Illegittima l’applicazione del metodo induttivo se l’ufficio non prova l’inattendibilità della contabilità e la correttezza dei dati utilizzati per la ricostruzione dei ricavi. Questi i principi contenuti nella sentenza 36/2/2018 della Ctp Reggio Emilia (presidente e relatore Montanari), depositata lo scorso 3 aprile.
La vicenda trae origine dall’impugnazione da parte di una società di un avviso di accertamento con il quale l’ufficio rideterminava induttivamente i ricavi della contribuente. Tale modalità era stata utilizzata in quanto i verificatori contestavano la non coerenza agli studi di settore e una bassa redditività dell’impresa.
La società e i soci, tassati per trasparenza, presentavano distinti ricorsi, poi riuniti, eccependo fondamentalmente l’irrazionalità ed erroneità della metodologia ricostruttiva seguita dall’ufficio.
I giudici hanno ritenuto fondate le doglianze dei contribuenti. Innanzitutto è stato evidenziato come più volte la Cassazione ha confermato la possibilità di procedere ad accertamento induttivo anche in presenza di contabilità formalmente corretta ma complessivamente inattendibile, potendosi, in tale ipotesi, evincere l’esistenza di maggiori ricavi o minori costi in base a presunzioni semplici, purchè qualificate.
Nella specie l’ufficio aveva però completamente eluso l’onere probatorio su di esso gravante, non avendo dato dimostrazione dell’inattendibilità della contabilità della società, elemento ritenuto essenziale per l’applicabilità della metodologia induttiva. L’unico presupposto che si rinveniva in proposito nell’accertamento riguardava infatti la non coerenza rispetto a un indice (coefficiente di ricarico medio) dello studio di settore di riferimento: si trattava però di un unico elemento, che peraltro faceva riferimento ad uno scostamento minimo tra il dato dichiarato e quello prospettato dagli studi di settore. Secondo il collegio, era troppo poco per poter ritenere sostanzialmente inattendibile la contabilità della contribuente.
In ogni caso, ha proseguito la Ctp, anche ritenendo legittima l’applicazione della metodologia induttiva, la pretesa erariale risultava non provata.
La ricostruzione che aveva portato all’individuazione di maggiori ricavi non dichiarati era infatti basata su due elementi in particolare: la percentuale di sfrido e quella di invenduto. L’ufficio assumeva di averle determinate utilizzato una logica equitativa e facendo riferimento a riscontri di altri esercizi similari operanti nella medesima provincia.
Tale comportamento non ha però convinto i giudici, i quali hanno ritenuto che non potessero essere considerate sufficienti delle mere enunciazioni, senza che vi fosse la prova delle stesse né un riscontro sulla loro fonte. In sintesi l’ufficio avrebbe dovuto dimostrare che le percentuali applicate fossero realmente corrette e comunque attendibili, al fine di poter adeguatamente contrastare i valori dichiarati dalla contribuente.
In proposito anche recentemente la Cassazione (7003 del 21 marzo 2018) ha ribadito che, in tema di presupposti per l’accertamento induttivo, la prova presuntiva può essere fondata anche su un solo elemento, purché fornito degli requisiti di gravità, precisione e concordanza: spetta poi al giudice di merito la valutazione dell’effettiva sussistenza di tali presupposti.
Fonte “Il sole 24 ore”