di Laura Ambrosi e Antonio Iorio
Le contestazioni del reato di sottrazione fraudolenta, negli ultimi tempi, sono decisamente aumentate: si tratta di un illecito particolarmente grave che deriva spesso da operazioni imprenditoriali straordinarie e/o di disposizione del proprio patrimonio che gli organi accertatori ritengono compiute simulatamente in frode all’Erario.
Reato e presupposti
L’articolo 11 del Dgs 74/2000 punisce con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque simuli la vendita o compia altri atti fraudolenti per privarsi di ogni bene che l’amministrazione potrebbe aggredire in caso di riscossione coattiva, per il recupero di imposte sui redditi, Iva, interessi o sanzioni di ammontare superiore a 50mila euro, con un’aggravante di pena (da uno a sei anni) per debiti maggiori di 200mila euro.
La fattispecie costituisce una tutela nei confronti dell’Erario, diretta non solo alla riscossione dei tributi, ma alla conservazione delle garanzie patrimoniali sulle quali potrebbe rivalersi in caso di inadempimento.
Si tratta di un reato di pericolo, per il quale non è necessaria la preesistenza del debito tributario, con la conseguenza che per ritenersi integrato è sufficiente che gli atti fraudolenti posti in essere siano idonei a vanificare un’ipotizzabile futura procedura di riscossione coattiva.
In altre parole, non è necessario che sussista un tentativo di riscossione in corso o un’iscrizione a ruolo, poiché va verificato se sia stato commesso un atto simulato per occultare i propri o altrui beni al fisco. Peraltro la Cassazione con la sentenza n. 15133 del 5 aprile 2018 ha chiarito che il valore dei beni sottratti fraudolentemente al pagamento delle imposte può essere inferiore a 50mila euro. L’offensività della condotta va infatti parametrata all’attitudine di ridurre o eliminare la garanzia patrimoniale, secondo un giudizio ex ante.
Inoltre è stato anche precisato che il reato di sottrazione fraudolenta non richiede l’accertamento di un delitto tributario presupposto (Cassazione 7177/2017 ).
Tuttavia, sebbene la giurisprudenza sul punto non sia univoca, è verosimile che per integrare il delitto sia necessaria quanto meno la conoscenza da parte del contribuente di un’attività di controllo dell’amministrazione. Se così non fosse si verificherebbe il reato in presenza di qualsiasi atto, ritenuto a posteriori simulato, cui poi seguirebbe la contestazione di una norma tributaria. Così, in assenza di qualsivoglia attività di controllo, appare difficile ipotizzare la sussistenza dell’illecito.
Tuttavia, la giurisprudenza di legittimità, anche con una recente sentenza (la 10161/2018), ha confermato che per il perfezionamento del delitto occorrono due condotte alternative:
– vendita simulata dei beni;
– compimento di atti fraudolenti.
Vendita simulata e frode
La vendita simulata è il negozio caratterizzato da una divergenza tra la volontà dichiarata e la volontà reale. Il programma contrattuale, quindi, non corrisponde alla effettiva volontà dei contraenti.
La nozione di atto fraudolento, invece, non è così univoca. Secondo la giurisprudenza di legittimità esso sussiste quando si tratta di:
– un’alienazione che sebbene effettiva, sia idonea a rappresentare una realtà (la riduzione del patrimonio del debitore) non corrispondente al vero;
– uno stratagemma artificioso finalizzato a sottrarre garanzie in favore dell’erario;
– una condotta atta a vanificare l’esito dell’eventuale esecuzione tributaria coattiva.
Il concetto di frode richiamato dalla norma presuppone così non soltanto la lesione del diritto (di garanzia) dell’Erario, ma che la condotta sia attuata con l’inganno volto a configurare una situazione di apparenza diversa dalla realtà. In altre parole occorre che sembri ridotto il patrimonio, ma in realtà non lo sia. Non è pertanto sufficiente una vendita in sé e per sé, poiché è necessario che sia simulata o attuata con fraudolenza.
Va da sé, ad esempio, che la cessione di beni a un prezzo di mercato e il successivo incasso di denaro non integrano la fattispecie delittuosa, nemmeno se le somme riscosse siano destinate al soddisfacimento di debiti diversi dall’Erario.
Il soddisfacimento di altri creditori, infatti, non costituisce la fraudolenza richiesta dalla norma, se la cessione avviene senza alcuna simulazione o altri atti ingannevoli (sentenza 10161/2018).
Peraltro, è stato chiarito (Cassazione 13223/2016) che in ogni caso la presenza di tale attività simulatoria e/o fraudolenta non è sufficiente a integrare la condotta illecita, poiché occorre che la pretesa erariale non possa essere altrimenti garantita dal patrimonio del contribuente.
La prescrizione
Circa i termini prescrizionali si ricorda, che, rispetto alla maggior parte dei delitti tributari la sottrazione si prescrive in sei anni da quando viene commesso l’illecito ovvero in sette anni e sei mesi se, nel frattempo, sia intervenuta una causa interruttiva.