Beni sequestrati al manager che sa del giro di fatture false emesse a monte e a valle dalla cartiera

Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti

Cassazione Penale, sentenza depositata il 26 novembre 2015

I beni personali (mobili e immobili) del legale rappresentante di società sono passibili di sequestro preventivo, funzionale alla confisca, se risulta il suo coinvolgimento attivo nella frode carosello. È quanto emerge dalla sentenza 26 novembre 2015, n. 46857, della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione.

Gli ermellini hanno respinto il ricorso prodotto da un legale rappresentante di società nei confronti del quale è stata ipotizzata la fattispecie di reato di dichiarazione fraudolenta ex art. 2 D.Lgs. n. 74/2000 con un’evasione d’IVA per oltre 2mln di euro; importo fino alla concorrenza del quale è stato disposto il sequestro preventivo, ai fini di confisca, di beni immobili e mobili, polizze assicurative e somme depositate su conto corrente.

La decisione impugnata, pronunciata dal Tribunale del riesame, è sembrata alla Suprema Corte corretta giuridicamente, oltreché congruamente motivata.

Il giudice di merito ha ricostruito la vicenda evidenziando come la guardia di finanza, con accertamenti e verifiche, avesse acquisito la documentazione e denunciato il ricorrente quale autore di una c.d. frode carosello che coinvolgeva almeno tre società, una della quali – che era situata in un altro Paese U.E. – emetteva come cartiera, “a monte”, fatture di acquisto e, “a valle”, fatture di vendita tra le aziende coinvolte nella transazione, svolgendo la funzione di “cartiera” e interponendosi tra gli effettivi soggetti della negoziazione, conseguendosi con tale meccanismo, il vantaggio patrimoniale di lucrare l’importo relativo all’IVA non versata e consentendo anche all’effettivo destinatario della merce (cioè la società del ricorrente) di acquistarla a un prezzo ridotto. Il Tribunale ha quindi evidenziato, da un lato, i rapporti commerciali esistenti tra la società del ricorrente e la “cartiera” e, dall’altro, come alla fine dei vari passaggi e operazioni la società del ricorrente lucrasse un risparmio di spesa di più dell’8 per cento, non pagando peraltro l’IVA.

Ebbene, la Suprema Corte, nell’avallare il verdetto del giudice di merito, ha osservato, fra l’altro, che la previsione del D.P.R. n. 633/72 (articolo 21, comma 7) – secondo la quale, “se vengono emesse fatture per operazioni inesistenti, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura” – è esplicita nel senso di imporre il versamento dell’imposta, ma di precluderne la detrazione. La disposizione viene infatti letta nel senso che il tributo viene a essere considerato “fuori conto” e la relativa obbligazione, conseguentemente “isolata” dalla massa di operazioni effettuate, “estraniata”, per ciò stesso, dal meccanismo di compensazione tra Iva “a valle” e Iva “a monte”, che presiede alla detrazione d’imposta di cui al decreto 633 (articolo 19). E ciò per il rilievo che il versamento dell’Iva a un soggetto che non sia la genuina controparte, aprendo la strada a un indebito recupero dell’imposta, è evento dirompente, nell’ambito del complessivo sistema Iva. Il diritto alla detrazione dell’imposta non può infatti prescindere dalla regolarità delle scritture contabili e in particolare dalla fattura che è considerata documento idoneo a rappresentare un costo dell’impresa.

Nella specie, poi, la Suprema Corte ha ritenuto escludibile qualsiasi inconsapevolezza da parte del ricorrente circa l’esistenza del meccanismo fraudolento. Infatti è stato possibile ricavare dal testo dei provvedimenti impugnati come il meccanismo criminoso fosse strutturato su più livelli per cui la merce, prima di giungere definitivamente alla società rappresentata dall’indagato, “è stata fatta oggetto di numerose operazioni di compravendita, solo cartolari, finalizzate esclusivamente alla creazione in capo alle simulate alienanti, assetti societari riconducibili al ricorrente, di un credito Iva non spettante, mai versato all’erario e al quale va perciò parametrato il profitto conseguito con l’evasione”.

Al ricorrente non resta che pagare le spese del giudizio di legittimità.

Autore: redazione fiscal focus