di Giorgio Gavelli
In queste settimane le società presentano i bilanci ai soci riuniti in assemblea e, quando i risultati sono positivi, viene spesso assunta la delibera di distribuzione dei dividendi. Quest’anno, tuttavia, alcune questioni di natura fiscale e contabile meritano un approfondimento.
Sul piano tributario, l’attenzione è puntata sulle controverse disposizioni contenute nella legge di Bilancio 2018 e, in particolare, sulla norma transitoria di cui all’articolo 1, comma 1006 della legge n. 205/2017. Se, in linea generale, l’intento delle nuove disposizioni è quello di assimilare il trattamento dei soci (persone fisiche) qualificati e non, prevedendo in entrambi i casi l’applicazione della ritenuta secca del 26%, viene contestualmente statuito che alle distribuzioni di utili derivanti da partecipazioni qualificate in società ed enti soggetti Ires formatesi con utili prodotti fino all’esercizio in corso al 31 dicembre 2017, deliberate dal 1° gennaio 2018 al 31 dicembre 2022, continuano ad applicarsi le regole previgenti.
È facile verificare che, nella stragrande maggioranza dei casi, il socio qualificato è penalizzato dal nuovo regime, anche per il fatto che la ritenuta alla fonte (o l’imposta sostitutiva) non permette di sfruttare deduzioni e detrazioni per abbattere l’imponibile. Ne consegue che, in prima approssimazione, si potrebbe pensare di risolvere subito il problema deliberando in questi giorni la distribuzione di tutte le riserve divisibili ante 2018 presenti in bilancio, lasciando poi alle possibilità finanziarie della società la materiale liquidazione di quanto deliberato.
Tuttavia, a ben vedere, un simile comportamento appare del tutto sconsigliabile, per più di un motivo. In effetti, la scrittura contabile conseguente ad una simile delibera (dare Riserve avere Debiti verso soci per dividendi) ridurrebbe drasticamente il patrimonio netto, con effetti pressoché immediati su rating e rapporti bancari. Inoltre, qualora successivamente la società realizzasse perdite di esercizio, l’assenza di un patrimonio netto capiente indurrebbe i soci a rinunciare al proprio credito per dividendi, innescando così il rischio di vedersi imputare dall’amministrazione finanziaria il cosiddetto incasso giuridico, atteso che il dividendo è un reddito tassato per cassa come il compenso amministratore, il Tfm, gli interessi attivi e via dicendo (risoluzione n. 124/E/2017, circolare n. 73/1994, Cassazione n. 1335/2016 e n. 26842/2014).
Ma gli effetti negativi non finiscono qui, se si pensa che una scrittura quale quella sopra riportata ha anche l’effetto di ridurre per un pari importo la base Ace sin dall’inizio del periodo d’imposta (circolare n. 12/E/2014) e con analogo impatto sui periodi successivi, nonostante la liquidità permanga in società, anche se non più nell’ambito del netto patrimoniale.
Delicate conseguenze potrebbe anche avere la permanenza del debito verso i soci per un lungo periodo. Infatti, da un lato i diritti che derivano dai rapporti sociali si prescrivono in cinque anni (articolo 2949 Cc), dall’altro non si può escludere che, sulla scorta di alcune discutibili sentenze della Cassazione (10030/2009 e 17839/2016), qualche verificatore trasformi questi importi in finanziamenti fruttiferi da socio a società, inventando interessi e (omesse) ritenute.
A ben vedere, considerato anche l’evidente errore commesso nei confronti di chi aveva già deliberato ma non distribuito, alla data di entrata in vigore della legge n. 205/2017, gli utili realizzati (si veda Il Sole 24 Ore del 14 aprile scorso), la norma transitoria andrebbe riscritta completamente, prima che si concretizzino tutte le situazioni negative a cui può portare. Perché appare scontato che l’erario non vedrà applicato il 26% sugli utili ante 2018 dei soci qualificati, tanto vale stabilire sin d’ora che l’assimilazione con la disciplina dei soci non qualificati (ove ritenuta necessaria) entri in vigore direttamente con la distribuzione degli utili realizzati dall’esercizio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2017.
Fonte “Il sole 24 ore”