, all’attività professionale svolta. Non si può limitare, come fa il contribuente, il concetto di “inerenza” alle sole spese necessarie per la produzione del reddito ed escluderlo per quelle che sono una conseguenza del reddito prodotto. Tale distinzione non si rinviene nella legge e non è neppure ricavabile dall’aggettivo “inerente” usato dal legislatore, in quanto esso, per la sua genericità, postula un rapporto di intima relazione tra due cose o idee che si può verificare sia quando l’una sia lo strumento per realizzare l’altra sia quando ne sia l’immediata derivazione”.

Dunque, per i giudici i contributi previdenziali e assistenziali in questione sono deducibili dal reddito di lavoro autonomo, per il semplice fatto che l’articolo 54 del TUIR (prima articolo 50 del TUIR) rimanda al principio “dell’inerenza”, da seguire nell’individuazione dei costi da poter dedurre ai fini della determinazione del reddito professionale imponibile. Come evidenziato nella predetta sentenza, infatti, per la Cassazione, i costi della professione non sono solo quelli necessari alla produzione del reddito, ma anche quelli che da esso derivano (la difesa dell’Agenzia delle Entrate era, invece, basata sul fatto che tali contributi “costituiscono un onere dovuto a posteriori, e quindi una conseguenza del reddito prodotto e non già una spesa necessaria per la produzione del reddito deducibile ex art. 50 del d.p.r. 597/1973, con la conseguenza che non possono considerarsi costi inerenti”).

L’orientamento dell’Agenzia delle Entrate – Secondo l’Agenzia delle Entrate (Risoluzione n. 79/E/2002) “i contributi versati dai professionisti alle casse professionali non sono altro che contributi obbligatori per legge, versati per finalità previdenziali e assistenziali. Com’è noto, tutti i contributi aventi tali finalità costituiscono, per la generalità dei contribuenti, oneri deducibili dal reddito complessivo. Infatti, l’articolo 10, comma 1, lettera e), del TUIR prevede espressamente che i contributi previdenziali e assistenziali versati in ottemperanza a disposizioni di legge sono deducibili dal reddito complessivo del contribuente. Il primo periodo del comma 1 dell’articolo 10 stabilisce, inoltre, che la deducibilità dal reddito complessivo di tali oneri è consentita a condizione che gli stessi non siano deducibili nella determinazione dei singoli redditi che concorrono a formarlo. L’articolo 50 (oggi art. 54) del TUIR, nel disciplinare la determinazione del reddito di lavoro autonomo, non prevede tra le spese deducibili i contributi previdenziali e assistenziali obbligatori per legge. Né appare condivisibile l’indirizzo giurisprudenziale, peraltro non univoco (si veda al riguardo anche la decisione dell’8 luglio 1992, n. 4362 della Comm. Trib. Centrale), espresso dalla Corte di Cassazione che riconduce i suddetti contributi nell’ambito delle spese sostenute nell’esercizio dell’attività professionale. Le spese afferenti l’attività professionale sono infatti quelle sostenute per lo svolgimento di attività o per l’acquisizione di beni da cui derivano compensi che concorrono alla formazione del reddito professionale. E’ necessario, pertanto che sussista una connessione funzionale, anche indiretta, dei costi ed oneri sostenuti rispetto alla produzione dei compensi che concorrono a formare il reddito di lavoro autonomo. I contributi previdenziali e assistenziali sono invece versati al fine di garantire al lavoratore una posizione pensionistica e una assistenza personale al verificarsi di determinati eventi (ad esempio la malattia o l’infortunio del lavoratore) e pertanto attengono esclusivamente alla sfera personale del lavoratore. La peculiarità del fine di tutela del singolo assicurato esclude, quindi che possa trattarsi di un costo sostenuto in funzione della produzione del reddito di lavoro autonomo. Non appare rilevante inoltre la circostanza che i contributi in esame siano commisurati all’ammontare degli onorari percepiti dal professionista; tale importo costituisce, infatti, solo la base di commisurazione per determinare l’ammontare dei contributi dovuti alla Cassa. Si ritiene quindi che i contributi in esame possano essere dedotti esclusivamente dal reddito complessivo del contribuente ai sensi dell’articolo 10 comma 1, lettera e), del Tuir”.

In conclusione, per l’Amministrazione finanziaria, i contributi in questione sono da dichiarare nel quadro RP della dichiarazione dei redditi e non nel quadro RE del Modello Unico del professionista.

Autore: Pasquale Pirone

Nuova rivalutazione dei beni d’impresa

Obbligo di pagare l’imposta sostitutiva nella bozza della Legge di Stabilità 2016

Premessa – Il disegno di Legge Stabilità 2016 ripropone la rivalutazione dei beni d’impresa risultanti dal bilancio 2014 e ancora presenti in quello successivo. La rivalutazione non potrà essere effettuata solo civilisticamente in quanto l’incremento dei valori nel bilancio d’esercizio comporterà necessariamente l’applicazione dell’imposta sostitutiva. 
Rivalutazione – Secondo quanto previsto dalla bozza della Legge di Stabilità 2016 è possibile, per i soggetti giuridici indicati alle lettere a) e b), del comma 1, dell’art. 73 del Tuir, rivalutare beni d’impresa e partecipazioni, con la sola esclusione dei beni alla cui produzione o scambio è diretta l’attività d’impresa (beni merce), come risultanti dal bilancio al 31/12/2014. I soggetti ammessi alla rivalutazione sono tutti gli esercenti attività d’impresa, inclusi gli enti non commerciali in relazione al patrimonio destinato all’attività d’impresa e le società ed enti non residenti relativamente alle stabili organizzazioni possedute nel territorio dello Stato.

Bilancio – La detta rivalutazione deve essere eseguita nel bilancio successivo al 2014 (per i solari, al 31/12/2015), deve riguardare tutti i beni appartenenti alla medesima categoria e deve essere indicata nell’inventario e nella nota integrativa; i beni non possono essere estromessi, ceduti, utilizzati dall’imprenditore o assegnati, prima del quarto esercizio successivo alla rivalutazione. In assenza di un bilancio che dia evidenza contabile del patrimonio dell’impresa, la rivalutazione deve essere evidenziata in un prospetto dal quale devono risultare il costo fiscalmente riconosciuto dei beni e le rivalutazioni operate.

Imposta sostitutiva – Sui maggiori importi occorre versare un’imposta sostitutiva del 16% per i beni ammortizzabili e del 12% per quelli non ammortizzabili (terreni e partecipazioni). La riserva in sospensione d’imposta contabilizzata a fronte della rivalutazione può essere affrancata versando un ulteriore tributo del 10 per cento. La rivalutazione non potrà essere effettuata solo civilisticamente: l’incremento dei valori nel bilancio d’esercizio comporterà necessariamente l’applicazione dell’imposta sostitutiva. Il versamento di quest’ultima avverrà in tre rate di uguale importo (al 16 giugno del 2016, 2017, 2018) senza interessi.

Effetti della rivalutazione – La rivalutazione, così come proposta dal disegno di legge, non ha effetti fiscali immediati in quanto gli stessi sono differiti al terzo periodo d’imposta successivo a quello con riferimento al quale la rivalutazione è eseguita; in sostanza, considerato che la rivalutazione va eseguita nel bilancio dell’esercizio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2014, il recupero fiscale della rivalutazione avverrà a partire dall’esercizio 2018 per quanto attiene alla deduzione degli ammortamenti. Per la rilevanza ai fini di plusvalenze e minusvalenze da cessione visto che l’effetto è differito al quarto periodo d’imposta successivo, occorrerà attendere il 1° gennaio 2019.

A cura di Antonio Gigliotti

Autovetture: duplice beneficio nella Legge di Stabilità 2016

Autovetture: duplice beneficio nella Legge di Stabilità 2016 – Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Si profila finalmente un intervento che mira a incentivare l’utilizzo di autovetture nell’attività d’impresa. Il cambio di passo è indicato nella Legge di Stabilità 2016 (ancora allo stato embrionale).

Se le misure dovessero essere confermate per le autovetture a deducibilità limitata acquistate nel periodo 15.10.2015 – 31.12.2016 si potrebbe usufruire di una percentuale di deducibilità maggiore rispetto a quella attualmente prevista. A tale vantaggio, si aggiunge l’ulteriore misura agevolativa del super ammortamento.

Il super ammortamento anche per le auto – Una delle misure contenute nel disegno di legge di Stabilità 2016 che incide in maniera positiva sulle imprese (ma anche sui professionisti) è quella del super ammortamento. In sostanza, la previsione normativa concede la possibilità a imprese e professionisti che acquistano beni strumentali nel periodo 15.10.2015 – 31.12.2016 di maggiorare le ordinarie quote di ammortamento di un importo pari al 40%.

Da un punto di vista oggettivo, la norma in cantiere prevede che il super ammortamento si applichi a tutti i beni strumentali. Restano esclusi i fabbricati e le costruzioni, i beni con coefficiente di ammortamento inferiore al 6,5% e di taluni beni espressamente individuati dalla norma.

Beneficio anche per le auto – Tra i beni per i quali si potrà usufruire del super ammortamento rientrano le auto, compresi gli acquisti di autovetture a deducibilità ridotta (articolo 164, Tuir), fermo restando il limite massimo di deduzione pari 18.076 euro.

A tale misura agevolativa se ne aggiunge un’altra: l’incremento delle percentuali di deducibilità limitato alle auto acquistate nel periodo 15.10.2015 – 31.12.2016. In particolare, si prevedono i seguenti incrementi dei limiti di deducibilità:

• per le auto in benefit a dipendenti si passerebbe dall’attuale percentuale di deducibilità del 70% al 98%;
• per le autovetture a uso promiscuo non assegnate si passerebbe dall’attuale percentuale di deducibilità del 20% al 28%;
• per gli agenti la percentuale di deducibilità viene innalzata al 100% (dall’80%).

In pratica, l’acquisto di autovetture nel periodo 15.10.2015 – 31.12.2016 consentirebbe di calcolare una maggiore percentuale di deducibilità (98%, 28%, 100%) sul 140% del costo effettivo.

Il costo effettivo massimo, pur maggiorato del 40%, non dovrebbe eccedere il limite massimo di deduzione pari a 18.076 euro che prendiamo a base di calcolo per l’ammortamento. Definito l’ammortamento per ciascun periodo d’imposta, questo potrà essere detto per il 28%.

Se il costo d’acquisto maggiorato eccede il suddetto limite, si avrà non il 28% del costo di acquisto maggiorato, ma il 28% del limite massimo di deduzione. In sostanza, si dovrà prendere il minore tra il costo di acquisto “maggiorato” e il limite massimo di deduzione.

A parere della dottrina la misura agevolativa dovrebbe riguardare anche i canoni di leasing delle autovetture, mentre dovrebbero essere esclusi i veicoli utilizzati in noleggio a lungo termine e agli altri costi di gestione (carburanti, manutenzioni, eccetera).

In caso di vendita della autovetture, il super ammortamento non influirà nel calcolo di plusvalenze e minusvalenze. Nessuna influenza nemmeno per il calcolo del plafond delle manutenzioni e per il test delle società di comodo.

Si potrà tener conto della misura agevolativa per gli acconti previsionali del prossimo 30 novembre.

Autore: Redazione Fiscal Focus