Nelle frodi “carosello” la prova della non consapevolezza dell’acquirente, che salva la detrazione dell’Iva, non ruota attorno alla regolarità delle scritture contabili o al fatto che la merce sia stata effettivamente consegnata e pagata, ma alla impossibilità di conoscere, con la normale diligenza imprenditoriale, il carattere fraudolento dell’operazione. È questo il principio stabilito dalla Ctr Lazio nella sentenza 3404/19/2017 del 13 giugno scorso (presidente Lentini, relatore Terrinoni).
Il caso
L’agenzia delle Entrate contestava ad una Srl l’indebita detrazione dell’Iva derivante da operazioni ritenute soggettivamente inesistenti (operazioni reali ma tra soggetti diversi da quelli indicati in fattura) perché intervenute con società “filtro” coinvolte in un sistema di frodi.
La società proponeva ricorso contestando l’assenza della prova circa la propria consapevolezza dell’attività fraudolenta realizzata dai cedenti. Il ricorso veniva accolto in primo grado.
La decisione
L’Agenzia proponeva appello. La Ctr Lazio, ribaltando la decisione di primo grado, ha ritenuto fondato l’avviso di rettifica valorizzando la presenza di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti addotti dall’ufficio. In particolare, l’assenza di attività commerciale e struttura organizzativa dei fornitori, testimoniata dalla mancanza di una sede societaria e di beni strumentali, l’omissione della dichiarazione dei redditi e dei versamenti Iva comproverebbero la soggettiva inesistenza delle operazioni.
Di contro, secondo la Ctr, la dimostrazione da parte del contribuente del transito delle merci e del pagamento delle relative fatture non sarebbe rilevante, né può ritenersi decisiva la regolarità delle scritture contabili poiché tali circostanze non escludono la possibile ricorrenza di un meccanismo di frode Iva (si veda Cassazione, sentenza 8011/2013 e ordinanza 10252/2013). La prova della buona fede della società accertata non può far leva quindi su tali elementi e sulla generica affermazione della non partecipazione alla frode, occorrendo dimostrare la propria estraneità e il non avere avuto conoscenza o conoscibilità dell’intera operazione.
L’onere della prova
La tematica del diritto alla detrazione dell’Iva in presenza di fatture per operazioni inesistenti, su cui pende anche un giudizio davanti alla Corte di giustizia Ue a seguito dell’ordinanza di rinvio della Ctr Lombardia 1714/1/2017 dello scorso 10 novembre, è sempre attuale. Se ne è occupata anche la circolare 1/2018 della Gdf che, richiamando il prevalente orientamento giurisprudenziale (Cassazione 5406/2016), sottolinea come la sussistenza di una frode Iva debba essere adeguatamente dimostrata in primis dagli organi di controllo.
Le regole sulla distribuzione dell’onere della prova (Cassazione 25538/2017 e 25545/2017) in tema di fatture soggettivamente inesistenti prevedono che sia l’ufficio a dare dimostrazione dell’accordo fraudolento posto in essere tra interposto e interponente, nonché della consapevole partecipazione alla frode dei vari soggetti coinvolti (ovvero il fatto che questi «sapevano o avrebbero dovuto sapere») attraverso elementi anche presuntivi (articolo 2727 del Codice civile). Spetta invece al contribuente provare la corrispondenza anche soggettiva tra l’operazione di cui alla fattura e quella in concreto realizzata, ovvero l’incolpevole affidamento sulla regolarità fiscale ingenerato dalla condotta del cedente.
Su queste basi, sarà poi il giudice di merito a valutare, caso per caso, se la condotta del cessionario (al quale non si possono comunque chiedere prove diaboliche) risponda alla diligenza ragionevolmente esigibile e faccia salvo, a differenza di quanto ritenuto dalla Ctr Lazio, il diritto alla detrazione.
Fonte “Il sole 24 ore”