di Benedetto Santacroce
Ancora aspetti da puntualizzare sulle disposizioni che permettono al cessionario/committente di detrarre l’Iva che il cedente/prestatore ha erroneamente assolto, in una situazione che è comunque da definirsi di irregolarità. I commenti della prassi – si fa riferimento in particolare alla circolare 12 di Assonime di ieri – pur offrendo una propria linea interpretativa, sottolineano la necessità di chiarimenti ufficiali su alcuni punti della recente disciplina.
Dopo l’introduzione della possibilità per il fornitore di chiedere il rimborso dell’imposta non dovuta entro 2 anni dall’avvenuta restituzione al cliente dell’importo pagato a titolo di rivalsa (articolo 8 della legge europea 2017), specularmente è stato previsto (articolo 1, comma 935, della legge di bilancio 2018) che, se il cliente ha detratto un’imposta superiore a quella effettiva, il diritto alla detrazione viene comunque conservato con un’unica penalità, ovvero l’applicazione di una sanzione in misura fissa. Se la norma (articolo 6, comma 6, del Dlgs 471/1997) è stata accolta giustamente in un clima di entusiasmo generale, in quanto permette di garantire la neutralità dell’Iva nelle ipotesi di applicazione indebita dell’imposta senza passare per i vari step previsti dalla precedente procedura (il cessionario/committente chiedeva al fornitore la restituzione dell’imposta a lui pagata a titolo di rivalsa, il fornitore dopo aver restituito la somma al cliente, chiedeva il rimborso all’Erario), ciò non significa che essa sia completamente scevra da criticità.
Innanzitutto, sembrerebbe da escludere la sua interpretazione letterale, secondo la quale l’ambito di applicazione della norma sarebbe limitato solamente ai casi in cui l’imposta è dovuta, ma ne è errata la quantificazione, come nel caso in cui il fornitore abbia applicato erroneamente un’aliquota maggiore a quella effettivamente dovuta. Escludendo la detraibilità dell’Iva non dovuta ogniqualvolta l’operazione non è soggetta ad Iva poiché esente, non imponibile od esclusa, si creerebbe una forte disparità rispetto ad un comportamento (l’applicazione di un’aliquota superiore a quella corretta) del tutto analogo, andando contro la ratio stessa della riforma.
Un’altra questione è il dubbio sulla compatibilità dell’articolo 6, comma 6 con la giurisprudenza unionale (in particolare sentenza del 15 dicembre 2011, C-427/10). In quel caso la Corte aveva affermato che l’imposta non dovuta non sarebbe comunque detraibile, affermazione che – secondo la circolare di Assonime – non creerebbe un contrasto tra la norma domestica e la direttiva Iva, così come interpretata dai giudici unionali: il motivo è che, per garantire a tutti gli effetti il principio di neutralità, se l’ordinamento italiano richiede che l’imposta erroneamente esposta in fattura è comunque dovuta (articolo 21, comma 7, del Dpr 633/1972), dall’altro lato, per coerenza, ed in quanto non c’è danno per l’Erario, deve consentire al debitore di portare in detrazione l’imposta, evitando il giro di restituzioni tra cliente, fornitore, Erario sopra descritto. Naturalmente, deve trattarsi di un contesto in cui non vi sia frode fiscale.
Fonte “Il sole 24 ore”