Cessioni, vale il passivo «inerente»

Nel calcolo del valore imponibile del contratto di cessione d’azienda, ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, è consentito diminuire il valore dell’attivo aziendale in misura pari al valore delle passività che il cedente non tiene in capo a sé (e che, quindi, il cessionario si accolla), ma solo se si tratta di passività “inerenti” all’azienda ceduta. Lo ribadisce una nota della Dre Lombardia recentemente indirizzata ai Consigli notarili lombardi nell’ambito del rapporto di collaborazione che si concretizza nel “tavolo regionale” attorno al quale si riuniscono esponenti dell’amministrazione finanziaria e notai.

Che le passività, per essere deducibili, debbano essere anche “inerenti” (lo si afferma, ad esempio, nelle sentenze di Cassazione 11167/2013, 10218/2016, 2048/2017) è concetto così scontato che la legge nemmeno ne accenna, evidentemente presupponendolo. Deve però anche essere ovvio che la passività accollata (definendola come una passività “aziendale”) al cessionario dell’azienda si deve presumere, fino a prova contraria (prova che è a carico dell’amministrazione, la quale intenda disconoscerla, al fine di incrementare, corrispondentemente, l’imponibile: in tal senso la sentenza di Cassazione 10218/2016), afferente all’azienda ceduta.

Un altro concetto da sottolineare è che la possibilità di diminuire l’imponibile del contratto di cessione d’azienda esponendo voci di passivo aziendale è una facoltà che compete al contribuente, prima di essere un criterio-guida dell’attività di accertamento da parte dell’Ufficio: se questo ragionamento appare anch’esso banale, meno ovvio diventa se si pensa che lo scomputo delle passività è maldestramente contemplato dalla legge (l’articolo 51, comma 4, Dpr 131/1986) dettata nel contesto di una locuzione che il legislatore scrive con riguardo all’attività di accertamento dell’Ufficio ma che, evidentemente, non può non essere ritenuta quale espressione del principio in base al quale si deve compiere la valutazione dell’azienda; e ciò in base alla esigenza sistematica di una rigorosa corrispondenza tra presupposto e base imponibile e tra criteri valutativi da adottare sia in fase iniziale che in sede di controllo.

Inspiegabile è, dunque, il costante contrario avviso della Cassazione sul punto (sentenze 22223/2011, 8912/2014, 23873/2015) e da interpretare, probabilmente, come frutto di un equivoco, a sua volta causato da imperizia nella redazione di questi contratti,

L’ultimo tema caldo è quello delle aliquote applicabili alla base imponibile: dovrebbe essere scontato (ma nel rapporto tra utenti e Uffici non sempre lo è) che se ci sono crediti separatamente valorizzati, a tale valore si applica l’aliquota specifica dello 0,5% e non quella generica del 3% (quest’ultima è la tesi errata sostenuta in Ctr Firenze, 8 novembre 2016); e che se nel patrimonio aziendale siano compresi contratti soggetti a Iva e quote di partecipazione al capitale sociale di società, il loro valore (sempre se individualmente esplicitato) va sottratto dall’imposizione proporzionale per essere assoggettato all’imposta di registro in misura fissa.

Fonte “Il sole 24 ore”