Fiscal Focus – A cura di Antonio Gigliotti
La Cassazione si è pronunciata sul ricorso di una Banca
In tema di reati fiscali, il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente, può investire anche i beni costituiti dall’indagato in pegno regolare in favore della Banca, ma in tale ipotesi al giudice è richiesto di operare un bilanciamento fra l’interesse pubblico alla non dispersione definitiva dei beni nella disponibilità dell’indagato e la tutela delle ragioni del terzo creditore estraneo al reato.
È quanto emerge dalla sentenza n. 44010/15 della Terza Sezione Penale della Suprema Corte.
Gli ermellini hanno esaminato il ricorso prodotto da una Banca, nell’ambito di un procedimento a carico di un cliente della stessa, accusato del reato di omesso versamento di IVA ex art. 10-ter D.Lgs. 74/2000.
Precisamente, il ricorso ha avuto a oggetto il provvedimento di sequestro preventivo delle quote di un Fondo per oltre 2milioni e mezzo di euro, quote costituite in pegno regolare dall’indagato.
La gravata decisione del giudice della cautela è stata cassata con rinvio poiché, a giudizio dei supremi giudici, non conforme all’orientamento prevalente in tema di misure cautelari su titoli costituiti dall’indagato in pegno a favore di un istituto di credito.
Le Sezioni Unite Penali della Suprema Corte, con la sentenza n. 9 del 1994 – poi ripresa da pronunce successive (Cass. nn. 47400/2003 e 45400/2008) – hanno chiarito che il sequestro preventivo può avere ad oggetto anche i beni che siano stati costituiti dall’indagato in pegno regolare, e ciò in quanto la disponibilità di questi, da parte del creditore, pur penetrante, non può essere considerata assoluta né esaustiva di tutte le facoltà spettanti al debitore garante, il quale, oltre all’eventuale recupero dell’eccedenza di pegno, può sempre alienare il bene o attivarsi per l’estinzione dell’obbligazione e ottenere la restituzione della eadem res fornita in garanzia. Le S.U. hanno però precisato che “il giudice di merito che dispone la misura può limitare l’estensione del vincolo alle facoltà spettanti al debitore indagato o imputato, lasciando impregiudicate le facoltà di esclusiva pertinenza del creditore pignoratizio estraneo all’illecito penale; ed anzi tale scissione delle rispettive sfere di disponibilità, ai fini di una diversa diversificazione dell’ambito di efficacia del vincolo, è da considerarsi doverosa quando le esigenze cautelari che fondano la misura consistono nel pericolo di commissione di nuovi reati, o di aggravamento di quelli già commessi, derivante soltanto dal comportamento del debitore indagato”.
Pertanto, compete al giudice che sequestra o, in caso di ricorso, al giudice del riesame, valutare se sia il caso di limitare il vincolo per scindere la posizione del creditore rispetto a quella dell’indagato ai fini dell’efficacia della cautela; ragion per cui, nel caso esaminato, non corrisponde all’insegnamento nomofilattico “l’asserto del Tribunale di Trieste per cui comunque è sempre necessario dare prevalenza all’interesse pubblico anche se il terzo ne patisce conseguenze pregiudizievoli. Quello che il giudice deve operare, invero, non è un automatico e totale assoggettamento del terzo all’interesse pubblico, bensì un bilanciamento, per quanto possibile ovvero nella misura ottimale, tra quest’ultimo e l’interesse privato” (si veda Cass. n. 36293/2011).