Chi trae proventi con continuità e sistematicità dall’evasione fiscale e dalle truffe in danno alla pubblica amministrazione espone il patrimonio così costituito al rischio della confisca, applicabile, anche a distanza di tempo, dal tribunale sezione misure di prevenzione. È quanto emerge dalla sentenza 11846 della seconda sezione della Corte di cassazione depositata il 15 marzo scorso.
La vicenda riguarda un imprenditore calabrese che, tra il 1995 e il 2010, era stato coinvolto in diversi procedimenti penali che lo avevano visto indagato o imputato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (reato previsto dall’articolo 640-bis del Codice penale) o di condotte di false fatturazioni ed evasione fiscale per ingenti volumi di affari. Tuttavia, nessuno dei procedimenti si era concluso con una condanna passata in giudicato; ciò in quanto in alcuni si era verificata la prescrizione del reato in grado di appello dopo una condanna di primo grado e in altri erano mancate le condizioni di procedibilità anche prima dell’inizio del dibattimento.
Nel 2016 il Procuratore aveva inoltrato al Tribunale di Reggio Calabria una richiesta di applicazione della misura di prevenzione personale e patrimoniale a carico dell’imprenditore. Egli veniva ritenuto soggetto pericoloso abitualmente dedito a traffici delittuosi, che viveva anche in parte con i proventi di attività delittuose.
Veniva così invocata una ipotesi di «pericolosità generica», prevista dall’articolo 4, lettera c), del decreto legislativo 159/2011.
Il Tribunale aveva ritenuto che dai vari fatti accertati nei procedimenti penali a carico dell’imprenditore, pur conclusi per lui favorevolmente, era emersa una sua stabile dedizione ad attività illecite che gli avevano consentito di acquisire ingenti capitali. Tuttavia, questa sua condotta risultava solo fino al 2010 e, in assenza di altri elementi a suo carico per il periodo successivo, la sua pericolosità non poteva essere ritenuta attuale. Per questo il Tribunale non aveva applicato la misura di prevenzione personale, ma aveva egualmente disposto la confisca dei beni dell’imprenditore che risultavano essere stati da lui acquistati nel periodo in cui si era manifestata la sua pericolosità.
La Cassazione quindi si è trovata ad affrontare un’ipotesi di confisca senza condanna e senza pericolosità attuale del titolare dei beni, ma ha considerato legittimo il provvedimento.
Secondo la Cassazione, la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) «De Tommaso contro Italia» del 23 febbraio 2017, che ha censurato la carenza di previsioni dettagliate nel Codice antimafia sul tipo di condotta da considerare espressiva di pericolosità sociale, non costituisce né sentenza pilota né diritto consolidato. Sicché non può avere conseguenze sui giudizi in corso. In altri precedenti della Cedu, poi, l’applicazione delle misure di prevenzione è stata ritenuta legittima purché ancorata a elementi certi e provati. E tali erano quelli raccolti nei procedimenti penali conclusi con dichiarazione di prescrizione, di per sè non preclusiva della valutazione della pericolosità.
La confisca si deve considerare giustificata dall’articolo 1, comma 2, del Protocollo addizionale 1 della Convenzione che salvaguarda le norme interne sull’uso dei beni in conformità all’interesse generale e che quindi consente le procedure che accertino la pericolosità soggettiva e la presumibile origine illecita dei patrimoni. E ciò vale anche quando il patrimonio abbia origine illecita seppur il suo titolare non sia più dedito ad attività illecite. La sua origine, infatti, rende il patrimonio antisociale e altera la concorrenza sul mercato.
Fonte “Il sole 24 ore”