IVA 2013: il pagamento entro il 29 dicembre esclude il reato

15 Dicembre 2014
Il prossimo 29 dicembre 2014 (il 27 dicembre cade di sabato) rappresenta il termine ultimo per la liquidazione e il versamento dell’acconto IVA 2014. Il suddetto termine rappresenta inoltre il termine ultimo per il versamento del debito IVA 2013, onde evitare sanzioni penali qualora l’imposta non versata fosse superiore a euro 50.000.

Configurazione reato di omesso versamento IVA – L’art. 10 ter, D.Lgs. 74/2000 
dispone quanto segue:
La disposizione di cui all’articolo 10-bis – omesso versamento ritenute – si applica, nei limiti ivi previsti, anche a chiunque non versa l’imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo”.

Gli elementi necessari per la configurazione del delitto, sono individuati:
• nella presentazione della dichiarazione IVA da cui risulti indicato un saldo Iva di importo superiore a 50.000,00 euro;
• mancato versamento entro il termine di versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo.

La presentazione della dichiarazione è il presupposto ineludibile ai fini integrativi del reato, anche perché il dato letterale della norma si riferisce a “chiunque non versa l’imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla dichiarazione annuale”.
Anche motivi legati all’impostazione sistematica del dato normativo inducono a ritenere che sia necessaria la presentazione della dichiarazione: il mancato versamento dell’imposta, laddove non venga presentata la dichiarazione Iva, è già previsto e sanzionato dall’art. 5 del D.Lgs. n. 74/2000 (“Omessa dichiarazione”). Di conseguenza, una diversa interpretazione porterebbe a un’inammissibile sovrapposizione tra la fattispecie de qua e quella ex art. 5, D.Lgs. 74/200.
La dichiarazione, affinché risulti idonea ai fini integrativi dell’ipotesi in esame, è necessario che sia presentata in maniera fiscalmente valida. Se ciò non avviene, essa dovrà essere considerata omessa: in tal caso è eventualmente integrabile il delitto ex art. 5, D.Lgs. 74/2000.
Per quanto riguarda il secondo elemento costitutivo del reato, l’art. 10-ter in materia d’IVA prevede che la rilevanza penale degli omessi versamenti si verifica solo laddove questi si protraggano fino al termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo (generalmente il 27 dicembre; quest’anno il 27 dicembre cade di sabato e pertanto la scadenza slitta al 29 dicembre).

Per la sussistenza del delitto è necessario che l’Iva dovuta in base alla dichiarazione annuale e non versata ammonti a una somma che risulti “superiore a euro cinquantamila per ciascun periodo di imposta”. Con l’aumento dell’aliquota IVA ordinaria, efficace dal 1° ottobre 2013, è più facile raggiungere tale soglia. Se infatti prima, per le attività a imposta ordinaria del 21%, era necessario un imponibile di circa 239mila euro, ora basteranno 227mila euro.

Per quanto riguarda le soglie di punibilità, la dottrina ha evidenziato che il reato in questione può configurarsi soltanto con riferimento all’Iva autodichiarata dallo stesso contribuente e che pertanto non rileva l’eventuale maggiore imposta accertata dall’Ufficio.
Tuttavia, altra parte della dottrina ritiene che il reato di “omesso versamento di Iva” risulti senz’altro configurabile anche in alcune ipotesi in cui, dal punto di vista tributario, la debenza delle somme si fonda sull’attività di accertamento dell’Amministrazione Finanziaria.

Da un punto di vista pratico, a titolo esemplificativo, per chi aveva presentato la Dichiarazione IVA 2013 (periodo d’imposta 2012) con un debito superiore a 50.000,00, senza effettuare il relativo versamento o comunque effettuare un versamento parziale che riduceva il debito al di sotto della soglia di punibilità, si è consumato il reato di omesso versamento dell’IVA lo scorso 27 dicembre 2013. Allo stesso modo, per chi aveva presentato la Dichiarazione IVA 2014 (periodo d’imposta 2013) con un debito superiore a 50.000,00, senza provvedere a versate quanto dovuto o comunque a effettuare un versamento parziale che riduca il debito al di sotto della soglia di punibilità, il reato di omesso versamento dell’IVA si configurerà il 29 dicembre 2014.

La sanzione prevista è la reclusione da sei mesi a due anni e alla sentenza di condanna conseguono, oltre alla pena principale, le pene accessorie stabilite dall’art. 12, comma 1, del D.Lgs. n. 74/2000.

Va rilevato che il reato si ritiene comunque commesso anche se successivamente al 29 dicembre 2014 il contribuente provveda a regolarizzare il versamento.

Il versamento effettuato “dopo il 29 Dicembre” non esclude la configurazione del reato, però il soggetto attivo può usufruire dell’attenuante prevista dall’art. 13 del D.Lgs. n. 74/2000, norma che prevede la diminuzione fino a un terzo della pena principale prevista ed esclude l’applicazione delle pene accessorie.

Secondo la giurisprudenza di legittimità prevalente, al fine di ottenere, la riduzione della pena, è necessario che l’estinzione integrale del debito avvenga prima dell’apertura del dibattimento. In concreto, quindi, per beneficiare dell’attenuante il contribuente dovrà estinguere le rate prima di tale udienza.

Autore: Redazione Fiscal Focus

Rateazioni Equitalia con un click

11 Dicembre 2014

Nel nuovo sito di Equitalia rate più semplici

Rateazioni molto più semplici e a portata di click: è questa una delle più importanti novità introdotte con il nuovo sito di Equitalia, che consentirà ai contribuenti di evitare le file agli sportelli o gli inconvenienti delle spedizioni postali.

Il nuovo sito

Il nuovo sito internet del Gruppo Equitalia, www.gruppoequitalia.it, si presenta nettamente migliorato rispetto al precedente, ma oltre al linguaggio più diretto e alla grafica più moderna, spicca la possibilità di poter finalmente richiedere le rateazioni semplicemente via internet, senza doversi recare presso gli sportelli o inviare raccomandate.

Il nuovo servizio è denominato “rateazioni online”, e permette di richiedere direttamente dal web la dilazione dei debiti fino a 50 mila euro.

Questo nuovo strumento si aggiunge agli altri già disponibili e oggi più facili da usare grazie al nuovo sito: “paga online” che consente di saldare i debiti con la carta di credito, “estratto conto” per controllare con maggior dettaglio la propria situazione debitoria e le procedure in corso, “sospensione online”, che in pochi passaggi permette di inviare la richiesta per sospendere la riscossione e attivare la verifica su quanto richiesto dagli enti pubblici creditori, il “trova sportello” e i canali di contatto diretti per chiedere l’assistenza di Equitalia.

Il servizio “rateazioni online”

Con il nuovo servizio offerto sul sito internet di Equitalia è possibile chiedere e ottenere una dilazione per importi fino 50 mila euro direttamente via web, seguendo pochi e semplicissimi passi:

– In primo luogo il contribuente dovrà inserire i propri dati anagrafici;

– Il contribuente dovrà successivamente specificare il documento per cui richiede la dilazione e procedere quindi con la domanda di rateazione;

– Equitalia invierà il piano di ammortamento con i relativi bollettini per effettuare il pagamento.

I debiti di importo superiore a 50.000 euro

La nuova procedura è ammessa solo per i debiti di importo inferiore a 50.000 euro.

Per i debiti superiori a 50 mila euro, infatti, sono necessari alcuni documenti aggiuntivi che attestino la situazione di difficoltà economica del contribuente: in questi casi si rende pertanto necessario utilizzare i canali tradizionali (sportello Equitalia o posta raccomandata).

Dal sito sarà possibile soltanto scaricare i modelli necessari.

Rateazioni sempre più facili

Quanto appena annunciato si aggiunge ad un’altra importante novità annunciata con il comunicato stampa Equitalia del 18 agosto 2014: nel 2015 cominceranno a essere notificate le cartelle con allegati i piani di rateizzazione precompilati del debito che possono essere concessi in base ai parametri previsti dalla legge.

Il contribuente potrà quindi scegliere di saldare in un’unica soluzione oppure aderire al piano di pagamento più adatto alle sue esigenze e alle sue disponibilità economiche.

Autore: Redazione Fiscal Focus

 

 

Voucher: le registrazioni contabili in tre fasi

2 Dicembre 2014
La regolamentazione delle prestazioni di lavoro occasionale di tipo accessorio è stata introdotta dalla Manovra d’estate 2008 (D.L. n. 112/08, convertito in L. n. 133/08) e ha riconosciuto l’Inps quale concessionario del servizio.

Il voucher disponibile sia in forma cartacea che telematica, è un “buono lavoro”che viene utilizzato per il pagamento di lavoratori che svolgono un servizio in modo saltuario al netto di trattenute previdenziali e assistenziali obbligatorie.

Il valore nominale è da intendersi al lordo della contribuzione a favore della gestione separata INPS, di quella in favore dell’INAIL e di una quota per la gestione del servizio.
Ne consegue che il valore netto di un voucher da 10 euro nominali, in favore del lavoratore è pari a € 7,50 (per il buono da 50 euro sarà invece di € 37,50) e corrisponde al compenso minimo di un’ora di prestazione, salvo che per il settore agricolo, dove, in ragione della sua specificità, si considera il contratto di riferimento. In sostanza ogni buono-voucher incorpora sia l’assicurazione anti-infortuni dell’INAIL che il contributo INPS, il quale viene accreditato sulla posizione individuale contributiva del lavoratore che, ove non presente, sarà aperta d’ufficio dall’istituto.

Il buono può essere riscosso dal lavoratore presso tutti gli uffici postali, il valore nominale di ogni singolo voucher è pari a 10 euro. È previsto un carnet o “buono multiplo” del valore di 50 euro, equivalente a cinque buoni non separabili.

Tuttavia, lo svolgimento di prestazioni di lavoro occasionale accessorio non dà diritto alle prestazioni a sostegno del reddito dell’Inps, quali la disoccupazione, la maternità, la malattia, gli assegni familiari, ecc., ma è riconosciuto ai fini del diritto alla pensione.
Di qui nasce una particolare caratteristica delle registrazioni nel caso in cui il datore di lavoro sia obbligato alla tenuta delle scritture contabili.

Gli elementi del buono lavoro sono:
– 10 x 13% = 1,3 contribuzione Inps
– 10 x 7% = 0,70 copertura assicurativa Inail
– 10 x 5% = 0,50 compenso al concessionario Inps
– 10 – 1,3 – 0,70 – 0,50 = €7,50 somma netta per il lavoratore

Contabilmente si possono riconoscere tre fasi:

1. Acquisto dei buoni lavoro presso l’Inps
All’atto dell’acquisto l’azienda dovrà rilevare l’uscita finanziaria e il valore corrispondente del voucher come valori in deposito. Si prenda ad esempio l’acquisto n°10 buoni lavoro:

Cassa voucher ———- a ——– Banca c/c ———- € 100,00

2. Utilizzo della prestazione di lavoro accessorio
Al momento di utilizzo degli stessi si dovrà contabilizzare il costo pari a quanto erogato al lavoratore per la sua prestazione, tenendo presente il principio di competenza. Poniamo ad esempio venga utilizzato n° 1 buono lavoro:

Diversi ———————————– a ————– Cassa voucher ——– € 10,00
costo lavoro accessorio ————————————————————– € 7,50
contributi Inps lavoro accessorio ————————————————- € 1,30
costo Inail lavoro accessorio —————————————————— € 0,70
compenso concessionario Inps ————————————————– € 0,50

3. Restituzione all’Inps dei buoni lavoro non utilizzati
Se l’azienda non utilizzerà tutti i buoni lavoro, li potrà restituire all’Inps in cambio della somma corrispondente. Poniamo ad esempio che vi sia la restituzione di n° 9 buoni lavoro non utilizzati:

Banca c/c —————- a ———– Cassa Voucher ———– € 90,00

Autore: Redazione Fiscal Focus

L’opzione per la trasparenza direttamente in dichiarazione

 

27 Novembre 2014
Il regime di trasparenza fiscale è quello tipico delle società di persone; permette di tassare il reddito della società direttamente in capo ai soci, e indipendentemente dalla distribuzione degli utili.
Questo regime fiscale può essere adottato, al sussistere di particolari requisiti, anche dalle società di capitali. Il vantaggio per queste ultime è evidente: si evita la doppia tassazione prevista per le società di capitali, dove il reddito conseguito viene prima tassato in capo alle società e poi in capo al socio una volta distribuito il dividendo.

Per applicare il regime di trasparenza fiscale alle società di capitali, deve trattarsi di:
• società di capitali i cui soci sono altre società di capitali (art. 115 del Tu.i.r.);
• s.r.l. i cui soci sono esclusivamente persone fisiche (art. 116 del Tu.i.r.).

L’opzione per il regime di trasparenza ha effetto dall’inizio dell’anno nella quale è manifestata, è vincolante per un triennio e può essere rinnovata per i trienni successivi.

L’opzione fino a tutto il 2014 viene esercitata:
– da tutti i soggetti (società e soci) che intendono adottare il regime di trasparenza;
– entro la fine del primo dei tre periodi d’imposta interessati.

Pertanto, per una S.r.l. con periodo d’imposta coincidente con l’anno solare e con riferimento al triennio 2012 – 2014, l’opzione andava esercitata entro il 31.12.2012.

In caso di rinnovo è necessario che esso sia espressamente manifestato sia dai soci che dalla società. In assenza della comunicazione da parte della società, il rinnovo (così come l’opzione) non può considerarsi perfezionato, a nulla rilevando l’eventuale comportamento concludente osservato dalla società e dai soci.
Come precisato dall’Agenzia delle Entrate nella Risoluzione 21.6.2007, n. 142/E, la società può effettuare l’opzione solo se, a monte, tutti i soci hanno inviato alla società la raccomandata con ricevuta di ritorno con cui dichiarano l’adesione al regime.

Con il via libera da parte del Consiglio dei ministri dello scorso 30 ottobre, il decreto legislativo sulle semplificazioni fiscali agli artt. 16 e 17 intende accentrare la comunicazione relativa all’esercizio dell’opzione con la dichiarazione dei redditi. In tal modo si eviterà di compilare un modello di comunicazione separato, come attualmente previsto.
La nuova modalità dell’opzione entrerà in vigore solo a partire dal 2015.

Autore: Redazione Fiscal Focus

Società di persone: nuove scadenze di versamento delle imposte

26 Novembre 2014

Grazie al Decreto semplificazioni, si avranno nuovi termini di versamento delle imposte pre-operazione straordinaria e nuove modalità di presentazione della dichiarazione.

Con il c.d. Decreto semplificazioni, approvato lo scorso 30 ottobre 2014 e in corso di pubblicazione in G.U., sono stati modificati i termini di versamento delle imposte per le società di persone, qualora abbiano posto in essere operazioni straordinarie.
È comunque necessario attendere la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e quindi la successiva entrata in vigore del decreto, prima di poter applicare tali norme.

La norma – L’art.17 del decreto legislativo, nella sua versione definitiva, prevede quanto segue:
– comma 1 All’art. 1, comma 1, del regolamento di cui al d.P.R. 22 luglio 1998, n.322 e successive modificazioni, le parole ‘relativamente ai soggetti di cui all’art. 2, comma 2’ sono soppresse.
– comma 2 All’articolo 17, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 7 dicembre 2001, n. 435, e successive modificazioni, il primo periodo è sostituito dal seguente: ‘1. Il versamento del saldo dovuto con riferimento alla dichiarazione dei redditi ed a quella dell’imposta regionale sulle attività produttive da parte delle persone fisiche, e delle società o associazioni di cui all’articolo 5 del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, compresa quella unificata, è effettuato entro il 16 giugno dell’anno di presentazione della dichiarazione stessa; le società o associazioni di cui all’articolo 5 del citato testo unico delle imposte sui redditi, nelle ipotesi di cui agli articoli 5 e 5-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 22 luglio 1998, n. 322 effettuano i predetti versamenti entro il giorno 16 del mese successivo a quello di scadenza del termine di presentazione della dichiarazione’
”.

Il comma 1, dunque, interviene sull’articolo 1, comma 1 del D.P.R. 322/1988 che disciplina le modalità di redazione e sottoscrizione delle dichiarazioni ai fini delle imposte sui redditi e dell’IRAP. Espungendo il riferimento ai soli soggetti IRES, la norma consente l’utilizzo dei modelli di dichiarazione approvati nel corso dello stesso anno solare, nel quale si chiude l’esercizio sociale, anche alle società di persone ed enti equiparati con periodo d’imposta non coincidente con l’anno solare.

Il comma 2, riformulando il primo periodo dell’articolo 17, comma 1, del D.P.R. 435/2001, nelle ipotesi di operazioni straordinarie (liquidazione, trasformazione, scissione e fusione – si tratta delle ipotesi di cui agli articoli 5 e 5-bis del D.P.R. 22 luglio 1988, n. 322) che coinvolgono società di persone o associazioni prevede che il versamento del saldo dovuto con riferimento alla dichiarazione dei redditi e a quella dell’IRAP è effettuato entro il giorno 16 del mese successivo a quello di scadenza del termine di presentazione della dichiarazione.
Il comma 2 introduce di fatto un termine mobile per il versamento del saldo dovuto, con riferimento alla dichiarazione dei redditi e a quella IRAP, da parte delle società semplici ed equiparate, coinvolte in operazioni straordinarie.
La norma, dopo aver affermato che sono rivisti i termini di versamento per le società di persone, al fine di evitare di dover versare le imposte in largo anticipo, rispetto alla presentazione della dichiarazione, evidenzia che la disposizione in esame non comporta effetti in termini di gettito.
Anche nella relazione illustrativa si legge che con la modifica si evita, in tal modo, ai soggetti di dover versare le imposte in un unico termine fisso, con largo anticipo rispetto alla presentazione della dichiarazione.

Il nuovo termine di versamento: entro il 16 del mese successivo alla presentazione della dichiarazione (del periodo ante-operazione) – Dunque, l’art.17 del decreto semplificazioni prevede che i versamenti dovuti dalla società di persone per il periodo d’imposta precedente quello in cui assume efficacia l’operazione straordinaria, scadano il 16 del mese successivo alla presentazione della dichiarazione, non più entro il 16 giugno dell’anno in cui viene presentata la dichiarazione.
Tale modifica razionalizza la normativa, evitando lo slittamento di un anno nel versamento delle imposte, che si ha per tutte le operazioni divenute efficaci entro il mese di marzo.
La novità riguarda tutte le operazioni straordinarie del tipo liquidazione, trasformazione, fusione e scissione, nelle quali la società dante causa è una società di persone.
Ad esempio, nel caso di trasformazione societaria progressiva, cioè da società di persone a società di capitali o viceversa, la determinazione e il termine di versamento delle imposte va effettuata tenendo conto che:
– l’anno solare viene distinto in 2 periodi d’imposta. La data che fa da spartiacque è quella del deposito presso il registro imprese dell’atto di trasformazione;
– vanno applicati i principi generali in materia di versamento degli acconti alla componente patrimoniale.
Se la data di registrazione dell’atto di trasformazione fosse il 10.05.2013, per il periodo ante-trasformazione, dal 01.01.2013 al 09.05.2013, il termine di presentazione della dichiarazione sarebbe il 28.02.14 (entro la fine del 9° mese data trasformazione) e il termine per il versamento del saldo IRAP sarebbe il 16.06.14 (16.6 dell’anno di presentazione della dichiarazione), secondo la regola prevista per le società di persone.
Grazie al Decreto semplificazioni, la nuova data per la presentazione della dichiarazione rimarrebbe il 28.02.14 (entro la fine del 9° mese data trasformazione), ma il termine di versamento del saldo Irap sarebbe il 16.03.14 (16 del mese successivo alla presentazione della dichiarazione).

Autore: Redazione Fiscal Focus

Società in perdita sistematica: occhio agli acconti!

13/11/2014

L’articolo 18 del Decreto sulle semplificazioni ha introdotto un’importante previsione, secondo la quale potranno considerarsi in perdita sistematica soltanto le società che nei cinque periodi d’imposta precedenti hanno riportato una perdita fiscale oppure in quattro esercizi una perdita fiscale e in uno il reddito imponibile sia stato inferiore al reddito minimo.

In considerazione di quanto appena esposto, pertanto, una società potrà considerarsi in perdita sistematica per l’anno 2014 soltanto se ha riportato una perdita fiscale negli esercizi 2009, 2010, 2011, 2012 e 2013 (o un reddito inferiore a quello minimo in uno degli esercizi e una perdita fiscale negli altri).

Orbene, immaginiamo il caso di una società che era in perdita sistematica nell’anno 2013, per aver registrato una perdita fiscale sia nell’anno 2010 che nel 2011 e 2012.
La stessa società, però, nel 2009 aveva riportato un risultato positivo.
Immaginiamo altresì che, sempre la stessa società, abbia chiuso anche l’esercizio 2013 con una perdita fiscale.
Ebbene, nonostante il perdurare della perdita la società non potrà essere considerata in perdita sistematica nell’anno 2014, pertanto non potranno essere nuovamente applicate tutte le penalizzazioni previste dalla disciplina in oggetto.

Gli effetti sugli acconti
In considerazione delle novità introdotte dal Legislatore dovrà essere attentamente valutata l’opportunità di un ricalcolo degli acconti secondo il metodo previsionale, escludendo quindi tutte le penalizzazioni che la disciplina in tema di perdite sistematiche ha comportato.

Soprattutto per i soggetti Ires, utilizzando il metodo previsionale si dovrà calcolare l’imposta dovuta tenendo presente che:

– potranno essere utilizzate le perdite degli esercizi precedenti (mentre, nel 2013, essendo la società in perdita sistematica, era precluso l’utilizzo delle perdite);

– non dovrà essere calcolata l’imposta applicando la maggiorazione dell’aliquota pari al 10,5% (la quale, come noto, ha portato l’aliquota dal 27,5% al 38%).

L’imposta calcolata con il metodo previsionale non dovrà pertanto tenere in considerazione la maggiorazione Ires applicata, in quanto non più dovuta.
Con riferimento invece alla perdita degli esercizi precedenti, si ricorda che la stessa potrà essere utilizzata solo nel limite dell’80%.

Merita tuttavia di essere ricordato che, qualora la previsione risulti successivamente errata, ad esempio perché la società non supera comunque il test di operatività o perché, più banalmente, il reddito sarà più elevato, la società dovrà sottostare all’irrogazione delle sanzioni previste (che sono comunque ravvedibili).

Autore: Redazione Fiscal Focus

Dichiarazione IVA entro febbraio

13 Novembre 2014

Abrogata la Comunicazione annuale dati IVA

Una delle misure di maggior interesse contenute nel DDL di Stabilità 2015 concerne l’anticipo dei termini di invio della Dichiarazione annuale IVA al 28 febbraio, dunque fuori dal Modello Unico, e la contestuale abrogazione della Comunicazione annuale dati IVA.

Nell’attuale contesto normativo, al fine di rispettare quanto sancito dall’art. 252 della Direttiva 2006/112/UE, che prevede l’obbligo di fornire le informazioni relative alle operazioni attive e passive effettuate dal contribuente entro due mesi dalla fine del periodo d’imposta, per calcolare le risorse che competono all’UE, il contribuente ha la possibilità:
– di presentare la Dichiarazione IVA in forma unificata dal 01.05 ed entro il 30.09, con l’obbligo di presentare la Comunicazione annuale dati IVA entro il 28.02 del periodo d’imposta successivo a quello cui la comunicazione si riferisce;
– di presentare la Dichiarazione IVA in forma autonoma, cioè sganciata dal Modello Unico, dal 1° febbraio ed entro il 30 settembre del periodo d’imposta successivo a quello cui la dichiarazione si riferisce; se la dichiarazione IVA in forma autonoma viene presentata entro il 28.02 si è esentati dalla presentazione della Comunicazione annuale dati IVA; viceversa, se la dichiarazione IVA in forma autonoma viene presentata dopo il 28.02 si è comunque obbligati alla presentazione della comunicazione annuale dati IVA.

La possibilità di presentare la Dichiarazione Iva in forma autonoma entro il 28 febbraio dell’anno successivo al periodo d’imposta cui si riferisce sussiste sia per i contribuenti che presentano un credito d’imposta (D.L. n. 78/2009), sia per i contribuenti con saldo IVA annuale a debito (Circolare 25 gennaio 2011, n. 1).

In pratica, la normativa attualmente in vigore già consente alla gran parte dei contribuenti (facoltà) di non presentare la Comunicazione annuale dati IVA, presentando la Dichiarazione annuale in forma autonoma entro il 28.02 così ottenendo anche gli altri vantaggi connessi a tale scelta (anticipo termini rimborso IVA, anticipare il momento di utilizzo dei crediti IVA di importo superiore ad € 5.000,00 e fino a 15.000,00 euro, eliminare i rischi di sanzioni per errata/mancata compilazione della Comunicazione annuale dati IVA).

Quella che fino a ora è nella generalità dei casi una facoltà, potrà diventare un obbligo a partire dal periodo d’imposta 2015 (Dichiarazione IVA 2016). Di conseguenza, i soggetti obbligati dovranno presentare obbligatoriamente la Dichiarazione IVA entro il 28 Febbraio successivo al periodo d’imposta cui si riferisce. Contestualmente, viene abrogato l’obbligo di presentare la Comunicazione annuale dati IVA.

Volendo analizzare gli effetti della proposta di legge, non si può non evidenziare che tale misura di per sé non apporta elementi di vantaggio per i contribuenti. Di contro si genera l’effetto indesiderato di dover anticipare obbligatoriamente i termini di versamento dell’eventuale IVA a debito al 16 marzo dell’anno di presentazione della Dichiarazione IVA.

Autore: Redazione Fiscal Focus

Pos: l’introduzione di penalità per chi è inadempiente

10 Novembre 2014
Ancora novità per i pagamenti attraverso il Pos. Questa volta però si parla di sanzioni e interdizioni per gli inadempienti.

L’obbligo di dotarsi del Pos nasce dall’articolo 15, comma 4 e 5 del decreto sviluppo-bis del 2012 (D.L. 179), il quale prevede che «i soggetti che effettuano l’attività di vendita di prodotti e di prestazione di servizi, anche professionali, sono tenuti ad accettare anche pagamenti effettuati attraverso carte di debito. Sono in ogni caso fatte salve le disposizioni del decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231».

A riaprire la questione sui pagamenti mediante carte di debito è stato il sottosegretario al Ministero dell’economia, Enrico Zanetti, che rispondendo a una domanda di Giovanni Paglia, ha spiegato lo stato delle misure adottate, al fronte degli impegni che il governo si è assunto (con la risoluzione 8-00070, approvata il 29 luglio) in merito all’abbattimento dei costi fissi del Pos e sull’ulteriore proroga di 12 mesi per le transazioni gratuite presso le pompe di benzina e i tabaccai.
Zanetti fa riferimento ai lavori del tavolo sulla diffusione delle transazioni con carte di pagamento, presso il Mise, con Banca d’Italia e Ministero dell’economia.

I lavori in atto porteranno, secondo il sottosegretario, alla realizzazione di un monitoraggio degli effetti sul mercato sia in termini di volumi sia di prezzi e valuteranno “la possibile introduzione di sanzioni o interdizioni in caso di inadempienza”. La cui mancanza è stata interpretata come un “tacito permesso” a non adempiere.

Attualmente installare il Pos ha un costo fisso che va dai 25 ai 180 euro l’anno, legato all’installazione dell’apparecchio, senza contare il costo variabile per ogni singola transazione. Per tale motivo, il sottosegretario ha annunciato che è «allo studio un’ipotesi di proposta normativa agevolativa che potrebbe essere strutturata attraverso il meccanismo del credito di imposta (a regime)». È da tenere in considerazione comunque che la misura di defiscalizzazione dovrà avere una copertura finanziaria pari all’intensità dell’agevolazione.

Per quanto attiene i pagamenti con carta di credito per i carburanti, non vi sarà un periodo ulteriore di gratuità delle commissioni alla pompa di benzina.
D’altra parte, l’azzeramento introdotto con la Legge 183/2011 (articolo 34, comma 7) è stato poi cancellato dal D.L. 201/2011 con decorrenza dalla data di pubblicazione del D.M. 51/2014.
Non si parla, invece, dei tabaccai, che nella vendita di valori bollati hanno un aggio così basso che spesso è inferiore al costo della commissione per l’uso del Pos.

Autore: Redazione Fiscal Focus

Riciclaggio: la mancata segnalazione è reato?

29 Ottobre 2014
Se un professionista non effettua la segnalazione delle operazioni sospette ai sensi dell’art. 41 de D.Lgs. 231/2007, può essere condannato per il reato di riciclaggio? Si potrebbe argomentare che con l’omissione della segnalazione il professionista abbia accettato il rischio che venisse compiuta un’operazione illecita?Per poter giungere a una risposta deve in primo luogo essere ricordato che nel nostro ordinamento penale sono puniti anche i reati omissivi, in quanto, come stabilisce l’art. 40 c.p., “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. Il reato di riciclaggio, così come è stato ribadito da ultimo dalla Corte di Cassazione con la sentenza n.43881 del 22.10.2014, “è a forma libera e potenzialmente a consumazione prolungata, attuabile anche con modalità frammentarie e progressive”. Possiamo quindi tranquillamente affermare che, anche in caso di condotta omissiva, è integrato il reato di riciclaggio: in altre parole, è indifferente, per il legislatore, come si pulisca il denaro sporco, essendo sufficiente il realizzarsi del risultato offensivo.Passiamo quindi all’elemento soggettivo del fatto tipico. La costante giurisprudenza ha ritenuto che ricorra il reato di riciclaggio anche nel caso in cui si configuri il mero dolo eventuale. Pertanto, non è necessario che il soggetto agisca con l’obiettivo di realizzare il fatto tipico (dolo intenzionale), ma è sufficiente che il soggetto abbia agito rappresentandosi la verificazione dell’evento come solamente probabile o possibile (appunto, il dolo eventuale). Il dolo nel reato di riciclaggio In primo luogo è necessario ricordare che il riciclaggio di denaro, essendo un delitto, è punibile solo se commesso con dolo. Così come chiarisce l’art. 43 c.p. è quindi necessario che “l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione o omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione o omissione”. Non ricorre invece il reato di riciclaggio nel caso in cui il soggetto abbia agito con colpa, ovvero quando l’agente, pur prevedendo l’evento non lo ha voluto, agendo con negligenza, imprudenza, imperizia o con inosservanza delle leggi, regolamenti, ordini e discipline. Pertanto, limitarsi a non effettuare la segnalazione delle operazioni sospette, significa agire con inosservanza delle leggi, senza però volere l’evento dannoso o pericoloso: si può quindi parlare soltanto di colpa. È inoltre da rilevare come la giurisprudenza abbia ormai chiarito che l’elemento soggettivo, nel reato di riciclaggio, è integrato dal dolo generico. È quindi sufficiente che sia riscontrata la volontà di ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa del denaro. Non è invece necessario perseguire scopi di profitto o di lucro (Cassazione, sentenze n. 546/2011, 6350/2007, 16980/2008) Affinchè si configuri il reato di riciclaggio è inoltre sufficiente il dolo eventuale (Cassazione, sentenza n.43881 del 22.10.2014). Non è quindi necessario che la sostituzione e il trasferimento dei beni e delle altre utilità sia obiettivo consapevole del comportamento, ma è sufficiente che il soggetto abbia agito rappresentandosi la verificazione dell’evento come probabile o possibile. Questa interpretazione amplia notevolmente i rischi di incriminazione, soprattutto in capo ai professionisti, che spesso si trovano ad essere parte di un ingranaggio da terzi designato. La posizione della Guardia di Finanza La Guardia di Finanza, nella sua circolare 83607 del 19 marzo 2012 ha espressamente chiarito che “la descritta condotta può essere realizzata anche nella forma omissiva, ad esempio, quando il titolare di un’attività finanziaria, ben consapevole della condotta criminis e dell’origine illecita delle somme da trasferire, non impedisca scientemente un’operazione in itinere che aveva l’obbligo giuridico di impedire, attraverso la procedura dell’obbligo di sospensione dell’operazione imposta dal decreto 231/2007”. La giurisprudenza Con riferimento a quanto prospettato, non può che tornare alla mente la sentenza delle Corte d’Appello di Milano del 9 maggio 2011, sulla quale vi è stato un ampio dibattito e che ha suscitato non poche perplessità. Con la sentenza in oggetto si ritenevano colpevoli di riciclaggio il direttore generale della banca e il direttore della filiale presso la quale erano stati accesi dei conti correnti di alcune procedure fallimentari. La curatrice si era infatti appropriata di diversi milioni di euro prelevati dai conti correnti in questione. Il direttore di filiale è stato condannato per riciclaggio perché “aveva collaborato direttamente alle attività dei B., in particolare fungendo costantemente da consulente di B.C. che si recava in filiale per le operazioni sui conti del gruppo familiare; il direttore di filiale assisteva personalmente il B. e dava disposizioni agli impiegati per effettuare le operazioni secondo le citate modalità, ovvero con falsa indicazione che si trattava di operazioni per contanti, rassicurando gli sportellisti sulla sostanziale regolarità”. Tuttavia, anche il direttore generale è stato condannato per riciclaggio in quanto si è ritenuto che “omettendo di agire, pure a fronte di evidenti anomalie, l’imputato ha dimostrato di accettare il rischio che il cliente utilizzasse la banca per ripulire i proventi illecii, consentendogli di operare senza ostacoli”. La sentenza è stata poi annullata dalla Corte di Cassazione, ma per il semplice motivo che “le specifiche disposizioni regolamentari della Banca d’Italia e la procedura interna della CrediEuronord, dati incontestabilmente risultanti dagli atti non valutati, escludevano un obbligo di intervento diretto del C. in assenza di comunicazioni di operazioni sospette. È quindi erroneo ritenere che, anche senza comunicazione delle movimentazioni anomale, vi fosse una posizione di garanzia dalla cui violazione derivi responsabilità ex articolo 40 cod. pen.”. In considerazione di tali precisazioni, “non residuano elementi che dimostrino la conoscenza del C. delle operazioni anomale e la omissione da parte sua delle segnalazioni obbligatorie”. Obbligo di segnalazione e astensione Cosa fare, dunque, quando i professionisti sanno, sospettano o hanno motivi ragionevoli per sospettare che siano in corso o che siano state compiute o tentate operazioni di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo? In primo luogo è necessario inviare una segnalazione alla UIF ai sensi dell’art. 41 del D.Lgs. 231/2007. Inoltre, i soggetti tenuti all’obbligo di segnalazione devono astenersi dal compiere le operazioni finché non hanno effettuato la segnalazione, tranne che detta astensione non sia possibile, tenuto conto della normale operatività, o possa ostacolare le indagini.
Autore: Redazione Fiscal Focus

Niente contributi per tre anni se il datore di lavoro assume nel 2015 un lavoratore a tempo indeterminato

29 Ottobre 2014

Assunzioni. Sale lo sgravio INPS

Premessa – Nuovo tetto massimo per le assunzioni a tempo indeterminato. Infatti, secondo l’ultima versione del testo del Ddl Stabilità 2015 – che sta proseguendo il suo iter legislativo per la conversione in legge – il Governo ha incremento da 6.200 euro a 8.060 euro lo sgravio totale dei contributi INPS fruibili. Ciò porterebbe (sempre secondo fonti governative) a 790mila nuove assunzioni a tempo indeterminato nel 2015, alle quali, aggiungendo anche i 210 mila contratti che potranno usufruire di una riduzione parziale degli oneri sociali, i rapporti di lavoro agevolabili salgono a un milione.

Sgravio contributivo –
 Si rammenta che il Ddl Stabilità 2015 garantisce la totale decontribuzione in favore dei datori di lavoro i quali intendono assumere, nel periodo 1° “gennaio-dicembre 2015”, nuovi lavoratori a tempo indeterminato. L’importo massimo agevolabile, come precisato in premessa, sale a 8.060 euro e ha durata triennale (36 mesi). Ad essere agevolate sono esclusivamente le assunzioni dei datori di lavoro del settore privato, con esclusione del settore agricolo. L’agevolazione, inoltre, non varrà per: i lavoratori domestici e per gli apprendisti. Restano altresì escluse le assunzioni di lavoratori che nei sei mesi precedenti sono stati occupati con contratto a tempo indeterminato “presso qualsiasi datore di lavoro” e non spetta alle persone che abbiano già avuto benefici su assunzioni a tempo indeterminato. Ne consegue che il lavoratore assunto deve essere alla ricerca di prima occupazione o disoccupato da almeno sei mesi o con contratti di lavoro diversi da quello standard a tempo indeterminato. Inoltre, l’agevolazione non è accessibile per i lavoratori che fanno parte di imprese collegate o controllate; inoltre, il nuovo bonus non è cumulabile con altri sgravi o riduzioni contributive.

La stima – Dato che l’incentivo è pieno per retribuzioni imponibili ai fini previdenziali fino a circa 26 mila euro su base annua, in base ai dati INPS sulle classi di retribuzione sono stimati in circa 790mila i contratti per cui i datori di lavoro potranno beneficiare dello sgravio totale dei contributi previdenziali a loro carico essendo questi inferiori al limite massimo di 8.060 euro annui e in circa 210 mila i contratti per cui i datori di lavoro potranno beneficiare dello sgravio entro il tetto di 8.060 euro. Il Governo, dunque, stima un notevole effetto incentivante verso il tempo indeterminato, con riduzione delle altre più costose tipologie di assunzione a contribuzione piena, come il tempo determinato.

Autore: Redazione Fiscal Focus

Professionisti, nessuna presunzione per i prelevamenti bancari

La Corte Costituzionale, con la recente sentenza n. 228/2014, ha dichiarato illegittima la presunzione in materia di indagini finanziarie che consente al Fisco di desumere l’esistenza di compensi “non dichiarati” sulla base dei “prelevamenti effettuati “dai lavoratori autonomi dai propri conto correnti. La problematica riguarda diverse disposizioni normative, in particolare, l’art. 32, co. 1, n. 2), del D.P.R. n. 600/1973, secondo cui i dati e gli elementi attinenti ai rapporti ed alle operazioni acquisiti e rilevati – a norma, rispettivamente, del n. 7) e dell’art. 33, co. 2 e 3, del predetto Decreto – oppure ottenuti ai sensi dell’art. 18, co. 3, lett. b), del D.Lgs. n. 504/1995, sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 38 e ss. del D.P.R. n. 600/1973, se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto ai fini della determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine. Alle stesse condizioni sono altresì posti come ricavi o compensi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempre che non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni. Entrando nel merito, è possibile desumere che la previgente formulazione dell’art. 32 del D.P.R. n. 600/1973 – in vigore prima della modifica operata dalla Legge n. 311/2004 – prevedeva nella propria formulazione il solo termine “ricavi”, per cui la presunzione si riteneva riguardasse solo ed esclusivamente i prelevamenti dei titolari di reddito d’impresa. Successivamente, il predetto mutamento normativo ha aggiunto il riferimento ai “compensi” e, pertanto, si è giunti alla conclusione che detta presunzione fosse applicabile anche ai lavoratori autonomi. La Cassazione ha sempre sostenuto che la presunzione relativa ai prelevamenti trovasse applicazione nei confronti dei lavoratori autonomi anche prima delle modifica operata dalla Legge n. 311/2004, in quanto il legislatore con il termine “ricavi” ha inteso ricomprendere non solo i redditi d’impresa, ma anche i “compensi” professionali e di lavoratore autonomo (Cass. nn. 19692/2011 e 802/2011). Per la Corte Costituzionale, il lavoratore autonomo, pur avendo alcune caratteristiche comuni all’imprenditore, conserva delle specificità che fanno ritenere arbitraria l’omogeneità di trattamento prevista dalla disposizione secondo cui anche per il lavoratore autonomo, come per l’imprenditore, in seguito ad un prelevamento dal conto corrente è logico attendersi un costo da cui a sua volta si origina un ricavo. Se, poi, il costo non è transitato dalla contabilità, si deve presumere che anche il corrispondente ricavo non sia stato annotato. Inoltre, secondo la Corte, “la non ragionevolezza della presunzione” è avvalorata anche dal fatto che i prelevamenti si inseriscono in un sistema di contabilità semplificata che presenta una promiscuità tra entrate e spese professionali e personali. Sulla irragionevolezza della presunzione, si è più volte espressa anche l’Agenzia delle Entrate che, relativamente ai prelevamenti bancari di minore entità dei professionisti, aveva invitato gli Uffici ad esonerare tali soggetti dal fornire una precisa prova in proposito, attesa la riconducibilità di tali operazioni alle normali esigenze personali e familiari (CC.MM. nn. 28/E/2006 e 32/E/2006). Infine, anche la recente C.M. n. 25/E/2014 ha ribadito che “le presunzioni fissate dalla citata norma a salvaguardia della pretesa erariale devono essere applicate dall’Ufficio secondo logiche di proporzione e ragionevolezza”.

Auto, dal 3 novembre obbligo aggiornamento carta di circolazione

Auto, dal 3 novembre obbligo aggiornamento carta di circolazione

Dal 3 novembre scatterà l’obbligo di richiedere l’aggiornamento della carta di circolazione in caso di variazione delle generalità o della denominazione dell’intestatario dei veicolo, o anche in caso di temporanea disponibilità del veicolo in favore di un soggetto terzo per un periodo superiore a 30 giorni

A partire dal prossimo 3 novembre 2014, ci saranno importanti novità per i veicoli, i motoveicoli ed i rimorchi. Infatti, in caso di variazione delle generalità della persona fisica intestataria della carta di circolazione relativa a veicoli, motoveicoli e rimorchi, o della denominazione dell’ente intestatario della carta di circolazione, o nel caso in cui si verifichi la temporanea disponibilità, per un periodo superiore a 30 giorni, di un veicolo intestato a soggetto terzo (ad esempio, a titolo di comodato, affidamento in custodia giudiziale o locazione senza conducente), il soggetto interessato (l’avente causa) deve richiedere all’ufficio del Dipartimento per i trasporti l’aggiornamento della carta di circolazione. In caso di mancato rispetto dell’obbligo, scatterà una sanzione che parte da un minimo di € 705.

La novità era stata inserita nel Codice della Strada dalla Legge n. 120/2010 ed il regolamento era stato adottato con D.P.R. n. 198/2012, ma la nuova procedura diverrà operativa solo dal 3 novembre 2014 quando saranno attivate le necessarie procedure informatiche, come reso noto dalla Motorizzazione civile con Circolare n. 15513 del 10 luglio 2014.

Decorrenza

Come chiarito dalla Circolare della Motorizzazione civile, l’obbligo di richiesta di aggiornamento riguarda gli atti posti in essere a decorrere dal 3 novembre 2014 e solo da quel giorno scatteranno le sanzioni nei confronti dell’avente causa (comodatario, affidatario in custodia giudiziale, locatario o sublocatario in caso di locazione senza conducente, erede in caso di veicolo ancora intestato al de cuius nelle more dell’acquisizione della titolarità del bene da parte dell’erede stesso, utilizzatore con contratto di rent to buy). Sono da ritenere comunque legittimamente assolti gli obblighi qualora la comunicazione sia effettuata dal dante causa (l’intestatario) su delega scritta dell’avente causa.
Il soggetto che, invece, in forza di un atto posto in essere prima del 3 novembre 2014, usa già un veicolo non proprio o ha un’intestazione non aggiornata non dovrà far nulla; se lo vorrà, comunque, potrà effettuare lo stesso la registrazione, ma si tratta appunto di una facoltà e non di un obbligo sanzionabile, come lo sarebbe invece per gli atti posti in essere dopo il 3 novembre.

Veicoli non interessati

La Circolare della Motorizzazione Civile ha precisato che, per ora, le procedure informatiche predisposte non si applicano ai veicoli la cui disponibilità sia assoggetta al possesso di titoli autorizzativi, cioè quei veicoli in disponibilità di soggetti che effettuano attività di autotrasporto sulla base di: iscrizione al REN (Registro elettronico nazionale) o all’albo degli autotrasportatori; licenza per il trasporto di cose in conto proprio; autorizzazione al trasporto di presone mediante autobus in uso proprio o mediante autovetture in uso di terzi (es.: taxi o noleggio con conducente). Per tali tipi di veicoli, infatti, verranno emanate apposite disposizioni.

Registrazione di un’intera flotta aziendale

Se le registrazioni riguardano “n” veicoli per un medesimo soggetto (ad esempio, registrazione di un’intera flotta aziendale), si può fare un’istanza cumulativa con un unico modello TT2120 (pagando, quindi, una sola imposta di bollo per l’istanza – € 16,00). Tuttavia, le carte di circolazione vanno aggiornate una per una, in quanto l’aggiornamento della denominazione di un veicolo non produce automaticamente anche l’aggiornamento, nell’Archivio nazionale dei veicoli, della denominazione dello stesso intestatario relativamente ai restanti veicoli. Si pagheranno, pertanto, “n” diritti di motorizzazione (“n” x € 9,00) quante sono le carte di circolazione da aggiornare. La Circolare precisa che, ai fini della regolarità della circolazione del veicolo, non è necessario che l’attestazione di avvenuta annotazione dell’Archivio Nazionale dei Veicoli (rilasciata dall’ufficio a fronte dell’istanza) venga tenuta a bordo del veicolo aziendale. Lo stesso vale anche in caso di comodato di veicoli aziendali.

Fonte: www.fiscoetasse.com

 

Responsabilità degli amministratori verso i soci

 

24 Ottobre 2014

Cassazione Civile, sentenza pubblicata il 23 ottobre 2014

Le scelte degli amministratori che arrecano danno al patrimonio della società e solo di riflesso al socio non danno diritto a quest’ultimo di pretendere un risarcimento. È quanto emerge dalla sentenza 23 ottobre 2014 n. 22573 della Corte di Cassazione – Prima Sezione Civile.

Il socio di una SRL ha convenuto in giudizio gli amministratori della stessa, lamentando di aver subito un danno dalla risoluzione di alcuni contratti di vendita vantaggiosi per la società.

L’adito Tribunale ha dichiarato inammissibile la domanda, qualificata ai sensi dell’articolo 2395 c.c., rilevando che nella specie il danno si era prodotto nella sfera patrimoniale dell’attore solo di riflesso, atteso che pregiudicata in via immediata dalla condotta dei convenuti era la stessa società.

La Corte d’appello di Torino ha confermato il verdetto del Tribunale. Di qui il ricorso del socio ai supremi giudici.

Ebbene, in un passaggio chiave delle motivazioni della sentenza pubblicata ieri, la Prima Sezione Civile del Palazzaccio ha sostenuto che l’azione individuale del socio nei confronti dell’amministratore di una società di capitali non è esperibile quando il danno lamentato costituisca solo il riflesso del pregiudizio al patrimonio sociale, giacché l’articolo 2395 cod. civ. esige che il singolo socio sia stato danneggiato “direttamente” dagli atti colposi o dolosi dell’amministratore, mentre il diritto alla conservazione del patrimonio sociale appartiene unicamente alla società.

La mancata percezione degli utili e la diminuzione di valore della quota di partecipazione, ad avviso degli Ermellini, non costituiscono danno diretto del singolo socio, poiché gli utili fanno parte del patrimonio sociale fino all’eventuale delibera assembleare di distribuzione e la quota di partecipazione è un bene distinto dal patrimonio sociale, la cui diminuzione di valore è conseguenza soltanto indiretta ed eventuale della condotta dell’amministratore (cfr. Cass., Sez. III, n. 4548/12).

Ne è derivato il rigetto del ricorso del socio, con condanna del medesimo alle spese processuali liquidate dalla Suprema Corte in complessivi euro 20mila, di cui 200 euro per esborsi oltre accessori di legge e spese forfettarie.

Autore: Redazione Fiscal Focus

IMU: l’80% dei comuni ha ritoccato le regole

22 Ottobre 2014

Le aliquote IMU 2014 per il saldo di dicembre sono quelle incluse nelle nuove delibere

Ieri, 21 ottobre 2014, scadeva il termine entro il quale i Comuni avrebbero dovuto inviare al dipartimento Finanze le delibere con le nuove aliquote IMU, per evitare che i contribuenti versassero il saldo di dicembre, come è accaduto per l’acconto, con le aliquote 2013 e con i criteri dell’anno scorso.
L’adempimento non interessava tutti i Comuni, ma solo quelli che avevano l’intenzione di modificare le aliquote e le regole 2013.
Sono circa 6.767 le delibere presenti sul sito www.finanze.it, dunque circa l’80% dei Comuni ha inviato i propri atti al Ministero.
Il clima di incertezza e il timore dei tagli, che stanno per essere attuati con la nuova Legge di stabilità 2015 (es. il congelamento di un fondo di bilancio, in caso di mancata riscossione dei tributi, per l’importo non introitato), possono aver indotto le giunte a ritoccare al rialzo le aliquote o a eliminare alcune detrazioni o agevolazioni specifiche.

La diversa deducibilità fa abbassare le aliquote IMU e alzare quelle TASI – Il fatto, poi, che da un punto di vista fiscale la TASI sugli immobili strumentali sia deducibile al 100%, ai fini Ires/Irpef, per la ditta individuale o per il lavoratore autonomo, mentre ai fini IMU il tributo 2014 sia deducibile al 20% (al 30% l’IMU 2013), molti Comuni, per venire incontro alle esigenze delle attività produttive site nel territorio, hanno alzato le aliquote TASI e calmierato quelle IMU.
Una scelta che non intaccava il gettito dell’ente locale, ma solo quello erariale.
Ed è per questo che spunta nella Legge di stabilità 2015 o in decreti successivi, l’ipotesi di uniformare le regole di deducibilità dei due tributi, che probabilmente verranno fusi in un’unica imposta già dal 2015.

Si ricorda, come precisato nella Circolare n. 10/E del14.05.2014, che il concetto di immobili strumentali è quello mutuato dall’art. 43, co. 2 del Tuir, cioè si considerano tali, gli immobili utilizzati”esclusivamente” per l’esercizio dell’arte o della professione, o dell’impresa commerciale da parte del possessore; sono, quindi, esclusi gli immobili ad uso promiscuo, come quelli adibiti promiscuamente all’esercizio dell’arte o della professione o all’impresa commerciale e all’uso personale o familiare del contribuente.
L’Imu per tali immobili è deducibile nella misura del 20% ai fini Ires/Irpef, ma indeducibile ai fini Irap.
Per i soggetti titolari di reddito d’impresa, ai sensi dell’art. 99, co. 1, secondo periodo del Tuir, le imposte sono deducibili nell’esercizio in cui avviene il pagamento.
Dunque, l’Imu di competenza 2013 è deducibile, a condizione che venga pagata dal contribuente. Se essa viene versata tardivamente nel 2014, diventerà un costo deducibile nel periodo d’imposta 2014 mediante una variazione in diminuzione in Unico.
Per i lavoratori autonomi si applica il principio di cassa (art.54, co. 1 del Tuir) e, dunque, l’Imu diventa un costo deducibile nell’anno in cui avviene il pagamento, anche se tardivo e comunque a partire dall’Imu 2013.

Autore: Redazione Fiscal Focus

Fisco pesante se l’inquilino è moroso

AFFITTI

Fisco pesante se l’inquilino è moroso
DOMANDA
Nel 2013 si è conclusa la procedura per convalida di sfratto per morosità nei confronti del mio inquilino che dal 2012, dopo tre anni dalla stipula del contratto, non ha più pagato i canoni di locazione relativi a due distinte unità immobiliari, di cui sono usufruttuario: un negozio e un piccolo appartamento contiguo. La procedura si è conclusa prima del termine utile per la presentazione di Unico 2013 e quindi non ho dichiarato i canoni relativi al 2012, ma limitatamente all’unità abitativa, poiché mi è stato detto che sono esclusi da questa regola i canoni delle locazioni a uso diverso dall’abitazione. È corretto il comportamento che ho tenuto?P.C. – LODI
RISPOSTA
In molti casi la morosità degli inquilini si riflette sul proprietario, costretto a pagare le imposte anche su canoni che non ha incassato: non si tratta, però, di una regola assoluta, dal momento che la legge prevede qualche (limitata) eccezione. Ma andiamo con ordine. In generale i redditi delle persone fisiche – esclusi quelli conseguiti in regime di impresa – vanno dichiarati e assoggettati a tassazione soltanto nell’anno in cui avviene la loro materiale percezione: è il cosiddetto criterio di cassa. Questo principio incontra una deroga per i redditi fondiari – e in particolare dei fabbricati – che scontano il prelievo d’imposta semplicemente al verificarsi della loro maturazione. L’articolo 26 del Tuir, infatti, presuppone il mero possesso dell’immobile (a titolo di proprietà, usufrutto e di ogni altro diritto reale), sia esso tenuto a disposizione che ceduto in locazione. Perciò, nell’ipotesi in cui l’inquilino non paghi i canoni, il locatore dovrà comunque farli concorrere alla formazione del proprio reddito complessivo. Considerati gli effetti penalizzanti che derivano da questa norma, è previsto un temperamento – anche se articolato e circoscritto – che esclude l’imponibilità del reddito immobiliare non percepito (in questa eventualità, il possessore dell’unità immobiliare sarà, comunque, tenuto ad assoggettare a tassazione la rendita catastale), in presenza delle seguenti condizioni: 1) che la locazione sia a uso abitativo; 2) che il mancato pagamento dei canoni derivi dalla morosità del conduttore; 3) che quest’ultima venga accertata giudizialmente a seguito del procedimento per convalida di sfratto per morosità. Queste condizioni devono essere concomitanti e, pertanto, se la morosità nel pagamento riguarda un immobile commerciale (negozio, ufficio, capannone), il locatore dovrà pagare l’Irpef, anche se ha esperito il procedimento di convalida di sfratto, poiché la norma in questo caso non gli attribuisce alcun effetto fiscale (circolare 150/1999 del ministero delle Finanze). Questa “discriminazione” ha generato un inevitabile contrasto interpretativo, nell’ambito del quale, secondo un orientamento più garantista, anche la morosità che si manifesta nella locazione di immobili non abitativi autorizza a non dichiarare i canoni non percepiti, secondo il codificato principio di capacità contributiva (Cassazione, sentenza n. 6911/2003). È importante mettere in evidenza che questa composita tematica è stata comunque riequilibrata dalla Corte costituzionale (sentenza n. 362 del 26 luglio 2000), attraverso la formulazione di principi perequativi di portata generale, che come tali trovano applicazione indistintamente, sia ai rapporti locativi di natura abitativa che commerciale. Nel dettaglio, la Consulta ha statuito che: • il riferimento al canone di locazione potrà operare nel tempo solo fin quando risulterà in vita un contratto di locazione e quindi sarà dovuto un canone in senso tecnico; • tornerà in vigore la regola generale, e quindi si potrà evitare la tassazione, quando la locazione sia cessata per scadenza del termine (articolo 1596 del Codice civile) e il locatore pretenda la restituzione dell’immobile essendo in mora il locatario per il relativo obbligo, oppure quando si sia verificata una qualsiasi causa di risoluzione del contratto, ivi comprese quelle di inadempimento in presenza di clausola risolutiva espressa e di dichiarazione di avvalersi della clausola (articolo 1456 del Codice civile), o di risoluzione a seguito di diffida ad adempiere (articolo 1454 del Codice civile). Pertanto, la presenza nel contratto di una clausola risolutiva dello stesso e la dichiarazione di avvalersene al ricorrere dei sopravvenuti presupposti (quale, appunto, la morosità del locatario) sono da ritenere elementi sufficienti a legittimare il locatore a non dichiarare i canoni non riscossi (Cassazione sentenza n. 12905/2007), senza necessariamente attendere un eventuale pronuncia giudiziale: l’attivazione di quest’ultima sarà, invece, richiesta per far accertare anche la morosità di anni pregressi, finalizzata all’utilizzo del credito d’imposta. Attenzione: queste regole di favore si estendono a qualsiasi tipologia di immobile compreso nel rapporto di locazione, dal momento che il giudice delle leggi non fa alcuna distinzione fra unità abitativa e commerciale. È importante ricordare che qualora venga esercitata la facoltà di risolvere anticipatamente il rapporto contrattuale rispetto alla a scadenza naturale, occorre segnalare la circostanza all’anagrafe tributaria. L’esecuzione di questo obbligo persegue nel contempo anche lo scopo di dare coerenza e giustificazione alla più ridotta consistenza reddituale del locatore in conseguenza del mancato incasso dei canoni (si veda l’Esperto risponde del 10 febbraio 2014). Tutte queste considerazioni valgono a prescindere dal regime impositivo prescelto dal contribuente, ordinario o della cedolare secca. Il principio di tassazione in base alla maturazione del reddito fondario dei fabbricati trova infine un’ulteriore attenuazione nell’articolo 36, Tuir, che consente al contribuente di evitare il prelievo Irpef sul reddito derivante dall’immobile qualora quest’ultimo venga sottoposto a lavori di restauro, risanamento conservativo e ristrutturazione edilizia. Gli interventi devono essere supportati dai titoli abilitativi richiesti dalla normativa edilizia, e l’esimente impositiva sarà conseguibile per tutto il periodo di validità del provvedimento amministrativo. Questa esimente opera sia per la rendita catastale che per i canoni di locazione: infatti, anche se ci fosse un rapporto locativo, sarebbe sospeso o risolto in anticipo per consentire i lavori. Anche in questo caso, questa eccezione vale sia in relazione agli immobili a destinazione abitativa che commerciale. © RIPRODUZIONE RISERVATA IL CASO RISOLTO ESENTE L’INDENNITÀ DI OCCUPAZIONE Qualora il conduttore venga messo in mora, non in relazione all’omesso pagamento dei canoni, ma al mancato rilascio dell’immobile alla scadenza del contratto, gli importi da lui pagati successivamente a questo termine potranno essere riqualificati dal proprietario come indennità occupazione locali. Questi, infatti, se introitati come indennizzo per un danno (emergente) e non sostitutivi o integrativi di reddito (lucro cessante) assumeranno natura e funzione risarcitoria e come tale perderanno rilevanza reddituale (articolo 6, Tuir). A questo scopo tuttavia occorre che sia stata manifestata un’inequivocabile volontà da parte del proprietario, contraria alla prosecuzione della locazione (circolare 43/E/2007; circolare 50/E/2002 paragrafo 2; risoluzioni ministeriali n. 27/1997 e 560661/1991). © RIPRODUZIONE RISERVATA Le tappe (vedi grafico) NORME E CIRCOLARI Occupazione abusiva dell’immobile Il reddito fondiario (rappresentato dalla rendita catastale) va in ogni caso dichiarato dal possessore anche qualora l’immobile venga temporaneamente sottratto alla sua disponibilità. È l’ipotesi che può verificarsi, ad esempio, nelle situazioni di occupazione abusiva dell’immobile, fermo restando il diritto al risarcimento del danno derivante dalla perdita della disponibilità del fabbricato. • Circolare ministeriale 150/1999 Morosità del conduttore: Corte costituzionale e conferme recenti della Cassazione La Corte di cassazione, nel ribadire il principio formulato dalla Corte costituzionale, ha fornito un’interpretazione estensiva dell’articolo 26 del Tuir, in base alla quale i canoni di locazione (a uso abitativo e diverso) non percepiti per morosità del locatario sono tassabili fino a che non sia intervenuta la risoluzione, anche non giudiziale, del contratto. • Articolo 26 del Tuir. • Corte costituzionale, sentenza 362/2000 • Cassazione, sentenze n. 11158/2013, 22588/2012 e 651/2012 Effetti della risoluzione del contratto La risoluzione consensuale del contratto di locazione, in assenza di una manifestazione inequivoca di volontà delle parti che vada in tal senso non può produrre effetti retroattivi. • Cassazione, sentenze n. 24444/2005 e 12905/2007 Immobili patrimonio dell’impresa Le disposizioni sopra riportate assumono rilevanza anche ai fini della determinazione del reddito d’impresa per gli immobili patrimonio (diversi, cioè, dai beni strumentali, e da quelli alla cui produzione o scambio è diretta l’attività d’impresa) che concorrono a formare il reddito come redditi fondiari. • Articolo 90 del Tuir • Circolare ministeriale 150/1999
Quesito con risposta a cura di Alfredo Calvano | 24/02/2014 – Il sole 24 ore

Agenti e rappresentanti: come si calcola l’indennità di scioglimento del contratto

Cambiano i meccanismi di calcolo dell’indennità per lo scioglimento del contratto per gli agenti e rappresentanti di commercio del settore industriale. Il recente rinnovo dell’accordo economico collettivo contiene diverse integrazioni e modifiche al testo precedentemente in vigore.

Le associazioni rappresentative delle aziende preponenti (Confindustria, Confcooperative) e degli agenti di commercio (Fnaarc, Fiarc, Filcams-Cgil, Fisascat-Cisl, Uiltucs-Uil, Ugl, Usarci) hanno recentemente sottoscritto il nuovo accordo economico collettivo per la disciplina dei rapporti di agenzia e rappresentanza commerciale nel settore industriale e della cooperazione. L’accordo, datato 30 luglio 2014 ed entrato in vigore il 1° settembre 2014, sostituisce il precedente a.e.c. stipulato il 20 marzo 2002.
Sotto il profilo economico la novità più rilevante è senz’altro costituita dal nuovo criterio di calcolo dell’indennità meritocratica, che le parti hanno introdotto con l’intento di adeguare più compiutamente la regolamentazione contrattuale della materia alle disposizioni dell’ordinamento comunitario e della nostra disciplina civilistica in caso di recesso dal contratto di agenzia.
L’art. 1751 del codice civile fa obbligo al preponente, con norma inderogabile a svantaggio dell’agente, di corrispondere alla cessazione del rapporto un’indennità se ricorrono le seguenti condizioni: che l’agente abbia procurato nuovi clienti al preponente o abbia sensibilmente incrementato il fatturato con i clienti esistenti e il preponente ne riceva ancora sostanziali vantaggi; che il pagamento dell’indennità risponda a criteri di equità “tenuto conto di tutte le circostanze del caso” (in particolare delle provvigioni che l’agente perde).

Indennità per lo scioglimento del contratto: indennità meritocratica

Secondo l’accordo economico collettivo l’indennità per lo scioglimento del contratto è ora costituita da tre componenti:
· l’indennità di risoluzione del rapporto (FIRR), accantonata dall’azienda presso l’Enasarco
· l’indennità suppletiva di clientela (ISC)
· l’indennità meritocratica di nuova istituzione.
Le prime due componenti sono rapportate alle provvigioni maturate nel corso del rapporto e sono dunque riconosciute all’agente anche in assenza di un incremento della clientela e/o del giro di affari, la nuova componente è invece collegata all’incremento della clientela e/o del giro di affari (art. 10). Si noti che l’indennità di risoluzione del rapporto spetta, al pari del t.f.r., anche in caso di disdetta da parte dell’agente o di risoluzione per giusta causa ad opera del preponente, mentre le altre due indennità non competono in caso di recesso (non per giusta causa) dell’agente.
Premesso che gli importi erogati a titolo di FIRR e di ISC sono dovuti anche se superano il limite massimo dell’indennità prevista dal citato art. 1751 (corrispondente alla media annuale delle provvigioni pagate all’agente negli ultimi 5 anni), la determinazione dell’indennità meritocratica richiede una serie di passaggi:
1. Raffronto tra le provvigioni del periodo iniziale e quelle del periodo finale del contratto di agenzia. Se le provvigioni pagate nel periodo finale sono inferiori l’indennità non è dovuta.
2. Se le provvigioni pagate nel periodo finale del rapporto sono superiori si procede ad una stima, secondo parametri convenzionali, dei vantaggi che il preponente continuerà a ricavare dall’attività dell’agente nell’arco di un periodo (c.d. “periodo di prognosi”) che varia da un minimo di 2,25 anni ad un massimo di 3 anni, in base alla tipologia di agente e alla durata complessiva del rapporto. Ai fini del calcolo viene preso in considerazione un determinato tasso di migrazione della clientela (variabile dal 15% al 37%).
3. La stima dei vantaggi futuri viene ridotta di una quota forfettaria variabile da un minimo del 10% per i contratti di durata fino a 5 anni ad un massimo del 20% per i contratti di durata superiore a 10 anni. Al netto della riduzione il risultato non può comunque eccedere il valore massimo previsto dell’art. 1751 cod. civ. (un anno di provvigioni).
4. Per ottenere il valore finale dell’entità dell’indennità meritocratica si detrae dal risultato di cui sopra la somma dell’indennità di risoluzione del rapporto e dell’indennità suppletiva di clientela.
In definitiva: se l’indennità meritocratica risultante dopo i conteggi è inferiore alla somma di FIRR + ISC, vengono corrisposte all’agente solo queste ultime; se l’indennità meritocratica risulta superiore alla somma di FIRR + ISC, le sostituisce. L’accordo contiene una norma transitoria che mantiene le regole previgenti per i contratti di agenzia in corso di esecuzione al 30 luglio 2014 e stipulati prima del 1° gennaio 2014. A partire dal 1° gennaio 2016 i nuovi criteri si applicheranno anche ai predetti contratti di agenzia a condizione che rimangano in vigore almeno fino al 31 marzo 2017.

Altre novità

Tra le altre novità entrate in vigore dal 1° settembre 2014 si segnalano:
– variazioni di zona: il limite massimo delle variazioni considerate di media entità viene ridotto dal 20% al 15% delle provvigioni di competenza dell’agente nell’anno precedente; per le variazioni di media entità è richiesto l’assenso dell’agente (in precedenza l’assenso era richiesto solo per le variazioni di rilevante entità); viene ampliato da 12 a 18 mesi (24 mesi per gli agenti monomandatari) l’arco temporale nel quale l’insieme di più variazioni di lieve entità può considerarsi come un’unica variazione; è prevista la possibilità di derogare in via consensuale al preavviso richiesto dall’accordo collettivo per procedere ad una variazione di rilevante entità (art. 2);
– campionario: viene espressamente stabilito che il valore del campionario può essere addebitato all’agente solo in caso di mancata o parziale restituzione e in caso di danneggiamento non dovuto alla normale usura (art. 3);
– contratto a tempo determinato: nel caso di successivi rinnovi di rapporti a termine con lo stesso contenuto, il periodo di prova può essere pattuito solo nel primo rapporto (art. 4);
– proposta d’ordine: il termine entro il quale il preponente può rifiutare la proposta d’ordine è ridotto da 60 a 30 giorni (art. 5);
– provvigioni: il diritto alla provvigione sussiste con riferimento agli affari conclusi durante il rapporto ed a quelli andati a buon fine nei 6 mesi successivi allo scioglimento del contratto; nel testo previgente tale periodo successivo era di 4 mesi (art. 6);
– gravidanza e puerperio: il periodo di sospensione del rapporto viene prolungato da 8 a 12 mesi; nel caso (in precedenza non regolato) di interruzione della gravidanza il rapporto resta sospeso fino ad un massimo di 5 mesi (art. 13).
L’accordo prevede infine la costituzione di commissioni di studio per la realizzazione di un ente bilaterale degli agenti e rappresentanti (art. 20) e di una forma di assistenza sanitaria integrativa (art. 21).
Fonte: IPSOA

TASI: la responsabilità è dell’inquilino

9 Giugno 2014

La TASI è dovuta da chiunque possieda detenga qualsiasi titolo le unità immobiliari su cui grava il tributo.

Dunque:
– il proprietario
– l’usufruttuario
– il locatario
 (nei contratti di locazione finanziaria)
– il concessionario 
delle aree demaniali
– l’ex coniuge assegnatario dell’immobile coniugale
– il coniuge superstite

Ma anche in qualità di occupante:
– il comodatario
– il locatario nei contratti locazione

PROPRIETA’ O POSSESSO DI UN IMMOBILE DA PARTE DI SOGGETTI DIVERSI DAGLI OCCUPANTI- In caso di pluralità di proprietari (o possessori) o di occupanti( detentori), essi sono tenuti in solido al versamentodell’unica obbligazione tributaria (comma 671 L. 147/2013).
Proprietario e occupante hanno un’obbligazione tributaria, invece, autonoma. Dunque, il proprietario non risponde solidalmente del tributo (10% – 30%) eventualmente non versato dall’inquilino.
Nel caso in cui la proprietà o il possesso di un immobile sia detenuta da soggetto diverso dall’occupante, va effettuata una ripartizione del carico impositivo tra possessore e detentore:
– l’occupante versa la TASI nella misura stabilita dal comune nel regolamento (che varia dal 10% al 30%), mentre il residuo lo versa il proprietario o detentore del diritto reale.
– se nella delibera non viene specificato nulla sulla ripartizione, l’occupante versa il 10% del tributo e il 90% il detentore del diritto reale – (FAQ Ministero del 04.06.2014).
Tale onere riguarda tutti i detentori, non solo gli inquilini dei fabbricati a destinazione abitativa (locazioni) ma anche i fabbricati utilizzati nell’ambito di attività imprenditoriali o professionali come negozi, laboratori, uffici)

DELIBERA SENZA RIPARTIZIONE DELLA TASI – Qualora il comune nella delibera non abbia indicato la percentuale per il riparto dell’imposta tra proprietario e inquilino, quest’ultimo deve versare il tributo nella misura minima del 10 per cento, in quanto si ritiene che una diversa percentuale di imposizione a carico del detentore debba essere espressamente deliberata dal comune stesso.

ANCHE IN CEDOLARE SECCA LE REGOLE NON CAMBIANO – Anche se il locatore ha optato per il regime della cedolare secca, dovrà applicare le regole di ripartizione appena viste. Il regime della cedolare secca è alternativo a quello di tassazione Irpef e non ha alcun rilievo sui presupposti impositivi TASI.

LOCAZIONI DI BREVE PERIODO – In caso di detenzione temporanea di durata non superiore a 6 mesi nel corso dell’anno solare (es.le case vacanza), la TASI è dovuta solo dal possessore dei locali e delle aree a titolo di proprietà, usufrutto, uso, abitazione e quindi l’utilizzatore non dovrà versare nulla. (L. 147/2013, co. 673).
Lo stesso vale anche per tutte le detenzioni – es. locazione cessata nel corso del 2014 entro 6 mesi dall’inizio del periodo d’imposta, per il 2014 la TASI è dovuta interamente dal possessore.
Stessa cosa per un contratto sottoscritto nel 2014 iniziato entro 6 mesi dalla fine del periodo d’imposta.

MANCATO PAGAMENTO TASI DA PARTE DELL’INQUILINO – Nell’ipotesi di mancato pagamento da parte dell’inquilino della propria quota della Tasi, il proprietario non è responsabile. Si ricorda infatti, come ognuno è titolare di un’autonoma obbligazione tributaria. La responsabilità solidale esiste solo tra possessori o detentori e non tra possessore e detentore.

Autore: Redazione Fiscal Focus

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Cessazione attività. Chiarimenti sulla compatibilità degli indennizzi

3 Ottobre 2014

L’indennizzo è compatibile con l’assegno sociale solo se inferiore a 5.818,93 euro per l’anno 2014

Premessa – Stop all’indennizzo per cessazione dell’attività commerciale in caso di raggiungimento dei nuovi requisiti previdenziali previsti dalla manovra “Salva-Italia” (L. n. 214/2011). Infatti, la prestazione economica è incompatibile con la pensione di vecchiaia se al momento della domanda di indennizzo sono stati maturati i requisiti previsti dalla legge. Diverso è il discorso per i soggetti già titolari o che abbiano maturato i requisiti per la pensione di anzianità e quella anticipata nella gestione commercianti. Per questi ultimi, infatti, l’indennizzo spetta fino al mese di compimento delle età pensionabili previste dalla riforma Monti-Fornero. Inoltre, l’indennizzo in commento è compatibile anche con l’assegno sociale, purché il beneficiario non possegga redditi superiori, per l’anno 2014, a 5.818,93 euro. A chiarirlo è l’INPS con il messaggio n. 7384/2014, a seguito di numerose richieste di chiarimento dalle singole Sedi territoriali in merito alla compatibilità dell’indennizzo con la titolarità di una pensione di vecchiaia, di anzianità, anticipata ed assegno sociale.

Indennità per cessazione attività –
 L’art. 1 del D.Lgs. n. 207/1996 ha previsto “un indennizzo per la cessazione definitiva dell’attività commerciale ai soggetti che esercitano, in qualità di titolari o coadiutori, attività commerciale al minuto in sede fissa, anche abbinata ad attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, ovvero che esercitano attività commerciale su aree pubbliche”. Affinché gli interessati possano godere dell’indennizzo in questione, è necessario che questi ultimi siano in possesso dei seguenti requisiti:
• più di 62 anni di età, se uomini, ovvero più di 57 anni di età, se donne;
• iscrizione, al momento della cessazione dell’attività, per almeno 5 anni, in qualità di titolari o coadiutori, nella Gestione dei contributi e delle prestazioni previdenziali degli esercenti attività commerciali presso l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS).
Ai soggetti idonei spetta un assegno mensile, sino alla data di decorrenza della pensione di vecchiaia, pari all’importo del trattamento minimo di pensione (come detto, 501,38 euro nel 2014). Al riguardo, è bene tener presente che l’erogazione dell’indennizzo spetta fino a tutto il mese in cui i beneficiari compiono le età pensionabili previste per la vecchiaia dalla riforma Fornero.Legge di Stabilità 2014 – Ora, la Legge di Stabilità 2014 ha prorogato tale indennizzo anche ai soggetti che maturino i requisiti pensionistici nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2009 e il 31 dicembre 2016. Per cui, possono presentare domanda di indennizzo tutti coloro che maturano i requisiti per l’indennizzo di cui all’articolo 2 del Decreto Legislativo n. 207 del 1996 nel periodo “1° gennaio 2012 – 31 dicembre 2016”. Rientrano nell’agevolazione anche coloro che, pur avendo maturato i requisiti per il diritto alla predetta prestazione ai sensi del previgente articolo 19-ter nel periodo “1° gennaio 2009 – 31 dicembre 2011”, non avevano presentato la relativa domanda o gli era stata rigettata perché presentata oltre il termine ultimo del 31 gennaio 2012.

Pensione di vecchiaia – Ciò detto, l’INPS precisa che l’indennizzo non può essere concesso ai soggetti che, al momento della domanda di indennizzo, hanno compiuto le nuove età pensionabili previste dalla Legge n. 214 del 2011. Quanto alla scadenza degli indennizzi, essa è prevista al compimento, da parte del titolare, dell’età pensionabile adeguata agli incrementi della speranza di vita che, per le lavoratrici iscritte alle gestioni speciali dei lavoratori autonomi coincide a 64 anni e 9 mesi, per il periodo “1° gennaio 2014-31 dicembre 2015”; mentre per i lavoratori scade a 66 anni e 3 mesi, sempre per lo stesso periodo. Non è pertanto possibile estendere il godimento del trattamento al compimento dei 70 anni. L’indennizzo, tra l’altro, non è concedibile anche ai soggetti già titolari di pensione di vecchiaia nella Gestione commercianti o che sono in possesso dei requisiti, anche previgenti la legge di riforma n. 214 del 2011, per il conseguimento della pensione di vecchiaia nella gestione medesima.

Pensione di anzianità e anticipata –
 Differente è il discorso per i soggetti che siano già titolari o abbiano maturato i requisiti per la pensione di anzianità ovvero per la pensione anticipata nella gestione commercianti. In questi casi, l’indennizzo può essere concesso in presenza dei requisiti e delle condizioni richieste dalla legge. In ogni caso, il trattamento spetterà fino al mese di compimento delle età pensionabili previste dalla manovra “Salva-Italia”. A tal proposito, l’Istituto previdenziale tiene a precisare che durante il periodo di godimento dell’indennizzo non sarà accreditata in favore del beneficiario alcuna ulteriore contribuzione figurativa nell’ambito della Gestione dei contributi e delle prestazioni previdenziali degli esercenti attività commerciali. Nell’ipotesi in cui il diritto alla pensione anticipata venga perfezionato, in corso di godimento dell’indennizzo, anche utilizzando i contributi figurativi maturati durante la percezione dello stesso, il beneficiario potrà accedere alla suddetta prestazione pensionistica e continuare a usufruire dell’indennizzo fino al mese di compimento dell’età pensionabile.

Assegno sociale –
 Infine, per quanto concerne l’assegno sociale l’indennizzo è compatibile con il trattamento previdenziale solo se quest’ultimo non supera il limite reddituale annuale, per l’anno 2014 è pari a 5.818,93 euro.

Autore: Redazione Fiscal Focus

Detrazione ristrutturazioni con certificazione al coniuge incapiente

3 Ottobre 2014

Bonus ristrutturazioni al marito per le spese cointestate

Premessa – In presenza di lavori su parti comuni condominiali, per le quali l’amministratore ha certificato al condomino (proprietario al 100% che non possiede reddito) la relativa quota detraibile, il coniuge convivente può detrarre le spese di ristrutturazione pagate con l’emissione di assegni su un c/c cointestato, ancorché la delibera assembleare e la tabella millesimale di ripartizione delle spese siano intestate al solo proprietario. Sul punto l’Agenzia specifica che nel suddetto documento rilasciato dall’amministratore il coniuge convivente deve indicare i propri estremi anagrafici e l’attestazione dell’effettivo sostenimento delle spese.

Parti comuni condominio – Dal 2012 l’agevolazione 36%-50% è normativamente ammessa per gli interventi effettuati su tutte le parti comuni degli edifici residenziali, individuate dall’articolo 1117, C.c. Nel caso di interventi su parti comuni condominiali, ogni singolo condomino può beneficiare dell’agevolazione proporzionalmente alle quote millesimali di proprietà. In tale ipotesi gli adempimenti necessari per beneficiare della detrazione del 36%-50% sono generalmente eseguiti dall’amministratore di condominio.

Certificazione – 
Con Circolare 1 giugno 1999, n. 122, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che in luogo di tutta la documentazione “ordinaria”, l’amministratore può provvedere a consegnare a ogni condomino una certificazione, attestante: l’espletamento di tutti gli adempimenti previsti ai fini della detrazione del 36%-50% e l’importo per il quale il contribuente può beneficiare dell’agevolazione (ovvero la propria quota millesimale).

Certificazione coniuge incapiente – Un caso particolare si può presentare qualora l’amministratore abbia certificato regolarmente al condomino la quota detraibile delle spese affrontate su parti comuni ma contribuente proprietario al 100 per cento però non possiede reddito. In tale ipotesi nasce il dubbio se il coniuge convivente possa detrarre le spese di ristrutturazione anche se le rate condominiali sono state saldate con l’emissione di assegni su un conto corrente cointestato ai due coniugi.

Circolare 121/1998 – Al riguardo la circolare n. 121/E dell’11 maggio 1998, al punto 2.1, ha precisato che la detrazione prevista per gli interventi di ristrutturazione edilizia compete anche al familiare convivente del possessore o detentore dell’immobile sul quale sono effettuati i lavori.

Circolare 122/1999 –
 Con successiva circolare n. 122/E del 1999 è stato chiarito, ai fini della detrazione relativa alle spese sulle parti condominiali, che nel caso in cui la certificazione dell’Amministratore del condominio indichi i dati relativi a un solo condomino, mentre le spese per quel determinato alloggio sono state sostenute da altri soggetti, il contribuente, qualora ricorrano tutte le altre condizioni che comportano il riconoscimento del diritto alla detrazione, può fruirne a condizione che attesti sul documento comprovante il pagamento della quota relativa alla spese in questione il suo effettivo sostenimento e la percentuale di ripartizione.

Delibera – Con Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate n. 149646 del 2 novembre 2011, è stato disposto che, nell’ipotesi di lavori su parti comuni di edifici residenziali, ogni contribuente è tenuto ad esibire la delibera assembleare e la tabella millesimale di ripartizione delle spese. Il citato Provvedimento non stabilisce le modalità con le quali i singoli condomini devono versare le somme al condominio.

Detrazione –
 Alla luce di tale situazione, l’Agenzia delle Entrate nella circolare 21.5.2014, n. 11/E ha ritenuto che nel caso in esame il contribuente, coniuge convivente del proprietario dell’immobile, possa portare in detrazione nella propria dichiarazione dei redditi le spese sostenute relative ai lavori condominiali pagate con assegno bancario tratto sul conto corrente cointestato ai due coniugi. Sul documento rilasciato dall’amministratore comprovante il pagamento della quota millesimale relativa alla spese in questione il coniuge convivente dovrà indicare i propri estremi anagrafici e l’attestazione dell’effettivo sostenimento delle spese.

Autore: Redazione Fiscal Focus

Locazioni già assoggettate a tassazione e locazioni non abitative

3 Ottobre 2014
La normativa dispone che i canoni di locazione immobiliare a uso abitativo concorrono alla determinazione del reddito imponibile del locatore indipendentemente dalla loro percezione.
Nel caso specifico di canoni di locazione non incassati, ma che comunque sono già stati assoggettati a tassazione negli anni precedenti, si potrà determinare un credito d’imposta generato dalla rideterminazione delle imposte versate nei dieci anni precedenti.

Ciò significa che si potrà procedere al calcolo con riferimento alle dichiarazioni presentate negli anni precedenti, ma non oltre quelle relative ai redditi 2004, sempreché per ciascuna delle annualità risulti accertata la morosità del conduttore nell’ambito del procedimento di convalida dello sfratto conclusosi nel 2013. Nel frangente viene concesso al locatore un credito d’imposta pari alle maggiori imposte pagate in conseguenza dei canoni non riscossi ma comunque dichiarati.
Per la definizione del credito, il contribuente deve rideterminare le imposte sul reddito (IRPEF o IRES, a seconda della tipologia del contribuente) del periodo interessato e poi sottrarla dall’imposta a suo tempo versata.

Al fine del ricalcolo dell’imposta dovuta, si dovrà sottrarre dal reddito complessivo il canone non percepito, aggiungere il valore della rendita catastale in modo da ottenere il “nuovo” reddito imponibile sul quale applicare le aliquote vigenti nel periodo interessato dal ricalcolo.
Il credito d’imposta sarà riconosciuto solo se alla formazione del reddito complessivo della precedente dichiarazione ha concorso il canone e non la rendita catastale (perché superiore al canone ridotto della percentuale forfetaria).

Riscossione di canoni già oggetto di credito d’imposta – Per le imprese individuali ed esercenti arti e professioni, nonché per le persone fisiche non titolari di partiva IVA, nel caso in cui i canoni di locazione che hanno permesso di usufruire del credito d’imposta siano successivamente riscossi, tali contribuenti sono obbligati a dichiarare il maggiore imponibile determinato tra i redditi soggetti a tassazione separata nel relativo quadro del modello dichiarativo (salvo opzione per la tassazione ordinaria). Tra le più importanti vi è a “clausola risolutiva espressa” (ex art. 1456 del c.c.) e la risoluzione a seguito di diffida ad adempiere ex art. 1454 del codice civile.

Immobili non abitativi – Sia la non tassabilità dei canoni non riscossi sia il credito d’imposta che si genera a seguito della conclusione della convalida di sfratto per morosità del conduttore si applicano solo sugli immobili che vengono concessi in locazione ma sono a uso abitativo.
Per le locazioni di immobili non abitativi il legislatore tributario non ha previsto una disposizione analoga. Ne consegue che:
– il relativo canone, ancorché non percepito, va comunque dichiarato, nella misura in cui risulta dal contratto di locazione, fino a quando non intervenga una causa di risoluzione del contratto medesimo;
– le imposte assolte sui canoni dichiarati e non riscossi non potranno essere recuperate.

Si fa presente, infine, che la Circolare 11/E dell’Agenzia delle Entrate richiama la sentenza n. 362 del 2000 della Corte Costituzionale, con cui quest’ultima ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 23 (ora articolo 26) del TUIR in quanto il sistema di tassazione che presiede allelocazioni non abitative non risulta gravoso e irragionevole dal momento che il locatore può utilizzare tutti gli strumenti previsti per provocare la risoluzione del contratto di locazione (dalla clausola risolutiva espressa ex art. 1456 del codice civile, alla risoluzione a seguito di diffida ad adempiere ex art. 1454, alla azione di convalida di sfratto ex artt. 657 e ss del c.p.c.) e far “riespandere” la regola generale di attribuzione del reddito fondiario basata sulla rendita catastale.

Autore: Redazione Fiscal Focus

Omessa IVA. Assoluzione per insussistenza del fatto

5 Settembre 2014

Cassazione Penale, sentenza depositata il 4 settembre 2014

Con la sentenza n. 36859/14, pubblicata ieri, la Terza Sezione Penale della Cassazione ha mandato assolto un imprenditore che, in relazione ai periodi d’imposta 2006 e 2007, non ha versato l’IVA per importi inferiori alla soglia di euro 103.291,38.

Incostituzionalità dell’art. 10-ter. L’imprenditore in questione – condannato dalla Corte d’appello alla pena della reclusione (7 mesi) – ha beneficiato degli effetti derivanti dalla sentenza 8 aprile 2014 n. 80con cui la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 10-ter del D.Lgs. n. 74/2000 nella parte in cui, con riferimento ai fatti commessi sino al 17 settembre 2011, punisce l’omesso versamento dell’IVA dovuta in base alla relativa dichiarazione annuale, per importi non superiori a euro 103.291,38, per ciascun periodo d’imposta.

Il fatto non sussiste. Preso atto del fatto che le contestazioni mosse al ricorrente hanno riguardato omessi versamenti IVA d’importo inferiore a quello indicato dai giudici costituzionali – nel caso di specie l’imposta dovuta era pari a euro 53.962 per l’anno 2006 e a euro 52.297 per l’anno 2007 – gli Ermellini hanno annullato la condanna “per insussistenza del fatto”, formula da preferire a quella “perché il fatto non costituisce reato”. Quest’ultima, infatti, va adottata “là dove il fatto non corrisponda a una fattispecie incriminatrice in ragione o di un’assenza di previsione normativa o di una successiva abrogazione della norma o di un’intervenuta dichiarazione (integrale e non parziale, come nel caso di specie) d’incostituzionalità, permanendo in tutti tali casi la possibile rilevanza del fatto in sede civile; la formula ‘il fatto non sussiste’, che esclude ogni possibile rilevanza anche in sede diversa da quella penale, va invece adottata quando difetti un elemento costitutivo del reato, come nel caso in esame” – si legge in sentenza.

Osservazioni. In virtù della sentenza n. 80/14 della Corte Costituzionale, per i fatti commessi entro il 17 settembre 2011, non può più essere punito con la pena della reclusione da sei mesi a due anni chi non abbia versato l’IVA dovuta in base alla dichiarazione annuale entro il termine per il versamento dell’acconto inerente al periodo d’imposta successivo per un ammontare inferiore a 103.291,38 euro per ciascun periodo d’imposta.

Questa importante conseguenza interessa i contribuenti che hanno omesso il versamento, per un importo superiore a 50mila euro ma inferiore a 103.291,38 euro, relativamente ai periodi di imposta: 2005 (scadenza 27 dicembre 2006); 2006 (scadenza 27 dicembre 2007); 2007 (scadenza 27 dicembre 2008); 2008 (scadenza 27 dicembre 2009); 2009 (scadenza 27 dicembre 2010) – ferma restando l’eventuale intervenuta prescrizione.

Autore: Redazione Fiscal Focus

L’F24 Elide semplifica la vita

5 Settembre 2014

Locazione: risoluzione anticipata del contratto

L’F24 Elide semplifica la vita! Come sprecare il proprio tempo, facendosi identificare ai fini antiriciclaggio, per versare 67 euro al fisco!

Già dal 1° febbraio 2014 è possibile versare con il modello “F24 Versamenti con elementi identificativi” (F24 Elide) l’imposta di registro, i tributi speciali e compensi, l’imposta di bollo, le sanzioni e gli interessi, relativi alla registrazione dei contratti di locazione e affitto di beni immobili. Un provvedimento del direttore dell’Agenzia delle Entrate del 3 gennaio 2014 ha previsto questa nuova possibilità stabilendo, inoltre, un periodo di convivenza con il modello F23 finora utilizzato per il versamento. La misura fa parte del pacchetto delle semplificazioni fiscali presentate, con relativa tabella di marcia, nella conferenza stampa dello scorso 3 luglio 2013!!!

Le istruzioni dell’Agenzia circa le modalità di versamento con il modello F24 Elide – Per versare le imposte relative alla registrazione dei contratti di locazione o affitto di beni immobili, i contribuenti che non sono titolari di partita Iva potranno presentare l’F24 Elide sia online, direttamente o tramite intermediari abilitati, sia presso banche, Poste Italiane e agenti della riscossione.
titolari di partita Iva, invece, dovranno versare gli importi con l’F24 Elide esclusivamente online, direttamente o tramite intermediari abilitati.
Così ci dice il provvedimento dell’Agenzia Entrate in materia. La pratica è tuttavia ben diversa dalla teoria. Provate a recarvi in Posta e chiedere il pagamento di un F24 elide. Ebbene rischiate di perdere almeno mezz’ora, perché vi richiedono i dati per l’identificazione e la registrazione nelle loro banche dati, ai fini antiriciclaggio.
Se poi scegliete la via più comoda e dall’ufficio compilate il modello tramite il software dell’Agenzia “F24on-line”, vedrete che non è aggiornato e l’F24 elide ai fini del versamento dell’imposta di registro è ancora una chimera.
Dunque, un consiglio, recatevi in banca e sperate in un funzionario accondiscendente e paziente.
Per evitare inutili perdite di tempo, vi forniamo le indicazioni pratiche da seguire:

Il versamento dell’imposta per risoluzione anticipata del contratto – L’articolo 17 del TUR, D.P.R. n. 131/1986 disciplina le “Cessioni, risoluzioni e proroghe anche tacite dei contratti di locazione e di affitto di beni immobili”.
In particolare, il comma 1 del citato articolo, prevede che l’imposta dovuta per la registrazione dei contratti di locazione e affitto di beni immobili esistenti nel territorio dello Stato, nonché per le cessioni, risoluzioni e proroghe anche tacite degli stessi, è liquidata dalle parti contraenti e assolta entro 30 giorni mediante versamento del relativo importo presso uno dei soggetti incaricati della riscossione.
Con provv. del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del 3 gennaio 2014 sono state estese, in attuazione dell’articolo 2 del decreto del MEF 8 novembre 2011, le modalità di versamento con F24, di cui all’art. 17, D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, alle somme dovute in relazione alla registrazione dei contratti di locazione e affitto di beni immobili esistenti nel territorio dello Stato, prima effettuate tramite F23.

Per consentire il versamento delle predette somme è stato istituito con Risoluzione n. 14/E del 24 gennaio 2014 il codice tributo da utilizzare esclusivamente nel modello “F24 Versamenti con elementi identificativi” per il versamento dell’imposta di Registro per risoluzioni del contratto, cioè il “1503”.
Inoltre, per consentire la corretta identificazione nel modello “F24 Versamenti con elementi identificativi” del soggetto quale “controparte” del contratto, è stato istituito il codice identificativo “63” denominato “Controparte”.
In sostanza, i campi del modello di pagamento “F24Versamenti con elementi identificativi” vanno così compilati:
• nella sezione “CONTRIBUENTE”, è indicato il “codice fiscale” e “dati anagrafici”, della parte che effettua il versamento (locatore o locatario, dato che c’è responsabilità solidale nel versamento);
• nel campo “Codice fiscale del coobbligato, erede, genitore, tutore o curatore fallimentare”, il codice fiscale del soggetto, quale controparte (oppure di una delle controparti – nel nostro caso del locatario o locatore), unitamente al codice identificativo “63”, da indicare nel campo “codice identificativo”;
• nella sezione “ERARIO ED ALTRO”, è indicato: nei campi “codice ufficio” e “codice atto”, nessun valore;
• nel campo “tipo”, la lettera “F” (identificativo registro);
• nel campo “elementi identificativi”, il codice identificativo del contratto (composto da 17 caratteri e reperibile nella copia del modello di richiesta di registrazione del contratto restituito dall’ufficio o, per i contratti registrati per via telematica, nella ricevuta di registrazione).
Tale codice è formato nel modo seguente:
• nei caratteri da 1 a 3 è inserito il codice Ufficio presso il quale è stato registrato il contratto;
• nei caratteri da 4 a 5 sono inserite le ultime due cifre dell’anno di registrazione;
• nei caratteri da 6 a 7 è inserita la serie di registrazione – in caso di numero inferiore di caratteri, completare gli spazi, a partire da sinistra, con gli zeri (“0”);
• nei caratteri da 8 a 13 è inserito il numero di registrazione – in caso di numero inferiore di caratteri, completare gli spazi, a partire da sinistra, con gli zeri (“0”);
• nei caratteri da 14 a 16 è inserito, se presente, il sottonumero di registrazione oppure “000”;
• nel campo “codice”, il codice tributo “1503”;
• nel campo “anno di riferimento”, l’anno di scadenza dell’adempimento, nel formato “AAAA”;
• nel campo “importi a debito versati ”, gli importi da versare.

F23 ancora utilizzabili – Non disperate, per non disorientare i contribuenti e per consentire agli intermediari di adeguare le procedure, dall’1 febbraio 2014 al 31 dicembre 2014 i contribuenti potranno ancora utilizzare alternativamente l’F23 o l’F24 Elide. Dal 1° gennaio 2015, invece, i versamenti dovranno essere eseguiti esclusivamente con il modello F24 Elide.

Autore: Redazione Fiscal Focus

Circolazione del contante: limiti anche nei rapporti tra familiari

4 Settembre 2014
Molto spesso, parlando dei limiti alla circolazione al contante, si finisce per circoscrivere il suo ambito di applicazione al mondo delle transazioni commerciali. Soltanto gli imprenditori, pertanto, sembrerebbero tenuti a ricorrere a strumenti di pagamento tracciabili nel caso in cui la transazione dovesse superare la soglia limite dei 999,99 euro.

Ebbene, va ricordato come, in realtà, il limite non abbia alcuna restrizione nella sua applicazione, estendendosi pertanto ai rapporti tra privati senza alcuna forma di esonero.

Qualora un soggetto decidesse di prestare 1.000 euro al suo amico, pertanto, sarebbe comunque tenuto a farlo con un assegno bancario non trasferibile o con qualsiasi altro strumento di pagamento tracciabile.

Deve inoltre ricordarsi che, se la transazione supera il limite fissato dal Legislatore, i soggetti sanzionabili sono sia colui che ha pagato sia colui che ha riscosso gli importi: il dipendente che riceve la sua intera retribuzione, pari a 1.500 euro, interamente in contanti, sarà pertanto ugualmente sanzionabile, così come lo può essere l’imprenditore.

Una transazione in contanti è ammessa invece se nel trasferimento interviene una banca, un istituto di moneta elettronica o Poste Italiane. Ben potrà, quindi, il pensionato, decidere di ritirare la sua intera pensione, pari a 1.200 euro, dal suo conto corrente bancario, per poi provvedere agli acquisti mensili, singolarmente di importo inferiore alla soglia.

Tuttavia, è sempre bene ricordare che frequenti versamenti o prelevamenti in contanti, soprattutto se di importo rilevante, potrebbero rappresentare un campanello d’allarme per la banca, la quale potrebbe ritenere necessaria la segnalazione dell’operazione sospetta.

I trasferimenti di denaro tra familiari

Anche tra i componenti dello stesso nucleo familiare sono applicabili i limiti previsti in tema di circolazione del contante.

Il padre, pertanto, non potrà corrispondere al figlio un importo superiore a 1.000 euro in contanti al fine di poter finanziare le spese che lo stesso dovrà sostenere per gli studi, anche se successivamente il figlio effettuerà singole transazioni di importo inferiore alla soglia limite.

Unica eccezione è rappresentata dal coniuge in regime di comunione legale. In questo caso, infatti, la transazione non può ritenersi effettuata tra soggetti diversi e ben potrà quindi il marito consegnare alla moglie l’importo di 1.500 euro in contanti.

I pagamenti frazionati
Particolare attenzione deve essere poi riservata ai pagamenti frazionati. I singoli versamenti in contanti di importo inferiore al limite facenti parte di un’operazione di importo complessivamente superiore ai 1.000 euro sono infatti consentiti solo laddove il frazionamento sia previsto dalle prassi commerciali o a fronte del contratto sottoscritto tra le parti.

Potrà pertanto accadere che una famiglia decida di pagare la nuova caldaia istallata in rate mensili da 200 euro (preferibilmente mettendo per iscritto l’accordo), così come sarà possibile versare in contanti l’affitto di 300 euro mensili (sebbene il contratto riporti, ovviamente, come canone annuale, l’importo di 3.600 euro).

Con specifico riferimento ai contratti di locazione si ricorda che dal 1°gennaio 2014 è necessario avere una prova documentale delle transazioni per poter fruire dei benefici fiscali (si pensi, in primo luogo, alle detrazioni fiscali previste per gli inquilini). Non sarà tuttavia necessario ricorrere a uno strumento di pagamento tracciabile, in quanto è sufficiente una semplice ricevuta di pagamento (sempre che l’importo sia inferiore ai 999,99 euro).

La possibile soluzione
Anche quando il pagamento in contanti sembra essere l’ultima strada percorribile, vi è sempre una soluzione per poter evitare le sanzioni.

Se, ad esempio, è necessario corrispondere gli importi a un soggetto privo del conto corrente, è sempre possibile ricorrere a un intermediario, al quale potrà essere inoltrato l’ordine di mettere a disposizione del soggetto in questione una prestabilita somma in contanti.
In questo caso, infatti, grazie all’intermediazione della banca, è garantita la tracciabilità e, di conseguenza, nessuna sanzione può essere irrogata.

Autore: Redazione Fiscal Focus

Art-bonus: istruzioni del Fisco

In una circolare l’Agenzia detta le modalità per fruire del credito

Premessa – Il nuovo regime fiscale agevolato, Art-Bonus, prevede per le persone fisiche e giuridiche che effettuano erogazioni liberali in denaro a favore di cultura e spettacolo, un credito di imposta pari al 65 % delle erogazioni fatte tra il 2014 e il 2015 e al 50% di quelle eseguite nel 2016. La circolare 24/E di ieri fa il punto sul bonus, introdotto dal Dl n.83 del 2014, e specifica quali sono le modalità di effettuazione delle liberalità e di utilizzo dell’agevolazione. 
Ambito oggettivo – Danno diritto all’Art-Bonus le erogazioni in denaro destinate a:
– interventi di manutenzione, protezione e restauro di beni culturali pubblici (anche nel caso in cui tali beni siano gestiti da soggetti concessionari o affidatari);
– sostegno degli istituti e dei luoghi della cultura di appartenenza pubblica (musei, biblioteche, archivi, aree e parchi archeologici, complessi monumentali);
– realizzazione di nuove strutture, restauro e potenziamento di quelle esistenti, delle fondazioni lirico-sinfoniche o di enti o istituzioni pubbliche che, senza scopo di lucro, svolgono esclusivamente attività nello spettacolo.

Ambito soggettivo – La misura agevolativa è riconosciuta a tutti i soggetti, indipendentemente dalla natura e dalla forma giuridica, che effettuano le erogazioni liberali a sostegno della cultura previste dal D.L. n. 83/2014.

Misura dell’agevolazione – L’agevolazione fiscale spetta nella misura del 65% delle erogazioni liberali in denaro effettuate in ciascuno dei due periodi d’imposta successivi a quello in corso al 31 dicembre 2013 e del 50% per quelle effettuate nel periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2015.

Limiti – In relazione alla qualifica del soggetto che effettua le liberalità sono previsti diversi limiti massimi di spettanza del credito di imposta nonché modalità di fruizione differenziate. Alle persone fisiche e agli enti che non svolgono attività commerciale, il credito d’imposta è, infatti, riconosciuto nei limiti del 15% del reddito imponibile, mentre ai titolari di reddito d’impresa spetta nel limite del 5 per mille dei ricavi. Tra le persone fisiche vanno ricompresi quei soggetti che non svolgano attività d’impresa, quali, a titolo esemplificativo, i lavoratori dipendenti, i pensionati, i lavoratori autonomi e i titolari di redditi di fabbricati.

Modalità di fruizione – Il credito, che non ha alcuna rilevanza ai fini delle imposte sui redditi e dell’Irap, è ripartito in tre quote annuali di pari importo. Persone fisiche e enti non commerciali possono fruire della prima quota nella dichiarazione dei redditi relativa all’anno in cui hanno effettuato l’erogazione, ai fini del versamento delle imposte sui redditi. Le imprese possono invece utilizzare il credito, nell’ambito dei pagamenti dovuti tramite modello F24, a partire dal primo giorno del periodo d’imposta successivo a quello in cui hanno eseguito le erogazioni.

Credito – L’Art-Bonus, che deve essere indicato nella dichiarazione dei redditi, può essere fruito annualmente senza alcun limite quantitativo, quindi anche per importi superiori al tetto dei 250.000 euro solitamente previsto per i crediti d’imposta agevolativi. Al credito, inoltre, non si applica il limite generale di compensabilità di crediti d’imposta e contributi, pari a 700.000 euro a decorrere dal primo gennaio 2014. Nessun limite all’utilizzo del bonus neanche sul versante temporale, eccetto la ripartizione in 3 anni; la quota annuale non utilizzata può essere portata agli anni successivi se non “sfruttata” per intero. Le persone fisiche e gli enti non commerciali, infatti, possono riportare la quota annuale non utilizzata nelle dichiarazioni degli anni successivi, mentre i titolari di reddito d’impresa possono compensarlo nei periodi d’imposta successivi, secondo le modalità proprie del credito.

Comunicazione– I beneficiari delle erogazioni devono comunicare ogni mese al Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo l’ammontare delle erogazioni ricevute. Sono inoltre tenuti a dare pubblica comunicazione di tale ammontare, oltre che del suo utilizzo, anche attraverso un’apposita sezione nei propri siti web istituzionali.

Autore: Redazione Fiscal Focus

Accertamento. Socio uscente obbligato per la Sas

21 Luglio 2014

Una sentenza della CTR di Trento

Il socio receduto è responsabile in solido e in via di regresso delle obbligazioni tributarie relative alla società in accomandita semplice, anche se non ha ricevuto la notifica dell’accertamento.

È quanto emerge dalla sentenza n. 19/02/14 della Commissione Tributaria Regionale di Trento.

Il contenzioso riguarda un avviso di accertamento notificato nel dicembre 2009 al legale rappresentante di una società in accomandita semplice (già Srl) per contestare presunte maggiori imposte (IRES, IRAP e IVA, oltre sanzioni e interessi) per l’anno 2004. I due soci e la Sas, nel febbraio 2010, hanno presentato istanza di accertamento con adesione. Successivamente, il 100 per cento delle quote sociali è stato ceduto a terzi. Scaduto il termine per impugnare l’avviso, l’Ufficio ha iscritto a ruolo il credito erariale accertato nei confronti della società e dei coobbligati – ossia il nuovo legale rappresentante della Sas e il socio recesso. Ebbene, quest’ultimo ha proposto ricorso contro la cartella esattoriale chiedendone l’annullamento poiché non preceduta dalla notifica nei suoi confronti dell’avviso di accertamento presupposto.

Investita dell’esame del ricorso, la CTP di Trento ha confermato l’operato dell’Ufficio, escludendo l’obbligo per l’Amministrazione finanziaria di notificare l’atto presupposto anche al ricorrente. Di poi il giudizio d’appello, nel corso del quale il contribuente ha sostenuto che, non essendo più socio accomandatario della società, non aveva avuto modo di conoscere l’esito del procedimento promosso con l’istanza di accertamento con adesione; di non aver potuto beneficiare dei vantaggi del pagamento del debito d’imposta nei termini indicati nell’avviso di accertamento o ricorrere contro i vizi di merito dell’accertamento stesso. Lamentava, quindi, di aver subito le conseguenze di un atto divenuto definitivo per scelte imputabili alla società, ma a lui, in quanto coobbligato/solidale, non notificato.

L’Amministrazione Finanziaria ha resistito in giudizio evidenziando la responsabilità illimitata, solidale e di regresso del contribuente per le somme accertate alla società in ragione di quanto previsto dagli articoli 2290 e 2500-sexies del codice civile. La doglianza dell’Ufficio ha colto nel segno.

La CTR osserva che con la trasformazione della società da Srl a Sas, l’appellante – socio accomandatario aveva assunto la responsabilità illimitata anche per le obbligazioni sociali sorte in epoca precedente alla stessa trasformazione. Nella sua qualità di rappresentante legale della Sas poi, gli era stato notificato l’avviso di accertamento in esame. Ne conosceva, dunque, il contenuto e i rilievi contestati dall’Agenzia delle Entrate, avendo egli presentato istanza di accertamento con adesione.

La CTR aggiunge che la cessione delle quote sociali a terzi non è circostanza che fa venire meno la responsabilità illimitata di cui si è detto, salvo che cedenti e cessionari non abbiano stabilito patti per limitare la responsabilità o escludere la solidarietà tra i soci. Il che non è avvenuto nel caso in esame, sicché il contribuente “è responsabile – scrivono i giudici – per tutte le obbligazioni sociali, e perciò anche tributarie, fino al giorno in cui fu stipulato l’atto di cessione delle quote sociali (art. 2290); responsabilità che, ex art. 2269 c.c., si aggiunge a quella del nuovo socio. Sicché la responsabilità diretta del ricorrente consente all’A.F.di non notificare al socio l’avviso di accertamento, in quanto questo, eseguito nei confronti della società, ha effetto anche nei confronti dello stesso socio, benché receduto”.

La CTR, pertanto, respinge l’appello e condanna il contribuente al pagamento delle spese di lite, in favore del Fisco.

Autore: Redazione Fiscal Focus

Controlli e capitale minimo: tra opportunità e rischi

Il diritto societario continua ad essere riformato, con interventi dettati da esigenze contingenti, che, se da un lato comportano dei benefici in capo alle imprese, dall’altro sollevano qualche perplessità.
L’ultimo intervento, in ordine di tempo, è quello del D.L. 91/2014 che ha introdotto diverse novità nella disciplina delle società per azioni, nonché nell’ambito dei controlli nelle società a responsabilità limitata.
Un intervento, questo, che se da un lato ha sollevato qualche polemica, ha indubbiamente il merito di ridurre notevolmente i costi dei controlli in capo alle società, nonché quello di favorire la nascita delle società per azioni.
Ma andiamo con ordine, e analizziamo le principali novità, nonché gli effetti che le stesse potrebbero avere.

La riduzione del capitale minimo – La prima novità introdotta, forse la più rilevante, è quella relativa alla riduzione del capitale minimo previsto per le S.p.a.
Al fine di favorire la diffusione di questa forma societaria, il capitale sociale minimo prima richiesto (pari a 120.000 euro), è stato portato a 50.000 euro.
La normativa italiana si allinea così a quella europea(si pensi che negli altri Paesi il limite minimo è di 25.000 euro), favorendo la nascita di Spa, che, per definizione, sono il modello di riferimento per accedere al mercato dei capitali di rischio e di debito.

Meno controlli nelle Srl – Un intervento che ha sollevato qualche critica riguarda invece l’abrogazione del secondo comma dell’art. 2477 del codice civile: se prima della riforma le Srl che avevano un capitale sociale non inferiore a quello minimo previsto per le Spa dovevano nominare l’organo di controllo, a seguito delle novità introdotte tale disposizione non è più applicabile.
Saranno pertanto obbligate a nominare l’organo di controllo soltanto le Srl che sono tenute alla redazione del bilancio consolidato, che controllano società obbligate alla revisione legale dei conti o che per due esercizi consecutivi hanno superato i limiti previsti per la redazione del bilancio in forma abbreviata.
Se è vero che, da un lato, questo intervento porta con sé un abbattimento dei costi in capo alle piccole e medie imprese, dall’altro lato, come è stato già sottolineato da alcuni Autori, è vero anche le novità introdotte rappresentano un duro colpo ai livelli di controllo delle nostre Srl, esponendo l’intero Paese a rischi di ulteriore instabilità.
D’altro canto, non è perfettamente chiaro il motivo per il quale una Spa debba necessariamente ricorrere alla revisione legale dei conti mentre una Srl avente lo stesso capitale sociale possa operare senza alcuna forma di controllo.
Alcuni dubbi sono stati inoltre sollevati con riferimento alla sorte degli attuali organi di controllo delle Srl nominati a seguito del superamento del limite del capitale sociale previsto per le Spa.
Nessuna disposizione in merito a tale fattispecie è stata infatti introdotta nel decreto, ragion per cui non è chiaro se il mandato dei sindaci possa essere sin da subito revocato o sia necessario attendere la sua scadenza.

Le azioni a voto plurimo – Altra novità introdotta con il decreto legge 91/2014 è la possibilità di emettere azioni a voto plurimo.
Se ad una prima analisi questa disposizione potrebbe apparire come quella meno rilevante, dall’altro lato, merita di essere sottolineatocome la stessa assuma estrema rilevanza al fine di favorire la quotazione delle imprese del nostro Paese.
È infatti noto come un importante freno alla quotazione delle imprese familiari, è rappresentato proprio dal timore di perdere il controllo della società.

A seguito delle novità introdotte, invece, potranno essere emesse azioni con un massimo di 2 voti, a favore di quei soggetti che si rendono disponibili a detenerle per almeno 24 mesi: questi nuovi strumenti non rappresentano però una speciale categoria di azioni, in quanto, in caso di successiva cessione, tornano ad essere ordinarie azioni con un solo voto.

Autore:
Redazione Fiscal
Focu

Deducibilità delle perdite fiscali: effetti

Deducibilità delle perdite fiscali: effetti
Lo spirito delle modifiche normative, un confronto tra vecchia e rivisitata disciplina e, nel concreto, la recuperabilità dei risultati negativi ai fini delle imposte differite
L’articolo 23, comma 9, del decreto legge 98/2011, ha introdotto un nuovo regime di riporto delle perdite fiscali, ora contenuto nell’articolo 84 del Tuir.

La nuova disposizione
Dalla lettura della “relazione illustrativa” al Dl in argomento, si desume la ratio della norma, principalmente quella di rispondere a un’esigenza di rigore e di semplificazione.
L’intenzione del legislatore, infatti, è stata quella di evitare, da un lato, di costringere le imprese a realizzare operazioni straordinarie allo scopo di ottenere un refresh delle perdite in “scadenza”, operazioni che, di fatto, vanificano la limitazione temporale al riporto, e, dall’altro, di limitare complessi esercizi di valutazione della recuperabilità delle stesse perdite ai fini dell’iscrizione e/o mantenimento delle relative imposte differite durante il processo di formazione del bilancio di esercizio.

La nuova formulazione dell’articolo 84 garantirebbe, inoltre, sempre nei disegni del legislatore, un effetto di stabilizzazione del gettito che, fin dall’anno successivo a quello/i in perdita, verrebbe assicurato in misura percentuale anche in presenza di perdite riportate a nuovo.

In sintesi, la norma prevede, per il riporto delle perdite, l’eliminazione del limite temporale di cinque anni a favore di un riporto temporalmente illimitato, ma introduce un limite quantitativo, cioè le perdite pregresse sono, ora, scomputabili in ragione dell’80% del reddito imponibile. L’eccedenza del 20% può essere scomputata dal reddito degli esercizi successivi, senza alcun limite di tempo.

Confronto nuovo/vecchio articolo 84 del Tuir
Comma 1 (in vigore fino al 5/7/2011)
Nuovo comma 1
“La perdita di un periodo d’imposta, determinata con le stesse norme valevoli per la determinazione del reddito, può essere computata in diminuzione del reddito dei periodi d’imposta successivi, ma non oltre il quinto, per l’intero importo che trova capienza nel reddito imponibile di ciascuno di essi.” La perdita di un periodo d’imposta, determinata con le stesse norme valevoli per la determinazione del reddito, può essere computata in diminuzione del reddito dei periodi d’imposta successivi in misura non superiore all’ottanta per cento del reddito imponibile di ciascuno di essi e per l’intero importo che trova capienza in tale ammontare. (…)
Comma 2
Nuovo comma 2
Le perdite realizzate nei primi tre periodi d’imposta dalla data di costituzione possono, con le modalità previste al comma 1, essere computate in diminuzione del reddito complessivo dei periodi d’imposta successivi senza alcun limite di tempo a condizione che si riferiscano ad una nuova attività produttiva.” Le perdite realizzate nei primi tre periodi d’imposta dalla data di costituzione possono, con le modalità previste al comma 1, essere computate in diminuzione del reddito complessivo dei periodi d’imposta successivi entro il limite del reddito imponibile di ciascuno di essi e per l’intero importo che trova capienza nel reddito imponibile di ciascuno di essi a condizione che si riferiscano ad una nuova attività produttiva”.

Interessati dalla nuova disciplina sono esclusivamente i soggetti Ires previsti all’articolo 73, lettere a), b) e d), del Tuir.
Sono fuori dal regime, invece, i soggetti Irpef in regime di contabilità ordinaria, per i quali continua ad applicarsi il comma 3, dell’articolo 8, del Tuir, e gli enti non commerciali che esercitano attività d’impresa, di cui alla lettera c) dell’articolo 73.

Per quel che concerne la decorrenza del nuovo regime, l’articolo 23, comma 6, del Dl 98/2011 stabilisce che “in deroga all’articolo 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212, le disposizioni del presente articolo si applicano a decorrere dal periodo d’imposta in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto”.
A tal proposito, l’Agenzia delle Entrate, con la circolare 53/2011, ha sottolineato che “la disposizione contenuta nel comma 9 del citato articolo 23 (…) è applicabile anche alle perdite maturate nei periodi d’imposta anteriori a quello di entrata in vigore delle disposizioni in commento” (cfr articolo “Riporto delle perdite d’impresa, nuove regole solo per l’Ires”, pubblicato su FiscoOggi il 6 dicembre 2011).

Recuperabilità delle perdite ai fini delle imposte differite
La relazione governativa, come anticipato, ha posto l’attenzione sulla complessità di valutazione della recuperabilità delle perdite, relativamente all’iscrizione delle imposte differite. Si considerino, ad esempio, le variazioni in aumento e in diminuzione da apportare all’utile/perdita civilistica, le quali si distinguono, in conseguenza del differente impatto sul bilancio, in quanto le differenze temporanee si traducono, in esercizi successivi, in variazioni fiscali di segno opposto, mentre le differenze permanenti si traducono in rettifiche definitive.
Le differenze temporanee concorrono a determinare la base di calcolo delle imposte anticipate e differite.
Sono originate prevalentemente da differenze tra il risultato prima delle imposte da bilancio civilistico e l’imponibile fiscale, che hanno origine in un esercizio e si annullano in uno o più esercizi successivi. Si tratta di ricavi e costi o di parte di essi che concorrono a formare il reddito fiscale in un periodo d’imposta diverso da quello nel quale concorrono a formare il risultato civilistico.
Le imposte sul reddito hanno la natura di oneri sostenuti dall’impresa nella produzione del reddito.

Per il principio della competenza, nel bilancio sono recepite le imposte che:

  • pur essendo di competenza di esercizi futuri, sono esigibili con riferimento all’esercizio in corso (imposte anticipate)
  • pur essendo di competenza dell’esercizio, si renderanno esigibili solo in esercizi futuri (imposte differite).

La loro contabilizzazione deriva, appunto, dalle differenze temporanee tra il valore attribuito a una attività o a una passività secondo criteri civilistici e il valore attribuito a quell’attività o a quella passività ai fini fiscali.

La perdita per un periodo d’imposta può essere normalmente portata a diminuzione del reddito imponibile di esercizi futuri.
Il beneficio fiscale potenziale connesso a perdite riportabili, secondo corretti principi contabili, non è iscritto a bilancio fino all’esercizio di realizzazione dello stesso, salvo che sussistano contemporaneamente le seguenti condizioni:

  1. esiste una ragionevole certezza di ottenere, in futuro, imponibili fiscali che potranno assorbire le perdite riportabili, entro il periodo nel quale le stesse sono deducibili secondo la normativa tributaria
  2. le perdite in oggetto derivano da circostanze ben identificate ed è ragionevolmente certo che tali circostanze non si ripeteranno.

Soprattutto il punto 2 fa cambiare l’orizzonte valutativo degli amministratori, in ordine all’iscrizione in bilancio, venuto meno il termine temporale del riporto delle perdite e quindi, l’arco temporale “vincolato” dei cinque esercizi.
Se sussistono tali condizioni, “il risparmio fiscale connesso a perdite riportabili sarà quindi iscritto nello stato patrimoniale tra le attività per imposte anticipate (Voce C.II. 4-ter), avendo come contropartita a conto economico un accredito della voce 22 – Imposte sul reddito dell’esercizio, correnti, differite e anticipate”.
Secondo il paragrafo H.II. (Perdite fiscali), dell’Oic 25, “un’imposta anticipata derivante da perdite riportabili ai fini fiscali, non contabilizzata in passato in quanto non sussistevano i requisiti per il suo riconoscimento, è iscritta nell’esercizio in cui tali requisiti emergono”.

L’utilizzo delle perdite in Unico SC 2012
La novità “equipara” le perdite ordinarie a quelle realizzate nei primi tre periodi d’imposta. Non vi è un ordine prestabilito nell’utilizzo delle perdite, cioè se siano utilizzabili prima quelle di cui al comma 1 (entro un limite quantitativo) o al comma 2 (senza alcun limite) dell’articolo 84 del Tuir.
Al principio, è stato sostenuto, dalla dottrina, che le imprese avrebbero “consumato” innanzitutto le perdite prodotte nei primi tre periodi d’imposta dalla loro costituzione, le quali consentono l’abbattimento integrale del reddito prodotto. Il criterio di utilizzo prioritario sembrava rispondere, non solo a una regola di convenienza, ma anche a una disciplina contemplata nello stesso articolo 84, nella parte – non modificata dalla norma in esame – in cui si dispone, in via generale (e salve le deroghe espressamente previste) che “la perdita di un periodo […] può essere computata in diminuzione del reddito dei periodi d’imposta successivi […] per l’intero importo che trova capienza nel reddito imponibile di ciascuno di essi”.

L’Agenzia delle Entrate, in occasione dell’annuale appuntamento con Telefisco, il 25 gennaio scorso, ha sostenuto che “la disposizione non stabilisce alcun ordine di priorità nell’utilizzo qualora il contribuente disponga di perdite pregresse in parte riferibili ai primi tre periodi di imposta, in parte ai successivi”, pertanto, “in assenza di regola al riguardo, si ritiene che il contribuente abbia la facoltà (e non l’obbligo) di utilizzare prioritariamente le perdite relative ai primi tre periodi di imposta potendo, in alternativa, scegliere di impiegare dapprima quelle maturate negli esercizi successivi”.

esempio quadro RN con perdite capienti

Nell’esempio n. 1, il contribuente ha un reddito “lordo” pari a 11mila euro, perdite “in misura limitata” (ex articolo 84, comma 1, Tuir) pari a 5mila e perdite “in misura piena” (ex articolo 84, comma 2, Tuir) pari a 6mila euro.

Il limite delle perdite compensabili “in misura limitata” è dato dall’80% di 11mila cioè 8.800 euro, importo, quindi, che risulta essere interamente compensabile rispetto alle perdite “spendibili”.

esempio 2, Quadro N con perdite eccedenti

Nell’esempio n. 2 il reddito “lordo” è sempre pari a 11mila euro. Le perdite “in misura limitata” consistono in 9mila euro e quelle “in misura piena” sono pari a 1.300 euro. Il limite delle perdite compensabili “in misura limitata” è pari all’80% di 11mila, quindi, 8.800. In tal caso, le perdite “a disposizione” non sono interamente utilizzabili rispetto al limite sul reddito “lordo”. Infatti, dei 9mila euro di basket a disposizione, 200 non saranno spendibili, perché superano, appunto, il limite di 8.800 e dovranno essere riportate al periodo d’imposta successivo, per trovare poi compensazione con gli eventuali redditi futuri. L’ammontare a disposizione relativo alle perdite “in misura piena”, pari a 1.300 euro, riduce ulteriormente il reddito imponibile. Nell’esempio proposto, quindi, 247 è l’imposta calcolata sul reddito netto dichiarato pari a 900 (11.000 – 8.800 – 1.300).

perdite di impresa non compensate

Fisco: Equitalia riapre la rateazione

4 Luglio 2014

Equitalia si concentra sull’importanza delle rateizzazioni ed illustra la nuova possibilità offerta ai contribuenti decaduti alla data del 22 giugno 2013 con il comunicato stampa del 3 luglio.

Le rateizzazioni – Equitalia sottolinea l’importanza delle rateizzazioni, le quali rappresentano uno strumento a cui hanno fatto ricorso moltissimi contribuenti: ad oggi ne risultano infatti attive 2,3 milioni per un importo di oltre 25 miliardi di euro.

La possibilità offerta ai contribuenti decaduti – L’importanza di questa modalità di pagamento è stata riconosciuta anche dal Legislatore, che, accogliendo le proposte avanzate da Equitalia ha concesso una nuova possibilità anche a coloro che, per Legge, avevano ormai perso il beneficio della rateizzazione perché non in regola con i pagamenti alla data del 22 giugno 2013.

Secondo quanto stabilito dal Decreto Irpef (DL 66/2014, convertito con modificazioni dalla Legge 89/2014), infatti, i contribuenti interessati potranno richiedere fino a un massimo di 72 rate (6 anni) presentando la domanda entro il prossimo 31 luglio.

Equitalia ha già messo a disposizione un apposito modulo sul suo sito internet, nella sezione “Rateizzare”, denominato appunto “Istanza di rateazione ai sensi dell’art. 11-bis del Decreto Legge n. 66/2014 convertito con modificazioni dalla legge n.89/2014”.

Questo strumento dovrebbe rappresentare un’importante opportunità per i contribuenti.
Come ha infatti spiegato l’amministratore delegato di Equitalia, Benedetto Mineo “dalle nostre stime emerge un importo di circa 20 miliardi di euro che potrebbe essere rimesso in rateizzazione .. Il provvedimento va incontro alle esigenze dei contribuenti in difficoltà, che possono usufruire di nuove condizioni favorevoli per i pagamenti, garantendo al contempo il recupero degli importi dovuti all’Erario, all’Inps, ai Comuni e ai vari enti pubblici creditori”. 

La nuova rateizzazione concessa – Come sottolinea anche Equitalia ci sono però alcuni aspetti sui quali è necessario concentrare l’attenzione.

In primo luogo, il nuovo piano concesso non è prorogabile in caso di peggioramento della situazione di difficoltà che non consente più di sostenere il piano di dilazione in corso.

Inoltre è prevista la decadenza in caso di mancato pagamento di due rate anche non consecutive, anziché dopo 8 rate, come attualmente previsto per le altre rateazioni.

Le altre forme di rateizzazione – Nel suo comunicato stampa Equitalia non dimentica inoltre le altre forme di rateazione che possono essere concesse ai contribuenti non decaduti.

È infatti da ricordare che è possibile ottenere un piano di rateizzazione straordinario fino a 120 rate (10 anni) oppure un piano ordinario a 72 rate (6 anni). In ogni caso, l’importo minimo di ogni rata è, salvo eccezioni, pari a 100 euro.

I piani sono alternativi per cui, in caso di mancata concessione di una dilazione straordinaria, è comunque possibile chiedere una rateazione ordinaria.

Entrambi gli strumenti consentono al contribuente di non essere più considerato inadempiente finché i pagamenti sono regolari, ed è quindi possibile ottenere il Durc e il certificato di regolarità fiscale per poter lavorare con le pubbliche amministrazioni.
Inoltre, il contribuente che paga a rate, è al riparo daeventuali azioni cautelari o esecutive (fermi, ipoteche, pignoramenti).

Autore: Redazione Fiscal Focus

S.p.a., riduzione del capitale sociale minimo senza effetti per le s.r.l.

L’art. 20, co. 7, del D.L. n. 91/2014 ha stabilito la riduzione da euro 120.000 ad euro 50.000 del capitale sociale minimo previsto per la costituzione delle società per azioni dall’art. 2327 c.c., applicabile anche alle società in accomandita per azioni (art. 2454 c.c.). Per le società a responsabilità limitata, il capitale sociale minimo è, invece, fissato in euro 10.000 dall’art. 2463 c.c., essendo peraltro contemplata la possibilità che sia determinato in misura inferiore alla predetta soglia, purchè almeno pari ad euro 1: al ricorrere di tale ipotesi, i conferimenti devono essere effettuati in denaro, per intero, alle persone a cui è affidata l’amministrazione. In tale circostanza, è altresì prescritto l’accantonamento degli utili netti – risultanti dal bilancio regolarmente approvato – alla riserva legale (art. 2430 c.c.), nella misura del 20%, anziché di quella ordinaria del 5%, sino a quando tale riserva, unitamente al capitale sociale, non abbia raggiunto l’ammontare di euro 10.000.

La novità introdotta dall’art. 20, co. 7, del D.L. n. 91/2014 produce, pertanto, effetti esclusivamente sulle s.p.a. e s.a.p.a., ma non nei confronti delle s.r.l., come, invece, inizialmente prospettato: il successivo co. 8 ha, infatti, modificato l’art. 2477 c.c., abrogando il co. 2, che imponeva alla s.r.l. l’obbligo di nominare l’organo di controllo o il revisore nel caso di capitale sociale non inferiore a quello minimo previsto per le società per azioni. In mancanza di tale modifica normativa, sarebbe aumentato notevolmente il numero di s.r.l. obbligate a nominare l’organo di controllo o il revisore.
L’obiettivo del legislatore è, pertanto, quello, da un lato, di incentivare – attraverso la fissazione di un capitale sociale minimo decisamente più contenuto rispetto al passato – la costituzione delle s.p.a. e, dall’altro, rendere meno gravosi gli oneri per la s.r.l. in presenza di un capitale sociale non inferiore a quello minimo delle società per azioni.
Conseguentemente, per tutte le s.r.l. aventi un capitale sociale non inferiore ad euro 120.000 e che, quindi, hanno nominato l’organo di controllo o il revisore si pone, ora, il dubbio in merito all’automatica decadenza dello stesso – in virtù dell’abrogazione del co. 2 dell’art. 2477 c.c. – oppure del mantenimento della carica, sino alla naturale scadenza del mandato, salvo preventiva presentazione delle dimissioni dall’incarico.
Si segnala, infine, che il D.L. n. 91/2014 non ha, invece, modificato le altre disposizioni dell’art. 2477 c.c., per effetto delle quali la nomina dell’organo di controllo o del revisore è obbligatoria, qualora la s.r.l. si trovi in una delle seguenti circostanze: è tenuta alla redazione del bilancio consolidato; controlla una società obbligata alla revisione legale dei conti; ha superato, per due esercizi consecutivi, almeno due dei limiti previsti dall’art. 2435-bis, co. 1, c.c. per la redazione del bilancio in forma abbreviata.

30 giugno: la data dell’obbligo Pos

30 Giugno 2014
Il tanto discusso 30 giugno, data di entrata in vigore dell’obbligo Pos è arrivato. Dopo gli ultimi chiarimenti professionisti e imprenditori si approcciano tuttavia a questo nuovo adempimento con un animo più leggero, sebbene non manchino le perplessità.

L’obbligo di accettare il pagamento con carte di debito – L’obbligo Pos è stato introdotto per promuovere la diffusione e l’uso dei pagamenti con carte di debito e credito e limitare l’uso del contate, favorendo il contrasto all’evasione.

I costi connessi a tale nuova previsione non sono tuttavia trascurabili, e, per tali motivi, vivaci sono state le proteste degli operatori.

In risposta all’interrogazione n. 5-02936 in Commissione Finanze alla Camera il Ministero dell’Economia ha però chiarito che non è prevista alcuna sanzione nel caso in cui i professionisti non dovessero dotarsi di POS entro la data del 30 giugno 2014.
Si aderisce, in tal modo, all’interpretazione fornita dal Consiglio nazionale Forense, che, con riferimento alla disposizioni che dovrebbero trovare attuazione parla di mero “onere”, piuttosto che di “obbligo giuridico”.

Le conseguenze connesse al mancato rispetto dell’obbligo
 – Qualora il cliente volesse effettuare il pagamento con carta di debito, ma il professionista ne fosse sprovvisto, si configurerebbe la fattispecie della “mora del creditore”.

In questo caso il debitore non è liberato dall’obbligazione, ma, comunque non può essere addebitato allo stesso il ritardo nel pagamento.
Per questo motivo il professionista/imprenditore non dotato di Pos non potrà chiedere al cliente che vuole pagare con carta di debito gli interessi maturati.

In tal senso una possibile soluzione potrebbe essere quella di inserire un’apposita clausola contrattuale con la quale si individua un metodo di pagamento diverso dalla carta di debito: nulla vieta infatti alle parti di derogare la disposizione introdotta.

Alcune perplessità sorgono invece con riferimento agli altri operatori: si pensi, a tal proposito ad un piccolo ristorante, in cui il cliente decida di pagare con carta di debito il conto superiore a 30 euro.
In questo caso, evidentemente, la mora del creditore non è una conseguenza priva di effetti.
Come comportarsi con il cliente che dopo aver consumato, possa pagare soltanto con carta di debito? Potrebbe allontanarsi dal locale senza saldare il conto?
È sempre vero che il debitore non è liberato dall’obbligazione, ma quante probabilità ci sono che un cliente torni dopo alcuni giorni con il contante per provvedere al pagamento?

Si pensi poi all’idraulico che, con i suoi due dipendenti, si rechi presso le famiglie per piccoli interventi di manutenzione.
Cosa dovrà fare, nel caso in oggetto, l’idraulico? Dovrà fornire un Pos a ciascuno dei suoi due dipendenti ed averne anche uno per sé? Sicuramente il costo sarebbe eccessivo.

Il tutto senza considerare l’aspetto relativo ai rapporti con il cliente: è ovvio che, a parità di altre condizioni, un consumatore scelga l’imprenditore che gli assicuri maggiore facilità nei pagamenti, così come decida di evitare quello, che non rispettando una disposizione di legge, lo obbliga al pagamento in contante.

Appare quindi ovvio il motivo per il quale si parli di una semplice “arma spuntata” nella lotta contro l’evasione, in grado di generare soltanto confusione.

Si spera quindi che, molto presto, si intervenga anche sui costi connessi all’obbligo Pos, al fine di poter consentire a tutti di adeguarsi all’obbligo imposto dal legislatore.
La mancata previsione di sanzioni, infatti, se da un lato ha ridotto le proteste, dall’altro non può rappresentare la soluzione definitiva al problema.

Autore: Redazione Fiscal Focus

Interessi passivi e coniuge a carico

30 Giugno 2014
Il caso – Due coniugi in regime di separazione dei beni acquistano nel 2008 la loro abitazione principale per una quota del 50% ciascuno. L’acquisto viene perfezionato con un mutuo ipotecario cointestato per la “prima casa” al 50%.
Attualmente nessuno dei due coniugi è a carico dell’altro (mentre in precedenza Tizia era a carico di Caio).

Il mutuo da sempre viene pagato integralmente da Caio con addebito RID sul suo conto corrente personale (che non è cointestato e non prevede deleghe a Tizia).

È possibile imputare gli interessi passivi del mutuo prima casa al coniuge che paga le rate del mutuo al 100% ?

L’analisi
Le istruzioni del modello 730/2014 chiariscono espressamente che “se il mutuo è intestato a più persone, ogni cointestatario può fruire della detrazione unicamente per la propria quota di interessi”.

L’unica eccezione a questa regola è appunto limitata all’ipotesi del coniuge fiscalmente a carico.
Merita infatti di essere ricordato che se il mutuo è cointestato con il coniuge fiscalmente a carico, il coniuge che sostiene interamente la spesa può fruire della detrazione per entrambe le quote di interessi passivi.

In considerazione di quanto appena esposto, avendo il coniuge superato il limite di reddito previsto per essere qualificato come familiare a carico, il contribuente non può continuare a detrarsi il 100% della quota di interessi.

Dall’annualità in cui il coniuge cessa di essere a carico, pertanto, nel rispetto di quanto previsto dall’articolo 15, lettera b) del D.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917, ognuno potrà fruire della detrazione unicamente per la propria quota di interessi ed entro il limite massimo di 4.000 euro riferito all’ammontare complessivo degli interessi e oneri accessori effettivamente sostenuti.

Purtroppo, nel caso prospettato, qualora il coniuge dovesse avere un reddito superiore alla soglia prevista per i familiari a carico, ma comunque troppo basso per poter fruire della detrazione in oggetto, quest’ultima finirà per essere persa.

Gli interessi per la costruzione dell’abitazione principale
Se abbiamo visto che, con riferimento agli interessi sostenuti per l’acquisto dell’abitazione principale, il legislatore ha introdotto un’importante eccezione, costituita dalla possibilità di detrarre gli interessi passivi sostenuti anche per il coniuge fiscalmente a carico, lo stesso non può dirsi con riferimento agli interessi sui mutui contratti per la ristrutturazione/costruzione dell’abitazione principale.

Con la circolare 11/E del 21 maggio 2014 è stato infatti chiarito che in caso di mutuo contratto per la costruzione dell’abitazione principale, la quota di interessi del coniuge fiscalmente a carico non può essere portata in detrazione dall’altro coniuge.
Il motivo di tale limitazione può essere individuato semplicemente nel fatto che, mentre la norma relativa agli interessi sull’acquisto dell’abitazione principale contempla espressamente l’ipotesi della detrazione degli oneri sostenuti per il coniuge fiscalmente a carico, lo stesso non può dirsi con riferimento agli interessi sulla costruzione dell’abitazione principale.

Gli altri familiari

In entrambi i casi è infine da escludere che il contribuente possa detrarre le spese sostenute per altri familiari fiscalmente a carico.
L’esempio più banale è quello di un genitore che provveda ad acquistare l’abitazione principale al figlio, stipulando apposito mutuo ipotecario.

Ebbene, in questo caso, gli interessi non potranno essere portati in detrazione né dal genitore né ovviamene dal figlio fiscalmente a carico.

Autore: Redazione Fiscal Focus

ASpI e mini-ASpI. Nuovo servizio online per l’invio delle domande

19 Giugno 2014

Disponibile una nuova procedura telematica per l’inoltro delle istanze di disoccupazione ASpI e mini-ASpI

Premessa – È stata rilasciata una nuova procedura telematica per l’invio delle domande di disoccupazione ASpI e mini-ASpI. Il nuovo servizio, in particolare, oltre a consentire al beneficiario di comunicare telematicamente gli eventi riportati sui modelli ASPI-COM (Mod. SR137) e mini ASPI-COM (Mod. SR138), permette all’interessato di comunicare: le variazioni di domicilio/residenza, di telefono, di email e delle modalità di pagamento riportate sulle domande di disoccupazione in ambito ASpI precedentemente inviate; le informazioni attinenti al reddito percepito da lavoro autonomo o parasubordinato. A chiarirlo è l’INPS con il messaggio n. 4530/2014 che descrive in generale il funzionamento del servizio, le modalità di accesso al servizio, nonché le modalità operative delle sedi per la fase transitoria.

Comunicazione obbligatoria –
 I beneficiari di prestazioni di disoccupazione involontaria o l’indennità di disoccupazione ASpI e mini-ASpI che svolgono un’attività autonoma o parasubordinata, hanno l’obbligo di informare l’INPS del reddito annuo previsto per l’attività intrapresa entro un mese dall’inizio dell’attività, oltreché del reddito effettivamente percepito nell’anno di fruizione della prestazione a seguito della successiva denuncia fiscale dei redditi. Tale obbligo opera per tutti i datori di lavoro dell’invio del modello telematico UNILAV, comunicazione unica da inoltrare per via telematica ai servizi competenti, nel caso di instaurazione, proroga, trasformazione e cessazione dei rapporti di lavoro. Tali comunicazioni hanno validità anche ai fini dell’assolvimento degli obblighi di comunicazione nei confronti degli enti previdenziali.

I canali telematici – Le comunicazioni aventi ad oggetto gli eventi previsti dai modelli ASpI-COM (Mod.SR137) e mini ASpI-COM (Mod.SR138) avviene, così come per la presentazione delle principali domande di prestazioni/servizi, in maniera telematica attraverso uno dei seguenti canali:
• WEB mediante i servizi telematici accessibili direttamente dal cittadino tramite PIN attraverso il portale dell’Istituto;
• Contact center integrato i cui numeri sono 803164 da telefono fisso e 06164164 da cellulare;
• patronati/intermediari dell’Istituto attraverso i servizi telematici offerti dagli stessi.

Per poter accedere al servizio, il cittadino dovrà collegarsi al portale internet dell’Istituto (www.inps.it) partendo dal link “Al servizio del cittadino” e, dopo aver effettuato l’autenticazione con PIN, selezionando la funzione “Invio domande di prestazioni a sostegno del reddito”. All’interno dell’applicazione occorre selezionare, in successione dal menu laterale a sinistra, le seguenti voci: “ASPI, Disoccupazione, Mobilità e Trattamento speciale Edilizia”, “Comunicazioni ASPI-COM e mini ASPI-COM”.

FONTE: Redazione Fiscal Focus

Cessioni intracomunitarie: come provare il trasferimento delle merci

20 Giugno 2014
L’art. 41, D.L. 331/1993, prevede che un’operazione di cessione assume la qualifica di scambio intracomunitario non imponibile ai fini Iva nel caso in cui siano rispettate le seguenti condizioni: i) onerosità dell’operazione; ii) acquisizione o trasferimento del diritto di proprietà o di altro diritto reale sui beni; iii) status di operatore economico del cedente nazionale e del cessionario comunitario; iv) effettiva movimentazione del bene dall’Italia a un altro Stato membro, indipendentemente dal fatto che il trasporto o la spedizione avvengano a cura del cedente, del cessionario o di terzi per loro conto (R.M. 19/E/2013).Tra i requisiti necessari affinché un’operazione di cessione assuma la qualifica di scambio intracomunitarionon imponibile ai fini Iva, assume particolare rilievo quello della fuoriuscita dei beni dall’Italia e l’arrivo in un altro Stato membro.

Sulla questione la Corte di Giustizia UE ha sancito la necessità che il fornitore dia “prova che il bene sia stato spedito o trasportato in un altro Stato membro e che, in seguito a tale spedizione o trasporto, esso abbia lasciato fisicamente il territorio dello Stato membro di cessione” (sentenza in causa C- 409/04, punto 42 – in senso conforme anche la sentenza del 27/09/2007, in causa C-184/05, punto 23). Negli interventi giurisprudenziali richiamati, il giudice comunitario ha altresì evidenziato che la Direttiva 2006/112/CE non predetermina la forma e la tipologia della prova atta a dimostrare che si è realizzato il trasporto nel territorio di un altro Stato membro, lasciando invece che siano gli Stati membri a definire ciò, nel momento in cui fissano le condizioni e i requisiti per l’applicazione del regime di non imponibilità, nel rispetto dei principi fondamentali del diritto comunitario, quali la neutralità dell’imposta, la certezza del diritto e la proporzionalità delle misura adottate (cfr. sentenze della Corte di Giustizia del 27 settembre 2007).

Sulla questione non è intervenuto in modo puntuale il Legislatore. A tale lacuna ha sopperito l’Amministrazione Finanziaria con vari interventi.
Inizialmente, nella R.M. n. 345/E/2007, l’Agenzia ha elencato alcuni documenti validi per provare la cessione intracomunitaria, quali:
• la fattura di vendita;
• gli elenchi Intrastat;
• la documentazione bancaria;
• e il documento di trasporto (CMR), sottoscritto dal trasportatore, per presa in carico della merce, e dal destinatario, per ricevuta.

Con la R.M. 19/E/2013, l’Amministrazione Finanziaria ha apportto ulteriori indicazioni sulla questione, affermando che ai fini di dimostrare l’uscita dei beni dal territorio nazionale può essere esibito anche il c.d.CMR elettronico, avente lo stesso contenuto di quello cartaceo.
Nel citato documento di prassi, l’Amministrazione Finanziaria sottolinea ulteriormente che “costituisce mezzo di prova equivalente al CMR cartaceo un insieme di documenti dal quale si possono ricavare le medesime informazioni presenti nello stesso, e le firme dei soggetti coinvolti (cedente, vettore, e cessionario); possono essere utilizzate anche le informazioni tratte dal sistema informatico del vettore”.

In base alla giurisprudenza comunitaria (causa C-146/05), la prova dell’avvenuta cessione intracomunitariapuò essere fornita anche in un momento successivo all’effettuazione dell’operazione, essendo però indispensabile che il cedente acquisisca «senza indugio» i documenti rilevanti, ovverosia non appena la prassi commerciale lo renda possibile.

fonte: Redazione Fiscal Focus

Associazione in partecipazione. Deduzione con data certa

19 Giugno 2014
Una sentenza della CTR Liguria
Le quote corrisposte agli associati in partecipazione sono deducibili come costi anche quando è mancato l’atto pubblico o la scrittura privata autenticata. In questo caso è sufficiente che la data certa del contratto di associazione risulti dall’iscrizione all’INPS. È quanto emerge dalla sentenza 232/01/2014 della Commissione Tributaria Regionale della Liguria.

Il caso. Con la pronuncia in rassegna è stato parzialmente annullato un avviso di accertamento di rettifica del reddito dichiarato a favore di un esercizio commerciale di ristorazione. Il ricorrente ha eccepito che l’azienda era condotta in forza di un contratto di associazione in partecipazione. Agli associati – che prestavano lavoro e figuravano a libro matricola – erano stati assegnati utili che costituivano costi da dedurre dal reddito complessivo dell’imprenditore associante. Tali costi sono stati però disconosciuti dall’Agenzia delle Entrate perché l’associazione in partecipazione non risultava da scrittura privata registrata o riportante sottoscrizione autenticata, con conseguente impossibilità di appurare la certezza di data.

La tesi dell’Amministrazione circa la mancanza dei presupposti per portare in deduzione le quote degli associati in partecipazione ha trovato l’avallo dei giudici di primo grado. Diversa la posizione espressa dalla CTR Liguria, che ha distinto tra idoneità della scrittura privata per il perfezionamento del contratto e opponibilità al Fisco al fine della deduzione.

Osservazioni della CTR. La CTR osserva che il contratto di associazione in partecipazione si perfeziona mediante una scrittura privata, com’è avvenuto nella fattispecie. Per quanto concerne invece la possibilità per l’associante di portare in diminuzione dal proprio reddito d’impresa le quote di utili spettanti, l’Amministrazione Finanziaria (cir. n. 50/E del 2002) ha affermato che ciò è possibile solo se il contratto di associazione risulti da atto pubblico o da scrittura privata autenticata giacché “in mancanza di atti aventidata certa la quota spettante all’associato non deve assumere alcuna rilevanza fiscale“. La problematica pertanto riguarda il concetto di “data certa”. In proposito “va considerato – si legge in sentenza – che l’assenza di registrazione o autentica delle firme non consente un automatico e inoppugnabile appuramento della certezza della data, ma va anche considerato che è compito del giudice del merito valutare caso per caso la sussistenza e l’idoneità dei fatti dedotti per stabilire la certezza della data del documento, fatto salvo il limite del carattere obbiettivo del fatto stesso, che non deve essere riconducibile al soggetto che lo invoca e deve essere, altresì, sottratto alla sua disponibilità” (cfr. Cass. n. 4646/1997).

Nel caso in esame è risultato che le iscrizioni alla gestione degli associati in partecipazione erano state regolarmente depositate all’INPS, il che ha dato dimostrazione della data certa delle relative scritture private che quindi hanno potuto dispiegare effetti anche ai fini fiscali. Per la CTR, infatti, le iscrizioni alla gestione degli associati in partecipazione che risultino depositate all’INPS provano che le scritture private hanno data certa. “L’idoneità probatoria – spiegano i giudici di secondo grado – sussiste perché discende da un fatto estrinseco ai soggetti interessati e alle annotazioni nei registri, costituito dalla ricevuta di deposito da parte dell’INPS (bollo tondo a datario apposto sulle predette domande di iscrizione alla gestione degli associati in partecipazione)”.

In conclusione, la CTR Liguria, in parziale accoglimento dell’appello del contribuente, ha demandato all’Ufficio il ricalcolo del reddito del contribuente, stante la deducibilità dei costi corrispondenti agli utili spettanti agli associati in partecipazione.

FONTE: Redazione Fiscal Focus

Dichiarazione IMU: Invio entro il 30 giugno

19 Giugno 2014
La lett. a) del comma 4, dell’art. 10 del D. L. n. 35/2013 ha modificato il comma 12-ter dell’art. 13 del D. L. n. 201 del 2011, relativo alla presentazione della dichiarazione IMU, laddove sono presenti le parole “novanta giorni dalla data”. Pertanto, il primo e l’ultimo periodo del comma 12-ter presentano la seguente formulazione: “I soggetti passivi devono presentare la dichiarazione entro il 30 giugno dell’anno successivo a quello in cui il possesso degli immobili ha avuto inizio o sono intervenute variazioni rilevanti ai fini della determinazione dell’imposta, utilizzando il modello approvato con il decreto di cui all’articolo 9, comma 6, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23. […]
Per gli immobili per i quali l’obbligo dichiarativo è sorto dal 1° gennaio 2012, la dichiarazione deve essere presentata entro il 30 giugno dell’anno successivo a quello di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del decreto di approvazione del modello di dichiarazione dell’imposta municipale propria e delle relative istruzioni
”.
Tale modifica normativa trovava il suo scopo nel tentare di evitare un’eccessiva frammentazione dell’obbligo dichiarativo derivante dal precedente termine mobile dei 90 giorni e di risolvere i problemi sorti in ordine alla possibilità, da parte dei contribuenti, di ricorrere all’istituto del ravvedimento, di cui alla lett. b), comma 1, dell’art. 13 del D. Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 che, altrimenti non avrebbero trovato soluzione.

Dunque, per le variazioni intervenute o per l’inizio del possesso nel 2013, la Dichiarazione IMU va presentata entro il 30 giugno 2014.

Chi deve presentare la Dichiarazione IMU? La Dichiarazione IMU va presentata nei seguenti due casi:
1) qualora gli immobili godano di riduzioni d’imposta;
2) nei casi in cui il comune non è comunque in possesso delle informazioni necessarie per verificare il corretto adempimento dell’obbligazione tributaria.

Casi particolari

Fabbricati dichiarati inagibili o inabitabili e di fatto non utilizzati – La base imponibile per tali fabbricati è ridotta del 50% (art. 13 co.3 del D.L. n.201/2011), purché sussistano congiuntamente l’inagibilità o l’inabitabilità e l’assenza di utilizzo dell’immobile, laddovel’inagibilità consiste in:
– un degrado fisico sopravvenuto (ad esempio, fabbricato diroccato, pericolante, fatiscente);
– o in un’obsolescenza funzionale, strutturale e tecnologica, non superabile con interventi di manutenzione.
L’inagibilità o l’inabitabilità deve essere accertata dall’ufficio tecnico comunale con perizia a carico del proprietario, che allega idonea documentazione alla dichiarazione o presenta dichiarazione sostitutiva ai sensi del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, con la quale dichiara di essere in possesso di una perizia accertante l’inagibilità o l’inabitabilità, redatta da un tecnico abilitato.
La dichiarazione IMU va presentata solo nel caso in cui si perda il diritto alla riduzione, poiché è in questa ipotesi che il comune non dispone delle informazioni necessarie per verificare il venir meno delle condizioni richieste dalla legge per l’agevolazione in questione.
Nel modello ministeriale definitivo è stata eliminata rispetto alla versione in bozza la frase: “Occorre richiamare l’attenzione sul fatto che i comuni, nell’esercizio della propria potestà regolamentare, possono, comunque, stabilire ulteriori modalità di attestazione di tale condizione”.

Fabbricati di interesse storico o artistico – La base imponibile per tali fabbricati è ridotta del 50% (art.13 co.3 del D.L. n. 201/2011), ma solo per quelli previsti dall’art. 10 del D. Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, recante il “Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della L. 6 luglio 2002, n. 137”.

FONTE: Redazione Fiscal Focus

Slitta al 7 luglio il termine per i versamenti di Unico

DICHIARAZIONI FISCALI – 16 GIUGNO 2014 ORE 06:00
Slitta al 7 luglio il termine per i versamenti di
Unico
E’ in corso di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale il D.P.C.M. che dispone il rinvio dal 16 giugno al 7
luglio 2014 del termine per effettuare i versamenti derivanti dalla dichiarazione dei redditi e IRAP
dei contribuenti soggetti agli studi di settore.
La proroga – si precisa nel comunicato – riguarda anche i contribuenti che, pur facendo parte di
categorie per le quali sono previsti gli studi di settore, presentano cause di esclusione o
inapplicabilità (ad esempio, nel caso di non normale svolgimento di attività, o per il primo anno di
attività) e i contribuenti che rientrano nel regime fiscale di vantaggio per l’imprenditoria giovanile e
per i lavoratori in mobilità (c.d. “nuovi minimi”).
Il differimento interessa, inoltre, i contribuenti che partecipano a società, associazioni e imprese
che applicano gli studi, ossia i soci di società di persone, gli associati, i collaboratori di imprese
familiari, nonché i soci di SRL che abbiano optato per il regime di trasparenza fiscale.
Contestualmente al rinvio al 7 luglio 2014, il D.P.C.M. dispone la proroga al 20 agosto della
scadenza per effettuare i versamenti con la maggiorazione dello 0,40%.
Così come per lo scorso anno, il rinvio riguarderà anche gli altri versamenti in scadenza entro i
medesimi termini stabiliti per l’IRPEF come, ad esempio: la cedolare secca sugli affitti; l’IVIE e
l’IVAFE.
Gli altri contribuenti alla cassa entro oggi
Resta confermata a oggi (16 giugno) la scadenza per effettuare il versamento delle imposte
dovute a saldo per il 2013 e per il primo acconto 2014 da parte dei contribuenti non soggetti agli
studi di settore, fatta salva la possibilità di effettuare il pagamento con maggiorazione dello 0,40%
entro il 16 luglio.

Bonus assunzioni. Stop con il licenziamento

13 Giugno 2014

Il licenziamento, anche se per giusta causa, fa perdere all’azienda i benefici fiscali

L’azienda che licenzia per giusta causa o per giustificato motivo il nuovo assunto perde il bonus fiscale. È quanto emerge dalla sentenza n. 12160/14, pubblicata lo scorso 30 maggio dalla Sezione Tributaria della Cassazione.

Il caso.
 I giudici del Palazzaccio hanno accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate contro la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Basilicata che aveva annullato la revoca del credito d’imposta ex art. 4 L. 449/97 riconosciuto alla società contribuente, a seguito di incremento del livello occupazionale esistente.

Nel caso di specie la revoca è stata motivata con il mancato mantenimento del livello occupazionale nel periodo agevolato perché il lavoratore neo assunto era stato licenziato per giusta causa, mentre un altro dipendente aveva rassegnato le proprie dimissioni.

Nel giudizio davanti alle Commissioni di primo e di secondo grado la contribuente ha negato la violazione dell’articolo 4 della Legge 449 del 1997 perché la riduzione del livello occupazionale non era dipesa dalla sua volontà. Tale argomentazione difensiva ha trovato terreno fertile presso la CTR di Potenza, ma non presso le aule del Palazzaccio, dove ha invece prevalso l’Agenzia delle Entrate.

Orientamento consolidato. Con la sentenza 12160/14 la Suprema Corte riafferma il principio per cui, “in tema di credito d’imposta riconosciuto per l’incremento dei lavoratori assunti a tempo indeterminato, secondo i requisiti e per l’ambito territoriale di cui all’articolo 4 della l. n. 449/97, la relativa revoca, connessa alla riduzione del livello occupazionale raggiunto, è legittima e opera in modo obiettivo, cioè anche se tale riduzione sia indipendente dalla volontà del datore di lavoro […] e salvo che si verifichi la reintegrazione da parte dell’impresa del precedente livello degli occupati” (cfr. Cass. n. 8736, n. 23796 e n. 4933 del 2013).

L’articolo 4, comma 5, lettera c) della L. 449/97, infatti, “condiziona espressamente l’applicazione delle agevolazioni previste dalla normativa di riferimento al mantenimento, nel periodo agevolato, del livello occupazionale raggiunto con le nuove assunzioni; di conseguenza rimane del tutto indifferente, ai fini della decadenza dal credito di imposta, la circostanza che i rapporti di lavoro così instaurati siano cessati per fatti non imputabili alla volontà del datore di lavoro”.

Nessuna rilevanza in senso contrario può invece attribuirsi alla circolare ministeriale richiamata dalla contribuente (ossia la n. 219/E del 1998), in quanto è noto che tali tipologie di documenti non sono fonti del diritto bensì atti unilaterali della P.A., che li utilizza per disciplinare e indirizzare in modo uniforme l’attività dei propri organi (cfr. Cass. 23796/13 cit. e n. 2850 del 2012).

In conclusione, si deve ritenere che la revoca del credito d’imposta in questione è legittima anche quando la riduzione del personale è totalmente sganciata dalla volontà del datore di lavoro. La CTR di Potenza ha invece sostenuto il contrario, il che ha determinato l’accoglimento, nel merito, del ricorso del Fisco, con conseguente rigetto dell’atto introduttivo del giudizio. Spese di lite compensate.

Autore: Redazione Fiscal Focus

Tasi senza sanzioni

13 Giugno 2014
In diverse occasioni siamo tornati a parlare del caos Tasi che sta facendo impazzire professionisti e contribuenti.

Ora anche il MEF ha ammesso che intorno alla nuova tassa per i servizi indivisibili ruotano troppi dubbi operativi: è per questo che è stata prospettata, in occasione della risposta all’interrogazione parlamentare n. 5/02955, l’applicazione dell’art. 10 dello Statuto dei diritti del contribuente, in base al quale non sono irrogate sanzioni “quando la violazione dipendente da obiettive condizioni di incertezza”.

Il chiarimento in oggetto si è reso necessario in considerazione delle richieste di proroga avanzate da Caf e professionisti, i quali sono stati letteralmente travolti dall’“ingorgo scadenze” del 16 giugno.

L’intervento del legislatore
Se è vero che può essere applicata la disposizione prevista dallo statuto del contribuente, è altrettanto vero che è necessario fissare un termine oltre il quale non sono più ammesse tardività.

Per questo motivo il sottosegretario Zanetti ha richiesto l’intervento del legislatore, così come fu fatto, tempo fa, in occasione delle sanzioni previste per il saldo Imu e la maggiorazione Tares.
È invece da escludere qualsiasi intervento di prassi amministrativa.

La richiesta di proroga ai Comuni

Confedilizia, con un comunicato diffuso nei giorni scorsi ha richiesto direttamente ai Comuni il rinvio del termine per il pagamento della Tasi al 15 luglio o almeno al 30 giugno.

Secondo quanto chiarito dal suo ufficio legale, infatti, ai sensi dell’art. 52 del D.Lgs. n. 446/97, gli stessi Comuni potrebbero disporre il rinvio dei versamenti nell’ambito della potestà di regolamentare le entrate proprie.

Le incertezze
Le situazioni di incertezza che consentirebbero l’applicazione dell’art.10 dello Statuto del contribuente non sono certo poche: prima fra tutte la stessa data prevista per il versamento.

Volendo fornire una panoramica di quelle che sono le scadenze attualmente previste possiamo richiamare:
• il 16 giugno: è la data entro la quale i contribuenti sono chiamati alla cassa nei comuni che hanno pubblicato le delibere Tasi entro il 31 maggio;
• la diversa data prevista dalle delibere: se il 16 giugno rappresenta, in linea generale, la data prevista per il versamento, non possiamo dimenticare che vi sono comuni che, nella stessa delibera, hanno individuato un diverso termine per il versamento.
Per tale motivo, a Vicenza, Pordenone e Lodi la Tasi si pagherà il 16 luglio, a Venezia il 21 luglio, ad Ancona il 16 settembre e a Bari il 16 dicembre in un’unica soluzione;
• la data fissata con le proroghe decise dai singoli comuni: in molti Comuni sono state infatti fissati dei rinvii nei termini di pagamento.
Si pensi, a tal proposito, a Piacenza e Ferrara, nelle quali la Tasi si pagherà il 30 giugno, a Brescia, che ha fissato la scadenza al 12 luglio, a Mantova, che chiama i contribuenti alla cassa il 12 luglio, e a Bologna, che ha fissato il termine di pagamento per il 31 luglio.
In alcuni comuni, invece, pur lasciando ferma la data di versamento, è stata disposta la disapplicazione delle sanzioni per i versamenti tardivi;
• il 16 ottobre, è la scadenza prevista per i comuni che non abbiano pubblicato le delibere entro i termini previsti, e che provvederanno a farlo entro il 10 settembre.

Altro aspetto poco chiaro, con riferimento alla nuova tassa sui servizi indivisibili, riguarda la quota a carico degli occupanti, che rappresenta una quota compresa tra il 10 e il 30% della Tasi, determinata dal Comune.

Anche in questo caso le delibere fissano aliquote completamente diverse tra loro, rendendo necessaria un’analisi dettagliata delle singole posizioni.

In considerazione di quanto comunicato da Confedilizia, vi sarebbero inoltre Comuni che hanno deliberato la non applicazione della Tasi agli occupanti degli immobili, ponendosi in contrasto con quello che è il dettato normativo. In tal caso è comunque necessario far versare agli occupanti il 10% della Tasi.

Alcuni problemi operativi riguardano inoltre la quota minima prevista per il pagamento della tassa. Infatti, non è necessario effettuare il versamento se l’importo è inferiore a 12 euro (o altro limite fissato dal Comune). Ma, nel caso in cui gli occupanti siano più d’uno, il confronto non dovrà essere effettuato con la singola delega di pagamento, ma con la complessiva “quota occupanti”.

Autore: Redazione Fiscal Focus

RIMBORSI 730

Con comunicato stampa del 10 giugno l’Agenzia delle Entrate

ntrate fa chiarezza sul rimborso dei modelli 730 quando lo stesso supera i 4.000 euro.

Il rimborso da parte dell’Agenzia delle entrate, previo controllo preventivo, coinvolge solamente nei casi in cui il rimborso risultante dalla liquidazione del modello semplificato, di importo superiore ai 4.000 euro, riguardi il contribuente che riporta anche detrazioni di familiari a carico o crediti derivanti dalla dichiarazione dei redditi dello scorso anno.

Questa nuova modalità di rimborso si è resa necessaria, scrive l’agenzia, a seguito di numerose frodi  su rimborsi erogati direttamente dal sostituto d’imposta nelle buste paga o cedolini di pensione.

Nella maggior parte dei casi i rimborsi saranno disposti dall’Agenzia delle

Entrate non più tardi di ottobre, prima cioè del termine massimo di sei mesi

previsto dalla Legge di Stabilità.

Comunicato AE

http://www.agenziaentrate.gov.it/wps/file/Nsilib/Nsi/Agenzia/Agenzia+comunica/Comunicati+Stampa/Tutti+i+comunicati+del+2014/CS+Giugno+2014/CS+10062014+rimborsi/074_Com++st++Rimborsi+sopra+4mila+euro+10+06+14.pdf

 

LA CIRCOLARE N. 14/E/2014 – Perdite su crediti: deduzione ammessa solo se sono trasferiti tutti i rischi

La sussistenza degli elementi certi e precisi per la deducibilità dei crediti, in caso di cancellazione dei crediti medesimi dal bilancio, si realizza soltanto quanto sono trasferiti al cessionario tutti i rischi ad essi inerenti.

Con la circolare n. 14/E del 4 giugno 2014, l’Agenzia delle Entrate ha reso alcuni chiarimenti in ordine alle modifiche apportate alla disciplina sulla deducibilità delle perdite su crediti dal reddito d’impresa dalla Legge di stabilità per l’anno 2014.

L’art. 1, comma 160, legge n. 147/2013 è, infatti, intervenuto sulla formulazione dell’art. 101, comma 5, TUIR, consentendo la deduzione ai fini IRES dei crediti cancellati dal bilancio, in applicazione dei principi contabili nazionale: al ricorrere di tale fattispecie si considerano sussistere gli elementicerti e precisi.
La riferita modifica normativa è stata finalizzata ad estendere anche ai soggetti che redigono il bilancio in applicazione dei principi contabili nazionali (OIC) la presunzione secondo la quale gli elementi certi e precisi per dedurre le perdite su crediti dal reddito d’impresa sussistono in caso di cancellazione dei crediti dal bilancio in applicazione dei riferiti principi, previsione introdotta nel 2012 per i soggetti IAS adopter.
È stata in tal modo superata la disparità di trattamento venutasi a creare mediante il D.L. n. 83/2012, che aveva previsto tale possibilità soltanto ai soggetti IAS adopter.
L’Agenzia delle Entrate (circolare n. 26/E/2013) aveva precisato che gli elementi certi e precisi per la deducibilità della perdita su crediti sussistono soltanto nell’ipotesi in cui è possibile effettuare la derecognition in applicazione degli IAS (ossia occorre fare riferimento alle ipotesi di cancellazione per eventi estintivi previste nello IAS 39).
Resta, tuttavia, ferma la possibilità per l’Amministrazione finanziaria di sindacare la deducibilità della perdita su crediti, ancorchè sussistano gli elementicerti e precisi, in relazione all’inerenza della stessa quale costo sostenuto dall’imprenditore nel compimento dell’attività di gestione dell’azienda.
Con riferimento alla prassi contabile nazionale, l’Agenzia delle Entrate ha in primo luogo precisato che la nuova versione dell’OIC15 “I crediti” trova applicazione soltanto in via opzionale per i bilanci chiusi al 31 dicembre 2013; pertanto appare opportuno esaminare sia le fattispecie che legittimano la cancellazione dei crediti dal bilancio contemplate nella previgente disciplina contabile sia quelle previste dalla nuova formulazione dell’OIC15.
E ciò in considerazione del fatto la disciplina introdotta dalla legge di Stabilità 2014 trova applicazione a decorrere dal periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2013, e che per tale periodo è consentita la redazione del bilancio in applicazione della previgenteformulazione dell’OIC15.
La previgente formulazione dell’OIC15 prevedeva due distinte ipotesi di cancellazione dei crediti dal bilancio:
– una obbligatoria, nel caso di cessione pro soluto del credito. In tal caso, i crediti devono essere rimossi dal bilancio, in modo definitivo e senza azione di regresso. Il rischio di insolvenza viene di fatto trasferito al cessionario;
– una opzionale, nel caso di cessione pro solvendo. Sebbene alla cessione dei crediti non sia collegato il trasferito tutti i rischi, è consentita sia la cancellazione del credito sia la possibilità di mantenere lo stesso iscritto in bilancio.
Tale disciplina contabile deve essere, tuttavia, coordinata con il dettato dell’art. 101, comma 5 del TUIR, che nella sua vigente formulazione ancora la ricorrenza degli elementi certi e precisi necessari per la deduzione della perdita su crediti alla cancellazione degli stessi dal bilancio.
Di conseguenza, la presunzione della ricorrenza dei riferiti elementi sussiste solo nel caso di cessionepro solutodei crediti, con il sostanziale trasferimento di tutti i rischi di insolvenza in capo al cessionario.
Di contro, nell’ipotesi di cessione di crediti pro-sovendo, non è ravvisabile la presunzione di sussistenza degli elementi certi e precisi, in quanto anche nel caso in cui il cedente abbia optato per la cancellazione del credito dal bilancio – secondo quanto previsto dall’OIC15 – l’Agenzia è dell’avviso che non si tratti di un’espunzione in senso proprio, quanto piuttosto di una riclassificazione di una posta patrimoniale, senza interessare alcuna voce del conto economico.
La nuova formulazione del principio contabile in commento ha in primo luogo superato la dicotomia tra cancellazione obbligatoria e cancellazione opzionale dei crediti, prevedendo soltantola cancellazione del credito dal bilancio tutte le volte in cui il credito si estingue o viene ceduto in un’operazione di cessione, con la quale si trasferiscono al cessionario tutti i rischi inerenti allo stesso.
In particolare, si deve procedere alla cancellazione del credito dal bilancio quando:
– i diritti contrattuali su flussi finanziari derivanti dal credito si estinguono;
– la titolarità dei diritti contrattuali sui flussi finanziari derivanti dal credito viene trasferita e con essa sono trasferiti sostanzialmente tutti i rischi inerenti al credito.
Tra le ipotesi al ricorrere delle quali si ha cancellazione del credito dal bilancio si annoverano:
– il forfaiting;
la datio in solutum;
– il conferimento del credito;
– la vendita del credito, compreso il factoring con cessione pro-soluto con trasferimento sostanziale di tutti i rischi del credito;
– la cartolarizzazione con trasferimento sostanziale di tutti i rischi del credito.
Nel caso in cui al trasferimento del credito non corrisponda anche quello dei rischi, il credito resta iscritto in bilancio, come ad esempio nel caso di:
– mandato all’incasso;
– pegno di crediti;
– cessione a scopo di garanzia;
– operazioni di sconto, cessioni pro-solvendo e pro-soluto che non comportano il trasferimento dei rischi inerenti al credito.
Ciò detto, l’Agenzia delle Entrate ha precisato che la sussistenza degli elementi certi e precisi per ladeduzione del credito si realizza soltanto nei casi di cancellazione dello stesso dal bilancio al ricorrere delle ipotesi contemplate dalla nuova formulazione dell’OIC15.
Diversamente, tale presunzione non sussiste e, pertanto, i crediti non possono essere dedotti ai fini IRES.
di Roberta De Pirro – SASPI – Crowe Horwath

IMU e TASI: i chiarimenti del Ministero

5 Giugno 2014

FAQ del 4 giugno 2014 – Se Il Comune non delibera la percentuale per l’inquilino, egli partecipa comunque al 10%

Il Ministero con un comunicato del 4 giugno 2014 fornisce i chiarimenti ad alcune domande frequentemente poste all’Amministrazione finanziaria da contribuenti, operatori professionali e dai soggetti che realizzano i software per il calcolo dei tributi, in merito alla corretta applicazione della TASI e dell’IMU.

Riportiamo i chiarimenti più significativi.

TERRENI AGRICOLI MONTANI – L’art. 22 c. 2 del D.L. n. 66 del 24/4/2014 ha sostituito il c. 5 bis dell’art. 4 del D.L. n. 16/2012 prevedendo un decreto con il quale sono individuati i comuni nei quali, a decorrere dall’anno di imposta 2014, si applica l’esenzione per i terreni agricoli sulla base della loro altitudine, diversificando eventualmente tra terreni posseduti da coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali, iscritti nella previdenza agricola, e gli altri ed in maniera tale da ottenere un maggior gettito complessivo annuo non inferiore a 350 milioni di euro a decorrere dal medesimo anno 2014.
Visto l’approssimarsi della scadenza dell’acconto IMU, ci si è chiesti se il decreto previsto dalla nuova disposizione è in fase di emanazione e nel caso in cui il suddetto decreto non venga emanato in tempo utile per il pagamento dell’acconto IMU, e sia possibile continuare a riferirsi all’elenco allegato alla Circolare n. 9 del 14/6/1993, così come previsto dalla circolare del MEF n. 3/2012.
Il Ministero ha fatto sapere che se il decreto non verrà emanato in tempi utili per il versamento della prima rata dell’IMU, i contribuenti applicano le norme attualmente in vigore, quindi ci si deve continuare a riferire all’elenco allegato alla Circolare n. 9 del 14 giugno 1993, così come previsto dalla circolare del MEF n. 3 del 2012.

TERRENI AGRICOLI POSSEDUTI E CONDOTTI DA COLTIVATORI DIRETTI E IAP – Nella riformulazione del comma 669, dell’art. 1 della legge di stabilità per l’anno 2014, il presupposto impositivo della TASI è il possesso o la detenzione a qualsiasi titolo di fabbricati ivi compresa l’abitazione principale e le aree edificabili, come definiti ai fini IMU, ad eccezione in ogni caso dei terreni agricoli.
Ci si è chiesti se il rinvio alla disciplina IMU, per la definizione degli immobili da assoggettare al tributo, comporti l’applicazione del comma 2 dell’art. 13, D.L. n 201/2011, secondo cui per i coltivatori diretti e gli imprenditori agricoli professionali di cui all’art. 1 del D.Lgs n. 99/2004, iscritti alla previdenza agricola, trova applicazione la c.d. “fictio iuris” (ex art. 2, comma 1 del D.Lgs n. 504/92), per effetto della quale non si considerano fabbricabili i terreni posseduti e condotti dai predetti soggetti e sui quali persiste l’esercizio delle attività agricole.
Per tali beni, dal momento che vengono considerati terreni agricoli, chiarisce il Ministero, vale l’esclusione ai fini TASI.
Pertanto, sono esclusi dalla TASI i terreni posseduti dai coltivatori diretti e dagli imprenditori agricoli professionali di cui all’art. 1 del D. Lgs. n. 99 del 2004, iscritti alla previdenza agricola e condotti dagli stessi soggetti, sui quali persiste l’esercizio delle attività agricole.

AREE EDIFICABILI CONCESSE IN AFFITTO SOGGETTE A TASI –
 L’art. 1, comma 671, della legge di stabilità per il 2014 stabilisce che la TASI è dovuta da chiunque possieda o detenga a qualsiasi titolo le unità immobiliari di cui al comma 669 della stessa legge.
Nel caso in cui le aree edificabili non sono possedute da coltivatori diretti (CD) e da imprenditori agricoli professionali (IAP) di cui all’art. 1 del D. Lgs. n. 99 del 2004, iscritti alla previdenza agricola, ma sono date in affitto a CD o IAP che coltivano l’area edificabile, la TASI è dovuta.
La TASI è dovuta, poiché il terreno resta area edificabile. L’imposta complessiva deve essere determinata con riferimento alle condizioni del proprietario e, successivamente, ripartita tra quest’ultimo e l’affittuario o il comodatario sulla base delle percentuali stabilite dal comune.

IMMOBILI LOCATI – Ci si è chiesti come vada ripartita la TASI nel caso in cui l’immobile sia locato. Il comma 681 dell’art. 1 della legge di stabilità 2014, prevede che il titolare del diritto reale e l’occupante sono titolari di un’autonoma obbligazione tributaria; l’occupante versa la TASI nella misura compresa tra il 10 e il 30 per cento dell’ammontare complessivo dell’imposta, in base alla percentuale stabilita dal comune nel proprio regolamento, calcolata applicando l’aliquota determinata dal comune. La norma prevede, infine, che la restante parte dell’imposta sia corrisposta dal titolare del diritto reale.
Le disposizioni appena richiamate portano a concludere che l’imposta complessiva deve essere determinata con riferimento alle condizioni del titolare del diritto reale e successivamente ripartita tra quest’ultimo e l’occupante sulla base delle percentuali stabilite dal comune.
Si può fare l’esempio di un comune che abbia fissato all’1 per mille l’aliquota per gli immobili locati e al 2,5 per mille l’aliquota per l’abitazione principale.
In tal caso, nell’ipotesi di un immobile locato, l’imposta è determinata applicando l’aliquota dell’1 per mille prevista dal comune, senza tenere conto dell’eventuale utilizzazione dell’immobile da parte dell’inquilino a titolo di abitazione principale. L’imposta così determinata deve essere ripartita tra proprietario e inquilino sulla base delle percentuali stabilite dal comune.
Occorre, comunque, sottolineare che resta nella facoltà del comune prevedere particolari detrazioni a favore dell’occupante.
Se il comune nella delibera non ha indicato la percentuale per il riparto dell’imposta tra proprietario e inquilino, l’occupante deve versare il tributo nella misura minima del 10 per cento, in quanto si ritiene che una diversa percentuale di imposizione a carico del detentore debba essere espressamente deliberata dal comune stesso.

Autore: Redazione Fiscal Focus

Slitta al 16 giugno la consegna del 730

In accoglimento delle richieste avanzate dalle associazioni di categoria, è stato pubblicato ieri in Gazzetta Ufficiale il Dpcm 3 giugno 2014 con il quale è ufficializzata al 16 giugno la proroga del termine per la consegna del modello 730 a CAF e professionisti abilitati.
In base del provvedimento, i contribuenti ammessi alla compilazione del 730, potranno presentare la dichiarazione entro il 16 giugno 2014, unitamente alla documentazione necessaria all’effettuazione delle operazioni di controllo.
I CAF e i professionisti abilitati, a loro volta, avranno tempo fino al 24 giugno 2014 (rispetto alla scadenza originaria del 15 giugno), per la restituzione al contribuente della copia della dichiarazione elaborata e del relativo prospetto di liquidazione (modello 730-3).
In conseguenza dello slittamento dei termini di consegna, il provvedimento dispone la proroga all’8 luglio 2014 della data ultima per la trasmissione del modello e la comunicazione del risultato contabile finale.
Successivamente l’Agenzia delle Entrate renderà disponibili i modelli 730-4 entro 10 giorni dalla data di ricezione delle dichiarazioni trasmesse.

Consulenti del lavoro e infermieri, pronti i codici tributo

I nuovi codici tributo dovranno essere utilizzati a partire dal 3 giugno per i contributi dovuti agli Enti previdenziali dei consulenti del lavoro e degli infermieri

Con le risoluzioni 55/E e 54/E del 29.05.2014 sono stati istituiti i codici tributo per versare i contributi dovuti, a vario titolo, dai soggetti assistiti dall’Enpacl (Ente nazionale di previdenza e assistenza per i consulenti del lavoro) e dall’Enpapi (Ente nazionale di previdenza e assistenza della professione infermieristica). I codici saranno operativi dal prossimo 3 giugno e nascono dalle convenzioni sottoscritte nel mese di aprile dall’Agenzia delle Entrate e dai due enti di previdenza Enpacl ed Enpapi. I codici tributo Enpacl dovranno essere versati con F24 mentre quelli Enpapi con F24 Accise. Vista la molteplicità dei codici, si rimanda al testo delle risoluzioni 55/E e 54/E per l’elenco completo degli stessi.
Fonte: Fisco Oggi

IMU: i chiarimenti del Fisco

16 Maggio 2014

L’Agenzia Entrate con la Circolare n.10/E del 15 maggio 2014 recepisce i chiarimenti forniti in occasione degli incontri con la stampa specializzataLa Legge di stabilità 2014 al comma 715 ha previsto la parziale deducibilità dell’IMU:
– ai fini IRES per gli immobili strumentali delle società di capitali;
– e ai fini IRPEF per gli immobili strumentali dei professionisti e delle società di persone e ditte individuali;
nella misura del:
– 20% a partire dal 2014;
– e del 30% (in via transitoria)per l’anno d’imposta 2013.
Fino al 2012 l’IMU non è mai stata deducibile né ai fini Ires né tantomeno ai fini Irap. Dal 2013 diventa deducibile ai fini IRPEF e IRES, ma rimane l’indeducibilità ai fini IRAP.

Come individuare gli immobili strumentali – La Circolare n.10/E del 15 maggio 2014 al paragrafo 8 chiarisce che ai sensi dell’art. 43, comma 2, del TUIR, si considerano strumentali:
– gli immobili utilizzati “esclusivamente” per l’esercizio dell’arte o professione o dell’impresa commerciale da parte del possessore.
Restano, dunque, esclusi dall’agevolazione perché non rientrano nella “nozione di immobili strumentali” gliimmobili ad utilizzo promiscuo. Pertanto, per espressa previsione normativa, è esclusa la deducibilità dell’IMU relativa agli immobili adibiti promiscuamente all’esercizio dell’arte o professione o all’impresa commerciale e all’uso personale o familiare del contribuente.

Vige il criterio di cassa – Il criterio applicabile per la verifica della deducibilità per le imprese è quello dicassa (art.99, c.1, 2° periodo del Tuir). Cioè per competenza va imputato contabilmente l’importo dell’imposta da versare e fiscalmente va considerato deducibile l’importo del 30% (per il 2013) dell’IMUrealmente pagataSe esso non viene versato, non è deducibile.
L’Agenzia ha chiarito che l’IMU di competenza 2012, versata tardivamente nel 2013 è da considerarsi indeducibile e l’IMU di competenza 2013 non versata nei termini ordinari (nel 2013) è anch’essa indeducibile, mentre se versata tardivamente nel 2014, è deducibile al 30% operando una variazione in diminuzione in Unico.
L’IMU è deducibile se formata nel 2013, non è possibile dedurre oggi quella formatasi nel 2012.

Per i soggetti che esercitano il lavoro autonomo non esiste una norma speciale per le imposte, dunque ci si rifà all’art. 54 comma 1 del Tuir che stabilisce la deducibilità fiscale per le spese sostenute dal lavoratore autonomo. L’IMU è deducibile nell’anno del pagamento, ma dal 01.01.2013.

L’IMU del 2012, pagata tardivamente nel 2013, non è da considerarsi deducibile ai fini Irpef, in quanto si avrebbe una disparità di trattamento tra soggetti lavoratori autonomi e imprese.
Inoltre, il comma 716 dell’articolo 1 della legge 27 dicembre 2013, n. 147 reca una norma , secondo quanto chiarito dall’Agenzia nella Circolare in commento, di decorrenza specifica, stabilendo che la stessa ha effetto a decorrere dal periodo di imposta in corso al 31 dicembre 2013. Al riguardo, ai sensi dell’art. 9, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2011, l’IMU è dovuta per anni solari e, quindi, l’IMU relativa al periodo di imposta in corso al 31 dicembre 2013 coincide con l’IMU dovuta per l’anno 2013. Si ritiene, di conseguenza, che il legislatore abbia voluto consentire la deducibilità dell’IMU dal reddito di impresa e di lavoro autonomo a partire da quella relativa all’anno 2013.

Per i soggetti titolari di reddito di impresa, inoltre, tale ricostruzione va coordinata con quanto disposto dal secondo periodo del comma 1 dell’articolo 99 del TUIR in base al quale “Le altre imposte sono deducibili nell’esercizio in cui avviene il pagamento”.
Pertanto, ai fini della determinazione del reddito d’impresa, costituisce costo deducibile l’IMU di competenza del periodo di imposta in corso al 31 dicembre 2013 a condizione che l’imposta sia pagata dal contribuente. L’articolo 99, comma 1, del TUIR non introduce, infatti, ai fini della determinazione del reddito d’impresa, un puro criterio di cassa in deroga a quello generale di competenza dei componenti negativi, ma costituisce una norma di cautela per gli interessi erariali introducendo un’ulteriore condizione di deducibilità per le imposte che è appunto l’avvenuto pagamento.

In conclusione, un’eventuale IMU 2012 versata tardivamente nel 2013 è indeducibile, trattandosi di un costo di competenza del periodo di imposta 2012. Diversamente l’IMU 2013 versata tardivamente nel 2014 è un costo di competenza del periodo di imposta 2013 indeducibile in detto periodo di imposta, in assenza del pagamento, e deducibile nel successivo periodo di imposta 2014 all’atto del pagamento mediante una variazione in diminuzione in sede di UNICO.

I professionisti deducono per cassa, ma sempre dal 2013- Per i soggetti titolari di lavoro autonomo, in assenza di una specifica disposizione, si applica il principio generale dell’art. 54, comma 1, del TUIR, secondo cui sono deducibili le spese sostenute nel periodo di imposta nell’esercizio dell’arte o professione. Quindi, l’IMU è deducibile nell’anno in cui avviene il relativo pagamento, anche se tardivo, comunque a partire dall’IMU relativa all’anno 2013. Peraltro, una diversa conclusione diretta a consentire la deducibilità dell’IMU per l’anno 2012 in caso di versamento tardivo, comporterebbe una disparità di trattamento, penalizzando i soggetti che hanno eseguito tempestivamente il pagamento dell’IMU.

Autore: Redazione Fiscal Focus

 

Pubblicato i DPCM sulla detassazione 2014

Il data 29/4/2014 è stato pubblicato sulla G.U. n. 98, il DPCM del 19/2/2014 relativo alla detassazione finalizzato all’incremento della produttività.

 Queste le direttive principali che riguardano il periodo compreso tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 2014:

l’agevolazione (art. 1, comma 481, legge 228/2012), trova applicazione con esclusivo riferimento al settore privato, per i titolari di reddito da lavoro dipendente non superiore, nell’anno 2013, ad euro 40.000, al lordo delle somme assoggettate nel medesimo anno 2013 all’imposta sostitutiva.

La retribuzione che può beneficiare dell’agevolazione non può comunque essere complessivamente superiore, nel corso dell’anno 2014, ad euro 3.000 lordi.

Si ricorda che gli importi detassabili fino a 3.000 euro, per i soggetti rientranti nel limite di reddito di euro 40.000 euro nell’anno precedente, saranno assoggettati all’imposta sostitutiva di IRPE e addizionali regionali e comunali pari al 10%, anziché all’ordinaria fascia d’aliquota cui si è giunti con il proprio reddito imponibile.

 

1655 il codice per compensare gli 80 euro

Con risoluzione n. 48/E L’agenzia delle Entrate ha comunicato l’istituzione del codice tributo da utilizzare in F24 per il recupero del così detto “bonus in busta paga” di 80 euro, di cui all’articolo 1 del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66.

Nell’attesa di una complessiva revisione del prelievo fiscale finalizzata alla riduzione strutturale del cuneo fiscale, con il D.L. n. 66/2014 è stato previsto un credito a favore di lavoratori dipendenti e assimilati per i redditi fino a 26.000 euro da stimarsi fino alla fine dell’anno. L’importo massimo del bonus è pari a 640 euro per l’anno 2014 che, divisi per i mesi da maggio a dicembre, dovrebbero corrispondere a 80 euro per 8 mesi.

Si ricorda che essendo tale credito riconosciuto in via automatica dai sostituti d’imposta, qualora il dipendente e/o collaboratore abbia più datori di lavoro o più committenti, è opportuno farselo riconoscere da un sostituto solo e per questo dovrà dichiarare agli altri di non volerlo per non rischiare di doverlo ripagare in sede di denuncia dei redditi o nel conguaglio di fine anno.

I sostituti, per recuperare quanto anticipato ai dipendenti, utilizzeranno il nuovo codice tributo “1655” denominato “Recupero da parte dei sostituti d’imposta delle somme erogate ai sensi dell’articolo 1 del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66”.

In F24 il codice tributo è esposto in nella sezione “Erario” nella colonna “importi a credito compensati”, con l’indicazione nel campo “rateazione/regione/prov./mese rif.” e nel campo “anno di riferimento”, del mese e dell’anno in cui è avvenuta l’erogazione del beneficio fiscale, rispettivamente nel formato “00MM” e “AAAA”.

Il modello F24 deve essere inviato anche se con saldo zero.

 

Accertamento. Notifica solo con Poste italiane

8 Maggio 2014

Inesistente la notifica eseguita da un soggetto non abilitato a svolgere un pubblico servizio

Deve essere annullato l’atto impositivo notificato a mezzo di soggetto privato e non dalle Poste italiane o altra società abilitata a svolgere un pubblico servizio. Lo ha chiarito la Commissione Tributaria Provinciale di Benevento con la sentenza 382/3/2014 (depositata 17 marzo).

La vicenda. La controversia trae origine da due avvisi di accertamento TARSU, derivanti dall’infedele presentazione della denuncia prevista dall’articolo 70 del D.Lgs. n. 570/1993. La notifica di tali atti è stata eseguita attraverso il servizio reso da una società di poste private, sicché la parte contribuente ha proposto impugnazione dinanzi alla competente CTP di Benevento, eccependo, fra l’altro, l’illegittimità dell’operato del Comune.

Osservazioni della CTP. Ebbene, il collegio campano ha accolto il ricorso del cittadino, avendo rilevato un vizio insanabile della procedura di notificazione prescelta dall’ente impositore.

Devono infatti essere annullati gli atti di accertamento non notificati dal servizio pubblico (o comunque da società abilitata a svolgere un pubblico servizio), poiché, come evidenziato dal ricorrente, la vigente normativa impone che per la notificazione o la spedizione di un atto, nell’ambito di una procedura amministrativa o giudiziaria, debba essere utilizzato il fornitore del servizio postale universale (art.1, comma 4, D.Lgs.58/2011).

In tal senso si è espressa anche la Suprema Corte, che con la sentenza n. 11098 del 2008 ha precisato che per notificazione di atti e di comunicazioni per posta connesse con la notificazione di atti giudiziari di cui alla Legge 20 novembre 1982 n. 890 deve intendersi il servizio postale di Poste Italiane e non di poste private, così come riconosciuto dal D.Lgs. n. 261/1999 e confermato anche dal D.Lgs. n.58/2011, che all’articolo 4 indica i servizi affidati in esclusiva.

Inutile per il Comune controbattere che gli atti erano comunque pervenuti materialmente nella sfera del destinatario – che aveva proposto tempestivo ricorso – e, soprattutto, che la società, cui era stato affidato il servizio postale, era fornita della regolare autorizzazione rilasciata dal Ministero delle Comunicazioni per la consegna delle raccomandate con e senza avviso di ricevimento. L’ente impositore non ha fornito prova documentale dei suoi assunti.

Buoni motivi per compensare le spese. In conclusione, i giudici beneventani accolgono i ricorsi riuniti del contribuente, compensando le spese di lite in virtù della novità delle questioni trattate e della mancanza di giurisprudenza consolidata “su una tematica che presenta un acceso e contrastante dibattito dottrinario”.

Autore: Redazione Fiscal Focus

Associazione in partecipazione: profili reddituali

8 Maggio 2014
L’associazione in partecipazione, disciplinata dagli artt. 2549-2554 c.c., è il contratto di collaborazione con il quale un soggetto, l’associante, attribuisce a un altro soggetto, l’associato, una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari, verso il corrispettivo di un determinato apporto.

Sotto il profilo fiscale, l’utile conseguito dall’associato nell’ambito di un contratto di associazione in partecipazione è considerato reddito di lavoro autonomo o reddito di capitale, in base alla natura del suo apporto; più in dettaglio:
• qualora l’apporto sia costituito da solo lavoro, il reddito percepito dall’associato ha natura di reddito di lavoro autonomo e la relativa remunerazione è deducibile dal reddito d’impresa dell’associante;
• qualora, di converso, l’apporto sia diverso da opere e servizi, il reddito dell’associato ha natura di reddito di capitale e la relativa remunerazione è indeducibile dal reddito d’impresa dell’associante.

Va tuttavia precisato che, ove l’associante emetta titoli o strumenti finanziari partecipativi a fronte dell’apporto dell’associato, il reddito di quest’ultimo si considera sempre di capitale, indipendentemente dalla natura dell’apporto (lavoro, capitale o misto); di conseguenza, la relativa remunerazione è sempre indeducibile in capo all’associante (cfr. Circolare Agenzia delle Entrate 26/E del 16.6.2004, § 2.3).

La qualificazione degli apporti. Sotto il profilo normativo, occorre fare riferimento, da un lato, all’art. 53 co. 2 lett. c) del TUIR, che ricomprende tra i redditi di lavoro autonomo “non professionale” i proventi dei contratti per i quali l’apporto “è costituito esclusivamente dalla prestazione di lavoro; dall’altro, al combinato disposto dell’art. 47 co. 2 e dell’art. 109 co. 9 lett. b) del TUIR, che prevede, invece, l’assimilazione al regime dei dividendi per i proventi dei contratti “allorché sia previsto un apporto diverso da quello di opere e servizi“.

Nella Circolare 26/E del 2004 (§ 2.3), secondo l’Agenzia, sono assimilati ai contratti nei quali l’apporto è rappresentato da solo lavoro quelli nei quali è prevista la partecipazione agli utili e alle perdite, ma senza il corrispettivo di alcun apporto (c.d. “cointeressenza propria“). In tali casi, di conseguenza, laremunerazione è integralmente deducibile dal reddito dell’associante.

Reddito da apporto di solo lavoro: criterio di cassa o di competenza. Come si è visto, il reddito dell’associato che apporta esclusivamente opere o servizi ha natura di reddito di lavoro autonomo “non professionale”. In tal caso, ai sensi dell’art. 54 co. 8 del TUIR, il reddito soggetto a tassazione è rappresentato dall’intero ammontare percepito e va dichiarato nel periodo d’imposta in cui è percepito (secondo il criterio di cassa). Non sono pertanto ammessi in deduzione eventuali costi sostenuti dall’associato, quali quelli, ad esempio, corrisposti a collaboratori coordinati e continuativi (cfr. circ. 12.6.2002 n. 50/E, § 1.1). All’associato non viene, peraltro, riconosciuta alcuna deduzione forfetaria né detrazione (come previsto, invece, per altre tipologie di redditi di lavoro autonomo non professionali).

Se l’associato effettua l’apporto nell’esercizio della propria impresa (in forma individuale o collettiva), opera il principio di attrazione dei proventi percepiti nell’ambito del reddito d’impresa, come componenti positivi di reddito e, per l’imputazione, vale il criterio di competenza. Va tuttavia precisato che, mentre per le società (di persone e di capitali) tale presunzione è assoluta, per l’associato imprenditore individuale il reddito continuerebbe a mantenere natura di reddito di lavoro autonomo, se il contratto è riferibile alla sfera non imprenditoriale della persona.

La deducibilità delle remunerazioni per l’associante. Sotto il profilo dell’associante che eroga le remunerazioni all’associato (nei contratti con apporto solo di opere e servizi), ai sensi dell’art. 95 co. 6 del TUIR, dette remunerazioni risultano integralmente deducibili nell’ambito della determinazione del reddito d’impresa, secondo il criterio di competenza e indipendentemente dall’imputazione a conto economico (anche se, in altre parole, l’associante non ha iscritto la remunerazione a Conto economico, ma la rileva in sede di ripartizione dell’utile di esercizio).

In merito alle condizioni per poter operare la deducibilità delle erogazioni a beneficio dell’associato, le istruzioni ai modelli di dichiarazione attuali non riportano più le condizioni affermate, da ultimo, dal mod. Unico 2004 PF, fascicolo 3, Appendice.

Ci si chiede pertanto se possano essere ancora considerati attuali i requisiti ivi fissati, in base ai quali la deducibilità delle quote di partecipazione agli utili spettanti agli associati in partecipazione è consentita, agli effetti fiscali, solo a condizione (cfr. anche circ. 12.6.2002, n. 50/E, § 1.2):
– che il contratto di associazione in partecipazione risulti da atto pubblico o da scrittura privata autenticata, ovvero da scrittura privata registrata;
– che il contratto contenga la specificazione dell’apporto e, qualora questo sia costituito da denaro e altri valori, contenga elementi certi e precisi comprovanti l’avvenuto apporto;
– che, qualora l’apporto sia costituito da una prestazione di lavoro, gli associati non siano familiari dell’associante, ai sensi dell’art. 62 co. 2 (ora art. 60 co. 1) del TUIR;
– che il contratto non consista nell’apporto rappresentato dall’emissione, da parte dell’associante, di titoli o certificati in serie o di massa, i cui proventi sono soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta (c.d. “titoli atipici”).

La tesi dell’Associazione dei Dottori Commercialisti di Milano. Secondo quanto sostenuto dall’Agenzia nella circ. 50/E del 2002, pertanto, se il contratto di associazione in partecipazione (con apporto di solo lavoro) è privo di data certa, la remunerazione spettante all’associato non concorrerebbe alla formazione del reddito di quest’ultimo né sarebbe deducibile in capo all’associante.

In senso contrario a tale linea interpretativa, si pone la norma di comportamento dell’Associazione dei Dottori Commercialisti di Milano -ADC 1.10.2003 n. 153, secondo la quale tali condizioni non si desumono da alcuna norma, per cui l’effettività del rapporto può essere dimostrata anche con altri elementi di prova, indipendentemente dall’esistenza di un contratto scritto avente data certa.

Autore: Marco Brugnolo

Rottamazione cartelle, c’è tempo fino al 31 maggio

8 Maggio 2014
Comunicato Stampa Equitalia.
Con il comunicato stampa diffuso ieri, Equitalia aggiorna il calendario dopo l’ennesima proroga alla “rottamazione delle cartelle”, per effetto delle modifiche normative introdotte dalla Legge 68/2014, di conversione del decreto legge n. 16/2014. 
A seguito del suddetto intervento legislativo, per la definizione agevolata delle cartelle si avrà tempo fino al prossimo 31 Maggio, come già evidenziato in un nostro precedente intervento (Rottamazione cartelle al 31 maggio –FiscalFocus.info del 06.05.2014).

Per effetto dell’ulteriore proroga, si precisa nel comunicato stampa, “entro il 31 ottobre 2014, e non più il 30 giugno, Equitalia trasmetterà a ciascun ente interessato l’elenco dei debitori che hanno pagato tempestivamente e, tramite posta ordinaria, informare dell’avvenuta estinzione del debito coloro che hanno effettuato il versamento. Inoltre, con la proroga la sospensione della riscossione dei debiti interessati dalla definizione agevolata slitta dal 15 aprile al 15 giugno 2014”.

Dunque, fino al 31 maggio si potrà beneficiare dello stralcio degli interessi di mora (che maturano dalla data di notifica della cartella in caso di mancato pagamento delle somme entro i 60 giorni previsti) e degli interessi per ritardata iscrizione a ruolo (che decorrono dalla scadenza del termine previsto per il versamento dell’imposta fino alla data di consegna all’agente della riscossione dei ruoli).

Si ricorda come non tutti gli importi possano essere ammessi alla definizione agevolata dei ruoli: le entrate erariali, come l’Irpef e l’Iva, beneficiano infatti integralmente dello stralcio degli interessi, mentre per le entrate non erariali, come il bollo dell’auto e le multe per violazione al codice della strada, l’agevolazione è limitata agli interessi di mora.

Sono invece espressamente escluse dalla previsione le somme dovute per effetto di sentenze di condanna della Corte dei Conti, i contributi richiesti dagli enti previdenziali (Inps, Inail), i tributi locali non riscossi da Equitalia e le richieste di pagamento di enti diversi da quelli ammessi.

Chi sceglie di aderire dovrà versare in un’unica soluzione il restante importo del debito, l’aggio, le spese di notifica e quelle per eventuali procedure attivate.
Equitalia invierà entro il prossimo 31 ottobre mediante posta ordinaria una comunicazione di avvenuta estinzione del debito ai contribuenti che avranno pagato nei termini previsti.

È possibile effettuare il versamento in tutti gli sportelli di Equitalia, negli uffici postali tramite bollettino F35, indicando nel campo “Eseguito da”, oltre ai dati personali, anche la dicitura “Definizione Ruoli – L.S. 2014”.
Nel comunicato stampa viene evidenziato che “per la corretta ricezione del pagamento, si consiglia di utilizzare un bollettino F35, completo di codice fiscale, per ognuna delle cartelle/avvisi che si vuole pagare in forma agevolata”.

Autore: Redazione Fiscal Focus