Il contratto di licenza del marchio, strumento sempre più diffuso per sfruttare economicamente il capitale intangibile, crea una scissione tra la proprietà del bene immateriale (marchio) e il suo utilizzo a fini commerciali; il licenziatario acquista la facoltà di realizzare e mettere in commercio prodotti contraddistinti dal segno distintivo per un dato periodo di tempo mentre il titolare del marchio mantiene la piena proprietà del bene.
Gli aspetti fiscali che attraversano la materia sono molteplici con maggiore impatto nel caso di cessione o concessione della licenza sul marchio tra soggetti business, ma vi sono aspetti peculiari coinvolgenti la tassazione anche con riferimento alla gestione dei marchi da parte di persone fisiche (private) non esercenti attività di impresa o attività libero professionale.
Quando la gestione coinvolge le persone fisiche titolari di partita Iva, risulta fondamentale operare una netta distinzione tra la sfera personale e quella professionale dell’imprenditore o lavoratore autonomo al fine di comprendere a quale compendio patrimoniale afferisce il «marchio». La distinzione più agevole nell’ambito dell’impresa può risultare difficile nell’ambito del lavoro autonomo a causa della maggiore confondibilità tra elementi personali e professionali. Questa è una delle motivazioni che stanno alla base dell’evoluzione legislativa operata dall’articolo 36, comma 29, Dl 223/2006 (decreto Bersani) che ha aggiunto il comma 1-quater all’articolo 54, Tuir . Tale norma tassa come reddito di lavoro autonomo anche i corrispettivi percepiti a seguito di cessione della clientela o di elementi immateriali riferibili all’attività artistica o professionale. La tassazione è subordinata a due precise condizioni: 1) il concedente è un esercente di arti o professioni; 2) il marchio e gli elementi immateriali, in genere, sono riferibili all’attività artistica o professionale svolta da un lavoratore autonomo. Sfuggono, dunque, al reddito di lavoro autonomo le somme percepite da un professionista per la cessione di un marchio che esuli dall’attività artistica o professionale svolta.
Si pensi al caso del geometra che riceve iure successionis il marchio di un prodotto dell’impresa di famiglia acquisito al patrimonio del genitore dopo la liquidazione della predetta impresa: nel caso della cessione del marchio ereditato, il professionista si comporterà esattamente come un soggetto privato, posto che il bene immateriale in esame esula dal novero dell’attività professionale e afferisce, pertanto, a quello personale.
Ulteriore punto da sottolineare è che la lettera dell’articolo 54, comma 1-quater, Tuir si riferisce alla sola cessione del marchio, ma non cita la concessione in godimento o, più in generale, l’utilizzazione di un bene intangibile afferente all’attività professionale. Tale omissione ci pare che non legittimi un’interpretazione che conduca all’esclusione dal reddito professionale dei redditi generati con questi (speciali) beni afferenti la sfera professionale. Sul punto, la risoluzione 255/E/2009, che ha analizzato il caso della cessione dello sfruttamento economico del diritto d’immagine da un professionista dietro costituzione di una rendita vitalizia, ha ricondotto il relativo compenso all’attività professionale e al reddito di lavoro autonomo ex articolo 54 Tuir.
Ove il marchio sia detenuto da un privato, il reddito derivante dalla concessione di un marchio èregolato dall’articolo 67, comma 1, lettera l), Tuir quale reddito diverso, conclusione affermata con la risoluzione 30/E/2006 in cui si analizzava il caso di un contratto di natura obbligatoria nel quale al contribuente si concedeva, verso corrispettivo, l’utilizzo del segno grafico dello studio professionale, al fine di apparire nei confronti dei clienti come uno studio collegato al concedente. Tali dinamiche generatrici di obbligazioni di fare o permettere sono sovrapponibili a quelle rinvenibili nei contratti (atipici) di licenza su marchio. L’orientamento è ancora attuale nell’indagine effettuata sull’oggetto del contratto, pur essendo ormai superata dalla evoluzione normativa per i soli soggetti che applicano l’articolo 54 Tuir.
In relazione ai redditi derivanti dallo sfruttamento del marchio da parte di un contribuente privato, va osservato che la relazione ministeriale all’articolo 49 Tuir (ora trasposto nell’articolo 53 Tuir) aveva esplicitamente chiarito che «(…) ai redditi derivanti dall’utilizzazione economica di marchi di fabbrica e di commercio non si puòriconoscere nénatura di redditi di lavoro autonomo, néquella di redditi diversi dato che l’utilizzazione di marchi d’impresa avviene in sede di trasferimento d’azienda o di un ramo di essa o mediante la concessione di licenze non esclusive, e quindi nell’esercizio d’impresa». Sul punto annotiamo che tali argomentazioni erano valide nel quadro economico-giuridico applicabile allora, quando, per esempio, la normativa nazionale interna impediva la circolazione del marchio disgiuntamente dall’azienda. Nell’attuale quadro normativo, invece, la concessione a terzi di un marchio sconta la tassazione residuale per il privato e quella professionale per i soggetti business.
Al contrario, in caso di cessione a terzi del marchio da parte di un soggetto privato, i proventi derivanti da tale operazione non possono essere attratti tra i redditi diversi che costituiscono categoria reddituale residuale, ma non onnicomprensiva. Nel caso di cessione del marchio, il cedente non assume alcuna obbligazione di fare, non fare o permettere ma attua un trasferimento di patrimonio a titolo definitivo, verso corrispettivo e con trascrizione dell’atto presso un albo pubblico.
Fonte “Il sole 24 ore”