Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti
Premessa – In un periodo di crisi in cui si è chiamati a reinventarsi una qualche attività lavorativa, si sta diffondendo sempre più nel nostro paese l’idea dell’Home Restaurant.
Molte sono le persone che, spinte dalla passione e dall’amore per la cucina hanno deciso di trasformare la propria casa in un ristorante occasionale aperto per amici, conoscenti o semplici viaggiatori ed in cui offrire ricette tipiche con prodotti locali valorizzando il territorio ed offrendo occasioni d’incontro.
Il fenomeno dell’Home Restaurant è partito nel 2006 in America, per poi approdare nel 2009 anche nel Regno Unito ed estendersi a macchia d’olio anche nel resto degli altri Paesi, tra cui non ultimo l’Italia.
In Italia è equiparata alla ristorazione – Poiché si tratta di un’attività che può generare un vero e proprio business per chi decidesse di intraprenderla, è necessario rispettare le regole di legge previste da ciascun Paese.
Tuttavia, in Italia, manca ancora una specifica normativa che disciplini tale attività. L’unica normativa di riferimento attuale è rappresentata dalla risoluzione Mise n. 50481/2015, con cui il Ministero dello Sviluppo Economico ha equiparato l’attività di Home Restaurant ad una vera e propria attività di ristorazione e quindi di somministrazione di alimenti e bevande.
Nel nostro Paese, l’attività di somministrazione di alimenti e bevande è disciplinata dalla legge n. 287/1991 così come modificata dal decreto legislativo n. 59/2010, e in cui è fatta distinzione tra attività esercitate nei confronti del pubblico indistinto e attività riservate a particolari soggetti, e ai sensi dell’ articolo 1, comma 1 della predetta legge “per somministrazione si intende la vendita per il consumo sul posto” che si esplicita in “… tutti i casi in cui gli acquirenti consumano i prodotti nei locali dell’esercizio o in una superficie aperta al pubblico, all’uopo attrezzati”.
Richiamando quando appena esposto, il Mise, nella citata Risoluzione, afferma che l’attività in questione anche se esercitata solo in alcuni giorni dedicati e tenuto conto che i soggetti che usufruiscono delle prestazioni sono in numero limitato, non può che essere classificata come un’attività di somministrazione di alimenti e bevande, in quanto anche se i prodotti vengono preparati e serviti in locali privati coincidenti con il domicilio del cuoco, essi rappresentano comunque locali attrezzati aperti alla clientela.
Inoltre, se si considera che la fornitura delle predette prestazioni comporti anche il pagamento di un corrispettivo, l’attività in discorso si configura come un’attività economica in senso proprio con la conseguenza che la stessa non può considerarsi un’attività libera e pertanto è da assoggettarsi alla stessa normativa prevista per chi esercita un’attività di somministrazione di alimenti e bevande.
Peraltro, tale orientamento era già stato dato in precedenza dallo stesso Mise con la nota n. 98416 del 12 giugno 2013, in cui lo stesso Ministero classificava come un’attività vera e propria di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande quella effettuata da un soggetto che, proprietario di una villa, intendeva preparare cibi e bevande nella propria cucina fornendo tale servizio solo su specifica richiesta e prenotazione da parte di un committente e quindi solo per gli eventuali invitati.
Pertanto, chi a oggi vuole intraprendere l’attività di Home Restaurant, previo possesso dei requisiti di onorabilità nonché professionali di cui all’articolo 71 del decreto legislativo n. 59/2010, è tenuto a presentare la SCIA o a richiedere l’autorizzazione, ove trattasi di attività svolte in zone tutelate.
Essendo equiparata a una vera e propria attività di ristorazione aperta al pubblico, inoltre, è necessario porre in essere tutti gli altri adempimenti previsti in materia di igiene (HACCP, autocontrollo, ecc.) e di pubblica sicurezza, senza dimenticare che trattandosi di attività economica in senso proprio (e quindi attività d’impresa) sarà necessario aprire partita IVA e certificare i guadagni.
Dunque, un’idea originale e semplice che nel nostro Paese rischia di perdersi per via dei meandri e della durezza burocratica italiana.
La proposta di un DDL ad hoc – Tuttavia un disegno di legge (non ancora discusso né approvato) in materia di Home food è stato presentato nel 2014. Si tratta del DDL 1271 del 27 febbraio 2014, il cui contenuto può essere sintetizzato nei seguenti punti:
- utilizzo della propria struttura abitativa, anche se in affitto, fino ad un massimo di due camere, per un massimo di venti coperti al giorno;
- i locali dell’abitazione destinati all’attività devono possedere i requisiti igienico-sanitari per l’uso abitativo previsti dalle leggi e dai regolamenti vigenti;
- nessuna necessita di cambio di destinazione d’uso della struttura abitativa;
- obbligo di adibire la struttura abitativa ad abitazione personale;
- obbligo di comunicare al comune competente l’inizio dell’attività, unitamente ad una relazione di asseveramento redatta da un tecnico abilitato;
- nessuna iscrizione al registro esercenti il commercio;
- obbligo del comune di effettuare il sopralluogo al fine di confermare l’idoneità della struttura abitativa all’esercizio dell’attività di home food;
- applicazione del regime fiscale previsto dalla normativa vigente per le attività saltuarie.
Il 29 luglio 2015 è stata, inoltre, presentata una nuova proposta di legge in Parlamento da parte dell’on. Nino Minardo, di contenuto simile al sopracitato DDL ma con ulteriori due previsioni: necessità per il gestore di conseguire un certificato HACCP e l’inserimento di una soglia (10.000 euro) ai fini della determinazione della saltuarietà dell’attività.