Aiuti di Stato da restituire solo per licenziamenti disciplinari

Per la norma irrilevante la riduzione di personale per motivi economici
La sanzione colpisce la diminuzione di organico in tutte le imprese
Qualora, nei cinque anni successivi all’ottenimento di un aiuto di Stato, venga ridotta l’occupazione oltre il 10% nell’unità produttiva interessata, l’azienda è tenuta alla restituzione totale o parziale dell’agevolazione. La riduzione è in ogni caso consentita per motivi economici. La norma è contenuta nell’articolo 6 del decreto legge “dignità” (87/2018) che ha come obiettivo la «tutela dell’occupazione nelle imprese beneficiarie di aiuti».
Per quanto riguarda i soggetti coinvolti, il provvedimento fa generico riferimento alle imprese italiane o estere che «operano sul territorio nazionale», a prescindere dalla loro dimensione. Più complessa è l’individuazione dell’incentivo interessato. La norma fa riferimento alle «misure di aiuto di Stato che prevedono la valutazione dell’impatto occupazionale».
Il primo nodo da sciogliere è se la definizione di “aiuto di Stato” sia quella di origine comunitaria o meno. Qualora prevalesse la definizione comunitaria, si tratterebbe di qualsiasi misura che procura un vantaggio economico all’impresa che non sarebbe in grado di ricevere in condizioni normali di mercato, ossia in assenza di intervento dello Stato (Comunicazione Ce 262/15). Per esser definito aiuto, non è rilevante quale sia l’articolazione che lo eroga (Stato, Regione o Comune).
Andrebbe chiarito se in questa definizione rientrino le integrazioni salariali, anche se al riguardo la Comunicazione 262/15 precisa che è un vantaggio «se uno Stato membro paga una parte dei costi relativi ai dipendenti di una specifica impresa, solleva tale impresa dai costi connessi alle sue attività economiche. Esiste un vantaggio anche quando le autorità pubbliche pagano un’integrazione salariale ai dipendenti di una specifica impresa».
L’aspetto che sembra rilevare è che la misura deve avere tra le condizioni di concessione (anche se non in modo esclusivo) la «valutazione dell’impatto occupazionale». Pertanto si tratta di iniziative che hanno l’obiettivo di incrementare taluni contratti di lavoro o quello di aumentare l’occupazione rispetto a un determinato periodo.
In questo senso dovrebbero essere interessate, ad esempio, le agevolazioni per l’occupazione dei Neet o per Garanzia giovani. Ma anche l’incentivo occupazione per il Mezzogiorno o quello previsto per i lavoratori over 50 disoccupati da oltre 12 mesi.
Ad ogni modo, le disposizioni si applicano ai benefici concessi o banditi, nonché agli investimenti agevolati avviati dopo l’entrata in vigore del decreto 87/2018 (14 luglio 2018).
La norma prevede che l’impresa decade dal beneficio se nei cinque anni successivi «alla data di completamento dell’investimento» c’è una riduzione dell’occupazione superiore al 10%; la decadenza è disposta in misura proporzionale alla riduzione del livello occupazionale ed è comunque totale in caso di riduzione superiore al 50 per cento. Se, da un lato, la norma sembra attrarre un’ampia platea di agevolazioni, dall’altro lato la condizione di decadenza sembra parametrata solo per specifiche agevolazioni che prevedono un investimento. Pertanto rimane il dubbio sulla determinazione del quinquennio per gli incentivi legati all’occupazione fruiti mensilmente.
Ai fini della determinazione del limite del 10% o del 50% la norma fa riferimento solo alle riduzioni su iniziativa dell’impresa, anche se sono escluse quelle per motivi economici. Questo sembra voler significare che le uniche riduzioni rilevanti sono quelle per motivi disciplinari.
Per le modalità di attuazione la norma non fa un espresso rinvio a uno specifico decreto, ma la relazione illustrativa precisa che il compito spetta a ogni amministrazione concedente. Si tratta di una modalità piuttosto innovativa che rischia di generare un’applicazione del provvedimento non uniforme, con conseguente ampio contenzioso.
Fonte “Il sole 24 ore”
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Enzo De Fusco

Terzo settore, piccoli rimborsi ai volontari con autocertificazione

di Gabriele Sepio

Rimborsi documentati per i volontari con autocertificazione solo per le spese di minore entità previamente individuate dagli organi sociali. Il Codice del Terzo settore (Cts) riprende e rafforza, dunque, le previsioni della legge 266 del 1991, riferendo le nuove disposizioni a tutti gli enti che sceglieranno di iscriversi nell’istituendo Registro unico nazionale del Terzo settore (articolo 17 del Dlgs 117/2017).

Il Codice distingue in maniera netta la figura del volontario da quella del lavoratore. Il primo presta la propria opera a favore della collettività a titolo personale, spontaneo e gratuito, con diritto al rimborso delle spese effettivamente sostenute e documentate e a un’apposita copertura assicurativa. Il secondo, invece, è legato all’ente da un rapporto di lavoro (dipendente o autonomo), percependo quindi la relativa retribuzione. Non è consentito, pertanto, rivestire entrambe le qualità all’interno del medesimo ente (articolo 17, comma 5, del Cts).

Per evitare che dietro alle prestazioni di volontariato possano mascherarsi veri e propri rapporti lavorativi, l’articolo 17 del Codice del Terzo settore vieta la corresponsione ai volontari di rimborsi spese di tipo forfetario. La certificazione del rimborso, pertanto, dovrà essere accompagnata dai documenti idonei a dimostrare l’effettivo sostenimento delle spese da parte del volontario e l’inerenza delle stesse all’attività svolta dall’organizzazione. I limiti massimi e le condizioni del rimborso, inoltre, dovranno essere individuati preventivamente da parte degli dell’ente del Terzo settore. Particolare attenzione andrà prestata al rispetto di queste condizioni: in caso di controlli dell’Amministrazione finanziaria, i rimborsi non documentati o eccedenti i limiti preventivamente stabiliti potrebbero essere qualificati come compensi, con conseguente ripresa a tassazione (si veda, sul punto, l’ordinanza della Cassazione n. 23890 del 2015).

Il Codice del Terzo settore introduce, tuttavia, una semplificazione per le spese di minore entità: se l’importo non supera i 10 euro giornalieri e i 150 euro mensili, è prevista la possibilità di erogare il rimborso a fronte di un’autocertificazione resa dal volontario. In tal caso, l’organo sociale competente (assemblea e/o consiglio di amministrazione) dovrà comunque deliberare in merito all’individuazione delle tipologie di spese e le attività di volontariato per i quali è ammessa questa semplificazione. Il rimborso a fronte di autocertificazione non è consentito, in ogni caso, per le attività di volontariato che hanno ad oggetto la donazione di sangue o di organi (articolo 17, comma 4 del Cts).
L’intento è quello di snellire gli adempimenti per gli acquisti di valore contenuto. Se il volontario spende, ad esempio, per comprare il pranzo, un caffè, o il biglietto del trasporto pubblico, può, in questo modo, evitare di conservare e allegare i relativi scontrini. Resta ferma, in ogni caso, la necessità di indicare nell’autocertificazione il dettaglio delle spese, che dovranno rientrare tra quelle per cui l’ente ha specificamente e preventivamente autorizzato questa tipologia di rimborso.

Fonte “Il sole 24 ore”

Contributo integrativo minimo deducibile ai fini Irpef

di Pierpaolo Ceroli e Luisa Miletta

Un tema spesso ricorrente in occasione della compilazione del modello dichiarativo è quello che riguarda la deducibilità dei contributi erogati alla Cassa di previdenza ed assistenza di categoria da parte dei liberi professionisti.

Ai sensi dell’articolo 10 comma 1 lett. e) del Tuir sono oneri deducibili dal reddito complessivo i contributi previdenziali ed assistenziali versati in ottemperanza a disposizioni di legge, quindi obbligatori, nonché quelli versati facoltativamente alla gestione della forma pensionistica di appartenenza, tra cui quelli per la ricongiunzione dei differenti periodi assicurativi, per il riscatto degli anni di laurea (sia a fini pensionistici che ai fini della buonuscita) e per la prosecuzione volontaria.

La legge non pone tetti all’importo portato in deduzione dall’imponibile e tali oneri sono deducibili anche se sostenuti per conto di familiari fiscalmente a carico. Un caso particolare riguarda l’impresa familiare in cui il titolare dell’impresa è obbligato al versamento dei contributi previdenziali anche per i familiari che collaborano nell’impresa; tuttavia, poiché per legge il titolare ha diritto di rivalsa sui collaboratori stessi non può mai dedurli, neppure se di fatto non ha esercitato la rivalsa, a meno che il collaboratore non sia anche fiscalmente a carico. I collaboratori, invece, possono dedurre i contributi soltanto se il titolare dell’impresa ha effettivamente esercitato detta rivalsa.

Gli oneri previdenziali che i professionisti devono versare alle rispettive casse professionali sono, invece, di due tipi: il contributo soggettivo, obbligatorio, determinato sulla base di una percentuale del reddito professionale netto prodotto nell’anno precedente, e quello integrativo, pari a una maggiorazione percentuale su tutti i corrispettivi rientranti nel volume annuale di affari ai fini dell’imposta sul valore aggiunto.

Mentre il contributo soggettivo è sempre deducibile, quello integrativo non gode dello stesso trattamento ai fini Irpef, pertanto non è deducibile poiché, essendo assistito dal meccanismo della rivalsa, non concorre, di fatto, alla formazione del reddito di lavoro autonomo, in quanto trattasi di un onere non a carico del professionista bensì del cliente. Sul punto, con la sentenza n. 20784/2016, la stessa Corte aveva affermato che il contributo integrativo non può essere dedotto dal reddito complessivo del professionista nemmeno quando abbia provveduto al pagamento senza riscuoterlo dai propri clienti come previsto dalla norma istitutiva, anche in presenza di situazioni particolari che non hanno consentito di esercitare la rivalsa.

Quello che invece è possibile dedurre dal reddito complessivo è il contributo integrativo minimo, dovuto nell’ipotesi in cui il contribuente abbia realizzato un volume d’affari limitato o pari a zero, qualora questo sia rimasto effettivamente a carico del contribuente, come anche precisato dall’Agenzia nelle risoluzioni 69/2006 e 25/2011.

Il tema della deducibilità dei contributi previdenziali a carico dei professionisti è rilevante ai fini Irap, poiché, soltanto se detti contributi sono qualificabili come costi inerenti all’attività professionale, essi possono concorrere (in diminuzione) alla formazione del valore della produzione netta, ai sensi dell’articolo 8 del Dlgs 446/97.

Fonte “Il sole 24 ore”

Il pagamento non consente di dedurre il costo per un’operazione soggettivamente inesistente

di Andrea Taglioni

Non è deducibile il costo relativo a un’operazione soggettivamente inesistente semplicemente adducendone il pagamento della fattura. Quest’ultimo, infatti, rappresenta solamente la movimentazione finanziaria sottostante al documento cartolare. Di conseguenza, il costo per l’acquisizione del bene o servizio, sebbene documentato da fattura per operazioni soggettivamente inesistenti e purché non utilizzato per commettere reati, è deducibile se il contribuente dimostra la certezza del componente negativo e l’inerenza con l’esercizio dell’attività d’impresa. È quanto emerge dall’ordinanza 17788/2018 della Cassazione (clicca qui per consultarla ).

L’agenzia delle Entrate notificava ad una società un avviso di accertamento a fini Iva e delle imposte dirette fondato sul disconoscimento di costi derivanti da fatture emesse per operazioni soggettivamente inesistenti. L’avviso veniva impugnato dalla contribuente e la Commissione rigettava il ricorso.

In sede di appello la Commissione tributaria regionale accoglieva parzialmente il ricorso limitatamente alla detraibilità dei costi ai fini delle dirette, confermando l’indetraibilità dell’Iva. In particolare, i giudici ritenevano che l’intervenuto pagamento dell’importo fatturato fosse sufficiente ai fini della deducibilità del costo. Di diverso avviso è stata la Cassazione che, a seguito dell’impugnazione della sentenza, ha accolto il ricorso dell’ufficio.

Prima di esaminare la questione attinente la deducibilità dei costi i giudici ricordano come, nel caso di fatture soggettivamente inesistente, anche nell’ipotesi in cui il cessionario sia consapevole della frode, l’indeducibilità opera unicamente quando i costi e le prestazioni di servizio siano stati direttamente utilizzati per il compimento dell’attività delittuosa.

Tuttavia, secondo la Cassazione, l’accertamento del pagamento della fattura non poteva essere l’elemento determinante, in assenza dei presupposti di legge, per confermare la deducibilità.

Ai fini del rispetto dei criteri generali per la determinazione del reddito d’impresa è necessario, quindi, verificare la concreta deducibilità dei costi con riferimento, non tanto all’esborso finanziario, quanto, piuttosto, ai requisiti di certezza, inerenza, effettività, competenza, determinatezza o determinabilità, del costo sostenuto.

Pertanto, se ai fini Iva risulta pacifica l’indetraibilità dell’imposta afferente l’inesistenza sia essa oggettiva che soggettiva dell’operazione, per le imposte dirette la deducibilità del costo, anche se la fattura è soggettivamente falsa, è comunque subordinata alla sussistenza dei presupposti previsti per la corretta determinazione del reddito.

Fonte “Il sole 24 ore”

 

Per il redditometro si profila una revisione condivisa con associazioni di categoria e Istat

di Marco Mobili e Giorgio Pogliotti

Non è un vero e proprio addio al redditometro, piuttosto un’ampia revisione dello strumento, condivisa con associazioni di categoria e Istat.

È una delle novità contenute nell’ultima bozza del decreto legge su occupazione, ludopatia e anti delocalizzazione delle imprese, che verrà portato lunedì al preconsiglio per approdare al primo consiglio dei ministri utile, il giorno stesso o martedì, una volta superato il nodo delle coperture, soprattutto per la norma che vieta il gioco pubblico. Nel pacchetto lavoro, dopo il coro di critiche che si è levato dal mondo produttivo contro la stretta sui contratti a termine e la somministrazione, è arrivata la frenata della Lega: «Capisco la voglia del collega Di Maio di limitare il precariato – ha detto il vicepremier Matteo Salvini – ma faremo attenzione che con la lotta al precariato, sacrosanta, non si danneggino gli interessi dei lavoratori e delle imprese costringendoli al nero». Intervenendo al festival del lavoro in corso a Milano, Salvini ha citato i voucher: «Sono stati ipocritamente cancellati, sono fondamentali in alcuni settori, vanno reintrodotti». Il ministro delle Politiche Agricole, Gian Marco Centinaio, ha aggiunto: «Il datore di lavoro potrà beneficiare di prestazioni lavorative in piena legalità e con coperture assicurative in caso di incidenti, il lavoratore riceverà un compenso esentasse e con i contributi pensionistici».

Il testo del Dl è oggetto di limature, ad esempio sembra verrà cancellata l’abolizione dello staff leasing. Fa discutere anche la norma che assoggetta al limite del 20% attualmente previsto per l’assunzione di lavoratori con contratto a tempo determinato, anche i lavoratori somministrati. Così come l’incremento del costo contributivo crescente di 0,5 punti per ogni rinnovo a partire dal secondo, che si applica al contratto a tempo determinato anche in somministrazione. Vengono reintodotte le causali dal primo rinnovo di un contratto a termine, senza che venga previsto alcun periodo transitorio.

Tornando al contrasto alla ludopatia, è previsto lo stop ad ogni forma di pubblicità e sponsorizzazione di giochi e scommesse che potrebbe arrivare a costare per le casse dello Stato 700 milioni in tre anni. La ricerca della copertura sarebbe indirizzata verso il ministero della Salute, mettendo nel mirino il costo che oggi il sistema sanitario nazionale deve affrontare per curare le patologie da gioco compulsivo. Tra gli ultimi ritocchi, c’è la deroga al divieto di pubblicità per le lotterie nazionali a estrazione differita, che salva la lotteria della Befana. Altra deroga riguarda gli stessi spot dei Monopoli che predicano il gioco responsabile e sono fatti salvi i contratti di sponsorizzazione e pubblicitari in essere.

Tornando all’intervento mirato sul redditometro per calibrare meglio la determinazioni sintetica dei redditi verso la cosiddetta economia “non osservata”; viene abolita l’efficacia dell’attuale decreto ministeriale del 2015 che fissa i valori del redditometro e disposta la messa a punto di un nuovo Dm dell’Economia che si applicherà agli accertamenti per l’anno d’imposta 2016 ,la cui prescrizione scade nel 2022. Ancora da stimare, anche se per un valore già noto pari a qualche decina di milioni di euro, l’abolizione dello split payment per i professionisti.

Fonte “Il sole 24 ore”

Formazione 4.0 agevolata solo se i costi sono certificati

di Giuseppe Carucci e Barbara Zanardi

Le imprese che intendono usufruire del credito d’imposta per la formazione 4.0 dei propri dipendenti devono organizzarsi in fretta per soddisfare entro il 31 dicembre 2018 i requisiti previsti dal decreto attuativo pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» del 22 giugno.

L’agevolazione

La legge di Bilancio 2018 attribuisce infatti a tutte le imprese, indipendentemente dalla forma giuridica, dal settore economico nonché dal regime contabile adottato, un credito d’imposta nella misura del 40% del costo aziendale del personale dipendente per il periodo in cui si è occupato di attività di formazione nell’ambito delle tecnologie previste dal piano nazionale Industria 4.0 (ad esempio, big data e cyber security), a condizione che siano applicate negli ambiti vendita, marketing, informatica, tecniche e tecnologie di produzione.

Il credito d’imposta è riconosciuto, fino ad un importo massimo annuale di 300mila euro in modo “automatico”. L’impresa, dunque, matura il beneficio con il sostenimento delle spese ammesse all’agevolazione senza che sia necessario presentare un’istanza di accesso all’incentivo. Vediamo, quindi, quali sono le azioni da porre in essere per poter usufruire di questa agevolazione in scadenza al 31 dicembre 2018, con riferimento alla quale sono state messe in campo risorse per 250 milioni di euro.

Cosa fare per garantirsi il credito

La prima azione riguarda l’individuazione di un piano di formazione compatibile con l’ambito oggettivo previsto dalla norma, dei soggetti interni od esterni da incaricare, dei dipendenti con contratto di lavoro subordinato – anche a tempo determinato – destinatari delle attività, del loro costo azienda nonché della possibile durata di queste attività formative. Con queste informazioni le imprese dovrebbero essere in grado di stimare il possibile beneficio: un’attività di formazione, ad esempio, in tema di robotica avanzata utilizzata nell’ambito delle tecniche di produzione, da erogare a 50 dipendenti per dieci giorni lavorativi con un costo azienda medio giornaliero di 200 euro, genererebbe un credito di 40mila euro.

Terminata la prima analisi di fattibilità, è necessario avviare le trattative con le organizzazioni sindacali. La legge di Bilancio, infatti, prevede come condizione che le attività di formazione negli ambiti richiamati debbano essere pattuite attraverso contratti collettivi aziendali o territoriali mentre il decreto Mise/Mef ricorda che tali contratti devono essere depositati in via telematica presso l’Ispettorato territoriale del lavoro competente. Inoltre deve essere rilasciata a ciascun dipendente una dichiarazione del rappresentante legale dell’impresa nella quale sia attestata l’effettiva partecipazione alle attività formative agevolabili, con indicazione degli ambiti aziendali nei quali sono applicate le conoscenze e le competenze acquisite o consolidate.

Un altro passo necessario è ottenere la certificazione dei costi di formazione dal soggetto incaricato della revisione legale, o da un professionista iscritto nel Registro dei revisori legali per le imprese non soggette a revisione. Tale certificazione va allegata al bilancio e deve attestare l’effettivo sostenimento delle spese ammissibili nonché la corrispondenza delle stesse alla documentazione contabile predisposta dall’impresa.

Completa il quadro delle azioni da compiere per garantirsi l’agevolazione la redazione di una relazione, prevista dal decreto attuativo, che illustri le modalità organizzative e i contenuti delle attività di formazione svolte. Tale relazione va predisposta a cura del dipendente partecipante alle attività in veste di docente o tutor nel caso di formazione organizzata internamente oppure dal soggetto formatore nel caso in cui l’attività sia stata esternalizzata (a soggetti accreditati o ad Università). Sempre dal punto di vista documentale, l’impresa deve conservare anche i registri nominativi di svolgimento delle attività formative sottoscritti congiuntamente dal personale discente e docente o dal soggetto formatore esterno all’impresa.

Altri adempimenti attengono inoltre la compilazione della dichiarazione dei redditi relativi al periodo d’imposta 2018.

Fonte “Il sole 24 ore”

Delega ampia agli intermediari per la consultazione e l’acquisizione dei documenti digitali

di Michele Brusaterra

Rinvio a gennaio 2019 per l’obbligo di emissione delle fatture elettroniche per la cessione di benzina e gasolio per autotrazione e possibilità di delegare l’intermediario anche per la consultazione e acquisizione delle fatture elettroniche o dei loro duplicati informatici, nonché per la registrazione dell’indirizzo telematico.

Mentre il Dl 79/2018 ha varato il rinvio al 1° gennaio 2019 dell’obbligo di fatturazione elettronica per benzina e gasolio, previsto originariamente per il primo luglio 2018 dalla legge 205/2017, facendo così tirare un sospiro di sollievo ai gestori di impianti di distribuzione, per quanto riguarda gli intermediari il provvedimento 13 giugno scorso ne ha ampliato i «poteri».

È bene ricordare che il provvedimento 30 aprile 2018 , in tema di fattura elettronica e di intermediari, dispone, tra le altre, che il cedente e prestatore può decidere di trasmettere le fatture elettroniche allo Sdi, attraverso un intermediario, così come il cessionario e committente può decidere di ricevere le fatture elettroniche, recapitate dallo Sdi, sempre attraverso un intermediario. In tale ultimo caso deve essere comunicato al cedente e prestatore «l’indirizzo telematico», ossia il codice destinatario o l’indirizzo di posta certificata (Pec) dell’intermediario stesso.

La delega all’intermediario di cui si è detto, può essere conferita e revocata direttamente attraverso le funzionalità rese disponibili nel sito web dell’agenzia delle Entrate ovvero attraverso la presentazione dell’apposito modulo presso un qualsiasi ufficio territoriale della stessa Agenzia.

Con il provvedimento del 13 giugno scorso si prevede che ai soggetti di cui al comma 3, dell’articolo 3 del Dpr 322/1998, può essere delegata anche la «Consultazione e acquisizione delle fatture elettroniche o dei loro duplicati informatici», nonché la «Registrazione dell’indirizzo telematico» del delegante.

Per quanto concerne la consultazione, il provvedimento in commento elenca tutta una serie di azioni che l’intermediario può porre in essere tra cui vale la pena di ricordare la ricerca, consultazione e acquisizione di tutte le fatture elettroniche emesse e ricevute dal delegante utilizzando lo Sdi – che rende disponibili i file fino al 31.12 dell’anno successivo a quello di ricezione – e di tutte le ricevute, la consultazione dei dati delle operazioni transfrontaliere, la consultazione delle comunicazioni delle liquidazioni periodiche Iva, la consultazione degli elementi di riscontro «fra quanto comunicato con i prospetti di liquidazione trimestrale dell’Iva e i dati delle fatture emesse e ricevute dal soggetto delegante» e, ancora, la consultazione delle opzioni, per conto del soggetto delegante di cui al Dlgs 127/2015.

Per quanto riguarda la registrazione dell’indirizzo telematico, l’intermediario può individuare pec o codice destinatario del delegante, nonché generare il codice a barre bidimensionale (QR-Code).

La delega, la cui durata può essere fissata dal delegante all’atto del suo conferimento e ove non indicata ha durata di 4 anni, può essere conferita direttamente attraverso apposite funzionalità che si trovano all’interno dell’area riservata del delegante, Entratel o Fisconline, ovvero tramite delega da presentare all’ufficio competente dell’agenzia delle Entrate. Con tali modalità le deleghe possono anche essere revocate, in qualsiasi momento.

Fonte “Il sole 24 ore”

Il Fisco riconosce il trasferimento all’estero solo a partire dalla cancellazione in Comune

di Francesco Avella

 

La Corte di cassazione nella sentenza n.16634/18 ribalta il verdetto della Ctr Puglia n. 64/07/2017 (si veda il Qf del 31 marzo 2017) affermando che ai sensi dell’articolo 2, comma 2, Tuir le persone iscritte nelle anagrafi della popolazione residente dovrebbero considerarsi «in ogni caso residenti» con la conseguenza che, ai fini delle imposte sui redditi, «il trasferimento della residenza all’estero non rileva fino a quando non risulti la cancellazione dall’anagrafe di un Comune italiano».
La Ctr Puglia, al contrario, aveva giudicato non decisivo il mantenimento dell’iscrizione nelle anagrafi della popolazione residente (e la mancata iscrizione all’Aire), posto che la situazione fattuale mostrava un chiaro trasferimento della dimora abituale e del centro degli interessi vitali all’estero: nel caso di specie, il contribuente persona fisica si era infatti trasferito da anni nel Regno Unito e ivi svolgeva la sua attività lavorativa. La Ctr Puglia era giunta a tale conclusione senza far leva sulla tie-breaker rule contenuta nella Convenzione Italia-Regno Unito, ma semplicemente interpretando la norma interna valorizzando i principi costituzionali: «L’applicazione di qualsivoglia strumento presuntivo non può avvenire in maniera asettica e automatica, dovendo esso, per converso, avere riguardo necessariamente alla reale capacità contributiva ex articolo 53 Costituzione, nonché evitare una inammissibile duplicazione d’imposta».
La chiusura della Corte di cassazione – che con la sentenza n.16634/18 ribadice peraltro una posizione già espressa nelle precedenti sentenze 21970/2015, 677/2015 e 9139/2006 – continua a non convincere.
Nel caso di specie (Regno Unito), così come nella maggior parte dei casi precedenti (Svizzera, Romania), il trasferimento era avvenuto in uno Stato con il quale era in vigore una convenzione contro le doppie imposizioni che avrebbe comunque consentito di superare il dato normativo nazionale, posto che riveste carattere di specialità rispetto alle corrispondenti norme nazionali e dovendo la potestà legislativa essere comunque esercitata, ai sensi dell’articolo 117 Costituzione, nel rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali (da ultimo, in tal senso, Cassazione 13 ottobre 2017, n. 24112). La Cassazione avrebbe cioè potuto superare il dato meramente formale dell’iscrizione nelle anagrafi della popolazione valorizzando la tie-breaker rule contenuta nella Convenzione Italia-Regno Unito (sebbene dalle sentenze non si comprenda se il contribuente ne avesse invocato i benefici) e i criteri ivi contenuti, in particolare il centro degli interessi vitali che, nel merito, la Ctr Puglia aveva stabilito essere nel Regno Unito e non in Italia.
Inoltre, un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’articolo 2, comma 2, Tuir come quella fornita dalla Ctr Puglia pare più rispondente al canone della capacità contributiva e più rispettosa dei vincoli posti dal diritto dell’Unione Europea in termini di libertà fondamentali (almeno ogni qual volta, come nel caso di specie, il trasferimento avvenga verso uno Stato membro dell’Ue) e, pertanto, sarebbe stata preferibile anche prescindendo dalla Convenzione Italia-Regno Unito.
La sentenza della Cassazione impone quindi ai contribuenti particolare attenzione e cautela, affinché non sottovalutino un adempimento – quello della cancellazione dalle anagrafi della popolazione residente e della conseguente iscrizione all’Aire – che, pur avendo carattere formale, rischia di avere un impatto drammaticamente sostanziale.

Fonte “Il sole 24 ore”

Acconti e fatture Iva: detrazioni al riparo anche se la data della vendita è incerta

di Matteo Balzanelli, Massimo Sirri e Riccardo Zavatta

È salva la detrazione dell’Iva riguardante il versamento di un acconto eseguito dal potenziale acquirente dei beni se, al momento del versamento, tutti gli elementi relativi alla futura vendita risultano certi, anche se la data della cessione è ancora incerta. È questo in estrema sintesi il principio che emerge dalla recente giurisprudenza, europea e italiana, intervenuta sul tema. Ma vediamo, con ordine, quali sono le indicazioni normative relative all’esigibilità dell’imposta sul valore aggiunto.

La disciplina
La possibilità di riscuotere l’Iva e il correlato diritto di detrazione sono ancorati al momento in cui è effettuata la cessione dei beni o la prestazione del servizio (fatto generatore). Nel caso del pagamento di un acconto opera una deroga rispetto a questa regola generale e l’imposta diviene esigibile (e detraibile) al momento del pagamento, come prevede in linea generale l’articolo 6, comma 4 del Dpr 633/1972 . Affinché operi la deroga, tuttavia, è necessario che tutti gli elementi che qualificano la futura cessione o prestazione siano già noti all’atto del versamento e, in particolare, che i beni e i servizi oggetto dell’operazione siano già specificamente individuati.

La pronuncia europea
Questo principio, già fatto proprio dalla giurisprudenza comunitaria (sentenza C-419/02 ), si arricchisce ora di qualche elemento di dettaglio, grazie a ulteriori indicazioni della stessa Corte di giustizia Ue espresse con la sentenza dello scorso 31 maggio (cause C-660/16 e C-661/16 ).

Secondo la pronuncia europea, occorre porsi nella prospettiva dell’operatore al momento in cui è pagato l’acconto. Se a tale data sono già definite le caratteristiche e il prezzo dei beni, ancorché non sia nota con precisione la data della futura vendita, il diritto di detrazione è salvo, a meno che il cessionario (o committente, per i servizi) sapesse o non potesse ragionevolmente ignorare che l’operazione era incerta.

L’esigenza di provare che, nel momento del pagamento dell’acconto (ma lo stesso potrebbe dirsi in caso di emissione anticipata della fattura), l’operazione è già individuata nei suoi elementi costitutivi e che, pertanto, non sussistono ragionevoli dubbi sulla sua esecuzione nei termini concordati, assume una valenza generale nel meccanismo applicativo del tributo. Non soltanto, quindi, agli effetti dell’esigibilità dell’imposta e del diritto di detrazione, ma anche sulla stessa qualificazione dell’operazione in termini d’imponibilità, non imponibilità, esenzione, eccetera.

L’esempio
Si pensi al caso di un acconto percepito in vista di una successiva cessione all’esportazione. Per emettere fattura non imponibile ai sensi dell’articolo 8 del decreto Iva, è necessario provare non solo che il bene oggetto della vendita è specificamente individuato, ma altresì che è destinato all’esportazione (Cassazione 10606/2015 ).

In assenza di precise indicazioni di fonte ufficiale, si ritiene che l’effettiva destinazione del bene sia comprovabile sulla base di idonea documentazione di corredo e, quindi, innanzitutto, esibendo il contratto di fornitura contenente le indicazioni su termini e modalità di consegna.

In aggiunta, potrebbero essere di aiuto gli accordi con lo spedizioniere incaricato e le pattuizioni relative all’esecuzione delle formalità doganali, così come lo scambio di corrispondenza commerciale fra le parti e, in generale, tutta la documentazione che illustri in modo coerente lo svolgimento dell’operazione.

Le operazioni con l’estero
Analoghe considerazioni valgono in caso di cessioni intracomunitarie, laddove rileva il trasferimento dei beni in altro Stato Ue (fermo restando che l’emissione della fattura su acconto ricevuto rappresenta ora una mera facoltà per il cedente). Nel caso di operazioni con l’estero, del resto, la cautela è più che giustificata, considerato che l’acquisizione dello status di esportatore abituale e il diritto di utilizzare il plafond per eseguire acquisti senza applicazione dell’imposta, si collegano alla registrazione delle fatture, comprese quelle d’acconto (nella prospettiva che l’operazione sia destinata a perfezionarsi), e non più alla materiale esecuzione dell’operazione (circolare 145/1998).

Gli obblighi formali
Infine, è bene fare attenzione anche alla redazione della fattura d’acconto. Innanzitutto va ricordato, come ribadito recentemente dalla Cassazione (ordinanza 13882/2018) allineata alla giurisprudenza Ue (sentenza C-516/14 ), che l’inosservanza di taluni obblighi formali nella compilazione delle fatture non comporta l’automatica indetraibilità dell’imposta (o il diniego del regime di non imponibilità), dovendosi tenere conto anche delle informazioni e degli elementi integrativi e succedanei rispetto alla fattura. Tuttavia, non v’è dubbio che una puntuale descrizione dei beni/servizi sia assai opportuna per far ulteriormente constare la volontà di eseguire la prospettata operazione.

Fonte “Il sole 24 ore”

L’indennità di buonuscita a carico del lavoratore non sfugge a prelievo ordinario

di Romina Morrone

La quota di indennità di buonuscita afferente al periodo riscattato con somme interamente a carico del lavoratore è soggetta a tassazione ordinaria, trattandosi di contributi non correlati ad un rapporto previdenziale riferibile al datore di lavoro. Lo ha affermato la Cassazione nell’ordinanza 16560/2018 del 22 giugno.

Un ufficiale dell’aeronautica militare ha impugnato il silenzio-rifiuto dell’agenzia delle Entrate, formatosi a seguito dell’istanza di rimborso della maggiore trattenuta Irpef 2004, effettuata sulla liquidazione dell’indennità di buonuscita per cessazione dell’attività lavorativa. A parere del contribuente, l’imponibile fiscale del Tfr erogato dall’Inpdap doveva essere calcolato detraendo la quota parte riferibile ai contributi da lui versati. Altalenante l’esito del giudizio nei gradi di merito. L’agenzia ha impugnato la sentenza della Ctr in Cassazione, sostenendo che il giudice di appello aveva erroneamente ritenuto applicabile l’articolo17 del Tuir ad una fattispecie di contribuzione volontaria totalmente a carico del lavoratore e sottolineando che il periodo di riscatto (e cioè quello corrispondente ad anni e a mesi che il dipendente decide volontariamente di aggiungere al periodo di servizio, versando quote contributive per rendere tali annualità, altrimenti non valutabili, utili ai fini del calcolo della buonuscita) doveva essere tassato per intero poiché non era correlato ad un rapporto previdenziale riferibile al datore di lavoro.

La Corte ha accolto il ricorso ribadendo che, se la formazione di una parte dell’indennità di buonuscita viene alimentata con contributi interamente ed esclusivamente a carico del dipendente (come nel caso delle anzianità convenzionali e per i servizi pre-ruolo ammessi a riscatto), da lui versati volontariamente, tale parte dell’indennità non va sottratta ad imposizione fiscale ordinaria Irpef, poiché, in tal caso, la funzione del versamento consegue il riconoscimento normativo dell’anzianità convenzionale. Tali conclusioni sono conformi alla giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenza 178/86), secondo la quale la non tassabilità pro parte (non è applicabile nelle ipotesi di contribuzione volontaria totalmente a carico del lavoratore, come quella in esame, poiché) è determinata sulla base del rapporto, alla data in cui è maturato il diritto alla percezione, fra l’aliquota del contributo previdenziale posto a carico dei lavoratori dipendenti e quella complessiva dello stesso contributo.

Fonte “Il sole 24 ore”

Noleggio, l’iperammortamento si sdoppia

di Giacomo Albano e Gianluca De Candia

Iperammortamento anche per i beni concessi in leasing operativo o noleggio. È quanto emerge da una lettura sistematica della disciplina dell’iperammortamento e dai chiarimenti finora forniti sulle modalità di fruizione del beneficio.

Va ricordato preliminarmente che, mentre in caso di leasing finanziario la maggiorazione degli ammortamenti (super ed iper) è riconosciuta esclusivamente in capo al locatario, in caso di locazione operativa o noleggio l’agevolazione è fruita dal locatore (circolare 4/E/2017).

A chi spetta il beneficio

La spettanza del beneficio in capo al locatore (non finanziario) in caso di iperammortamento è stata espressamente confermata dalle Faq del ministero dello Sviluppo economico (aggiornamento del 12 luglio 2017), dove è stato chiarito che, in caso di noleggio, i requisiti necessari per la maggiorazione del 150% potranno essere soddisfatti sia internamente che esternamente; pertanto la società di noleggio che acquista un bene iperammortizzabile per locarlo a un terzo potrà garantire l’integrazione/interconnessione del bene, alternativamente, sia con i propri sistemi o con la propria catena del valore che con i sistemi di fabbrica e la catena del valore dell’utilizzatore finale.

In entrambi questi casi il soggetto che ha diritto all’agevolazione fiscale resta il locatore, che dovrà dimostrare il soddisfacimento dei requisiti, anche quelli verificati in capo al locatario.

Le modalità di calcolo

Appurate le condizioni per la fruizione dell’agevolazione per i beni in leasing operativo, non è tuttavia chiaro se le modalità di soddisfacimento del requisito dell’interconnessione (interno o esterno) possano avere impatti sul meccanismo di calcolo.

Va ricordato che la maggiorazione si concretizza in una deduzione extracontabile che deve avvenire in base alle regole fiscali (coefficienti tabellari di ammortamento), a prescindere dai comportamenti di bilancio. Le società di locazione generalmente ammortizzano in bilancio i beni concessi in locazione sulla base della durata del contratto di locazione, scorporando dal costo ammortizzabile il valore residuo al termine del contratto. Questa tecnica di ammortamento non è riconosciuta fiscalmente e, pertanto, l’ammortamento imputato a conto economico è deducibile nei limiti dei coefficienti tabellari (ridotti a metà nel primo esercizio).

Interconnessione interna

Fatte queste premesse, si ritiene che le modalità – interne o esterne – attraverso cui è soddisfatto il requisito dell’interconnessione possano avere effetti solo indiretti sul calcolo dell’agevolazione, considerato che in caso di interconnessione interna il locatore ha maggiori possibilità di locare il bene, anche a locatari diversi, per un periodo pari alla sua vita utile.

Infatti, qualora il bene sia concesso in locazione (anche a soggetti diversi) per un periodo almeno pari alla durata dell’ammortamento fiscale, la società di locazione operativa avrà diritto al beneficio sull’intero costo del bene, in un numero di anni pari al periodo di ammortamento (ovvero alla metà del periodo di ammortamento se la società di locazione acquisisce il bene in leasing finanziario).

Al contrario, se il bene è concesso in locazione per un periodo inferiore alla durata dell’ammortamento fiscale (come è più probabile in caso di interconnessione esterna) il diritto all’agevolazione sarà proporzionale al periodo di durata del noleggio. Anche in tal caso, peraltro, il beneficio spetterà nei limiti dei coefficienti di ammortamento fiscale, a prescindere dalla quota di ammortamento imputata a conto economico.

Va da ultimo ricordato che la circolare 4/E/2017 ha chiarito che l’agevolazione spetta solo se la locazione/noleggio rappresenta l’oggetto principale dell’attività del locatore. Al contrario, qualora l’attività di noleggio sia effettuata «in maniera occasionale e non abituale con società estere del gruppo», è negata la spettanza della maggiorazione.

Il calcolo dell’iperammortamento in funzione delle modalità con cui è soddisfatto il requisito dell’interconnessione

1. L’interconnessione interna

• Alfa Spa ha acquistato un macchinario per la produzione di contenitori in plastica. Il macchinario ha un costo pari a 100 ed un coefficiente di ammortamento fiscale del 25%.

• Il macchinario viene interconnesso ai sistemi di fabbrica di Alfa e concesso in locazione operativa a Beta, che lo utilizza per il packaging dei propri prodotti, pagando un canone composto da una componente fissa ed una variabile (in funzione dei pezzi prodotti).

• Il contratto di noleggio prevede una durata di 36 mesi (dal 1.7.2018 al 30.06. 2021), al termine dei quali si assume che il bene sia concesso in locazione ad un terzo soggetto Gamma per un periodo di 18 mesi.

• L’ammortamento deducibile, considerando la riduzione alla metà del coefficiente di ammortamento per il primo anno, è pari a Euro 12,5 per il 2018, 25 per 2019, 2020 e 2021 e 12,5 per il 2022 (si assume una pari imputazione a conto economico).

• La maggiorazione su cui applicare il beneficio dell’iper-ammortamento, è quantificata in Euro 150 (pari al 150% di 100) e le quote di ammortamento annue incrementali sono pari a 37,5 (25% di 150), ridotte a metà al primo esercizio..

2. L’interconnessione esterna

• Alfa Spa ha acquistato un macchinario per la produzione di laminati. Il macchinario ha un costo pari a 100 ed un coefficiente di ammortamento fiscale del 25%.

• Il macchinario viene concesso in locazione operativa a Beta ed interconnesso ai sistemi di fabbrica del locatario, a fronte di un canone di noleggio.

• Il contratto di noleggio prevede una durata di 36 mesi al termine dei quali il contratto terminerà ed il bene tornerà nella disponibilità di Alfa che lo rivenderà al produttore (in virtù di una clausola di buy-back).

• Il valore residuo del bene al termine del periodo di noleggio è stimato pari a 28; l’ammortamento contabile è parametrato alla durata del contratto di noleggio e tiene conto del valore residuo ottenendo così quote di ammortamento annue pari 24 [(100-28):3], parametrate alla durata della locazione.

• Il coefficiente massimo tabellare è pari al 25% (che corrisponde ad un ammortamento massimo di Euro 25)

• La maggiorazione su cui applicare il beneficio dell’iper-ammortamento, è quantificata in Euro 112,5.

Fonte “Il sole 24 ore”

Perdite su crediti deducibili nell’anno del fallimento

di Luca Gaiani

Bonus variabili a dipendenti o a intermediari di competenza del 2017 deducibili già nel modello Redditi 2018, anche se gli obiettivi a cui sono condizionati vengono riscontrati nei primi mesi del 2018. In presenza di crediti verso debitori in sofferenza al 31 dicembre, con sentenza di fallimento dichiarata nell’anno successivo, la deduzione deve invece essere rinviata a quest’ultimo esercizio. È questa la posizione di Assonime, espressa nella circolare 15 di ieri, relativa alla dichiarazione dei redditi delle società di capitali, sul problema della rilevanza fiscale dei fatti intervenuti dopo la chiusura dell’esercizio.

La circolare Assonime dedicata alla scadenza del versamento dell’Ires e dell’Irap si sofferma sul tema dei costi di competenza che assumono certezza a seguito di eventi verificatisi dopo il 31 dicembre, ma prima della data di redazione del bilancio. L’associazione dichiara di condividere i chiarimenti forniti, prima dall’Oic e poi dalle Entrate nel corso del videoforum del Sole 24 Ore del 24 maggio, secondo cui gli importi per rischi ed oneri di un anno, che diventano costi certi nei primi mesi di quello successivo, mantengono nel bilancio la natura di accantonamenti (e non di debiti) e, anche se già quantificati in modo puntuale in base all’evento post 31 dicembre, diventano deducibili solo nell’anno seguente.

In presenza di una causa legale del 2017, che si definisce con sentenza o transazione nel febbraio di quest’anno, od anche nel caso di un rinnovo contrattuale dei primi mesi del 2018 che riconosce una somma una tantum sull’anno precedente, la deduzione va rinviata al periodo di imposta 2018.

Questi chiarimenti delle Entrate risolvono anche, secondo Assonime, l’ulteriore interrogativo, più volte posto in queste settimane, riguardante la deducibilità di perdite subite su crediti vantati verso debitori falliti dopo il 31 dicembre 2017, ma prima dell’approvazione del relativo bilancio. Trattandosi di perdita che deriva da un atto valutativo, la deduzione fiscale rimane legata ai requisiti sanciti dall’articolo 101, comma 5 del Tuir (non intervenendo la derivazione rafforzata) e dunque può operarsi solo nell’anno di apertura della procedura (2018).

Per contro, rientrano in una casistica del tutto diversa le ipotesi di oneri di competenza di un anno per i quali, dopo il 31dicembre, viene solo riscontrata o confermata la spettanza, oppure quantificato esattamente l’ammontare. Non si tratta, come indicato nel corso del videoforum con l’agenzia delle Entrate, di oneri che nascono come accantonamenti per poi trasformarsi in costi a seguito di fatti sorti nel nuovo anno, ma di componenti che, sin dall’esercizio di competenza, sono veri e propri costi.

Pertanto, nel bilancio di competenza, l’onere deve essere rilevato tenendo conto non solo dell’importo quantificato post 31 dicembre, ma anche della sua natura certa (debito). Sono quindi immediatamente deducibili nel modello Redditi 2018, conferma la circolare Assonime, i costi di competenza del 2017, che vengono quantificati con fatture pervenute solo nel nuovo esercizio, oppure gli Mbo riconosciuti a dipendenti o manager o ancora i bonus riconosciuti ad agenti, con riferimento a un certo esercizio, la cui spettanza venga riscontrata e il cui importo sia quantificato solo all’inizio dell’anno seguente.

Fonte “Il sole 24 ore”

Compensazione orizzontale con F24 telematico per i titolari di partita Iva

di Pierpaolo Ceroli e Luisa Miletta

Chance compensazione per il versamento degli acconti di imposta in scadenza il prossimo 2 luglio. Ma con limitazioni da rispettare. Le regole da seguire per effettuare correttamente la compensazione si fondano su due norme cardine.

•Articolo 17 del Dlgs 241/1997, modificato da ultimo dalla manovrina dello scorso anno (decreto legge 50/2017), che disciplina la compensazione orizzontale, consistente nella possibilità di compensare debiti e crediti di natura diversa sorti nei confronti di differenti Enti (Erario, Inps, Inail, enti locali).
•Articolo 34 comma 1 della legge 388/2000 che fissa il limite massimo dei crediti di imposta e dei contributi compensabili in base all’articolo 17 del Dlgs 241/1997, ovvero rimborsabili ai soggetti intestatari di conto fiscale, in 5mila euro per ciascun anno solare.

L’articolo 17 del Dlgs 241/1997 stabilisce che i debiti tributari possono essere saldati con eventuale compensazione dei crediti, dello stesso periodo, nei confronti dei medesimi soggetti, emergenti dalle dichiarazioni e dalle denunce periodiche. Tale compensazione deve essere effettuata entro la data di presentazione della dichiarazione successiva.

In tema di compensazione l’Iva presenta delle peculiarità in quanto la compensazione del credito annuale o relativo a periodi inferiori all’anno di tale imposta, per importi superiori a 5mila euro annui, può essere effettuata a partire dal decimo giorno successivo a quello di presentazione della dichiarazione o dell’istanza da cui il credito emerge.

Inoltre, a seguito delle disposizioni contenute nel decreto legge 50/2017, le aziende e i professionisti sono obbligati a presentare il modello F24 tramite la procedura Entratel o Fisconline, in caso di utilizzo in compensazione di credito con un debito di natura fiscale. Ciò scaturisce della modifica apportata dall’articolo 3, comma 3, del Dl 50/2017, all’articolo 37, comma 49-bis, del Dl 223/2006, che estende l’obbligo di presentazione telematica della delega a tutti i titolari di partita Iva che utilizzano in F24 un credito relativo a Iva, ritenute alla fonte, imposte sui redditi, imposte sostitutive, addizionali, Irap e crediti d’imposta esposti nel quadro RU del modello Redditi. A differenza del passato, questo avviene indipendentemente dal saldo finale della delega stessa, che può pertanto essere anche positivo, mentre prima della modifica l’obbligo era limitato al caso di importo finale pari a zero.

Resta escluso dalle nuove regole l’utilizzo in compensazione dei crediti di natura non erariale (per esempio Inps e Inail), per i quali non vi è l’obbligo del canale telematico dell’agenzia delle Entrate. L’esclusione dai nuovi obblighi sussiste anche per i crediti rimborsati dai sostituti a seguito di liquidazione del modello 730 e le somme erogate in base all’articolo 1 del Dl 66/2014 e dell’articolo 1, commi 12 e successivi, della legge 190/2014 («bonus 80 euro»). Tuttavia, nell’ipotesi in cui la medesima delega di pagamento accolga anche altri crediti utilizzati in compensazione «orizzontale», allora risulta necessario ricorrere ai servizi telematici dell’Agenzia. Si possono utilizzare i servizi di internet banking messi a disposizione dagli intermediari della riscossione convenzionati con le Entrate quando nello stesso F24 vi è una compensazione verticale parziale, con chiusura a debito.
Si segnala a tal fine la risoluzione 68/E/2017 che individua i codici tributo da utilizzare in sede di compensazione di crediti tributari (allegati 1, 2 e 3).

Fonte “Il sole 24 ore”

Concordato con obbligo di transazione fiscale

di Giulio Andreani

La proposta di definizione dei debiti fiscali disciplinata dall’articolo 182-ter della legge fallimentare (la “transazione fiscale”) è obbligatoria, nell’ambito di un concordato preventivo di qualsiasi tipo, qualora il piano concordatario non preveda il pagamento integrale e senza dilazione di questi debiti (quindi sostanzialmente sempre). Pertanto la mancata presentazione della stessa costituisce un vizio del ricorso per l’ammissione alla procedura di concordato.

Ma che cosa accade, ai fini dell’ottenimento delle falcidie e delle dilazioni richieste, se la proposta, una volta presentata, non è approvata dal Fisco?

Posizione paritaria per il Fisco

All’Erario non sono attribuiti diritti diversi e maggiori di quelli spettanti agli altri creditori e pertanto, se le maggioranze previste dalla legge vengono comunque raggiunte, il suo rigetto della proposta di transazione fiscale non impedisce l’approvazione della domanda di concordato e la produzione degli effetti previsti da tale proposta.

Lo ha affermato da tempo la Cassazione (sentenza 22931/2011 ), stabilendo che la omologazione del concordato obbliga tutti i creditori, indipendentemente dal loro voto favorevole o contrario, poiché è da escludere la sussistenza di un particolare statuto per il Fisco, non essendo dubbio che un’eccezione al principio maggioritario, se fosse stata voluta, sarebbe stata espressamente prevista dal legislatore. In assenza di una previsione di tale natura, vale quindi anche nei confronti dell’amministrazione finanziaria il disposto dell’articolo 184 L.f. ai sensi del quale «il concordato omologato è obbligatorio per tutti i creditori anteriori alla pubblicazione nel registro delle imprese del ricorso di cui all’articolo 161».

È vero che la Suprema corte ha affermato questo principio prima delle modifiche apportate al citato articolo 182-ter dalla Legge di bilancio 2017, quando la transazione fiscale era facoltativa, ma non vi è ragione per non ritenerlo applicabile tuttora, perché il principio traeva origine dal menzionato articolo 184 e non dall’articolo 182-ter. Va da sé che, indipendentemente dalle considerazioni che precedono, per effetto dell’entità dei debiti fiscali il voto del Fisco può anche risultare decisivo, così come può esserlo quello di qualsiasi altro creditore; ma ciò è, semmai, l’effetto di una situazione di fatto e non di un particolare diritto attribuito all’Erario.

Gli effetti del «no»

Nel concordato in continuità gli effetti della mancata approvazione della proposta di transazione fiscale sono più incerti, perché l’articolo 186-bis, comma 2, lettera c), della L.f stabilisce che il piano può prevedere «una moratoria fino ad un anno dall’omologazione per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, salvo che sia prevista la liquidazione dei beni sui quali sussiste la causa di prelazione».

L’incertezza nasce dal fatto che la dottrina e la giurisprudenza interpretano diversamente questa norma. Infatti, secondo un primo orientamento, essa avrebbe natura precettiva solo ai fini della esclusione del diritto di voto da parte dei creditori prelatizi di cui sia previsto il soddisfacimento entro un anno dalla omologazione, ma non impedirebbe un pagamento ultrannuale, a condizione che i creditori prelatizi cui esso è offerto vengano ammessi al voto, essendo in tal caso il loro trattamento equiparabile a un pagamento non integrale.

In base, invece, a un secondo orientamento, la norma testé citata impedirebbe in assoluto al debitore di prevedere una moratoria oltre l’anno per il pagamento dei creditori prelatizi, tra i quali rientra il Fisco, salvo il caso in cui il creditore vi abbia acconsentito attraverso la stipula di un apposito patto. La prima tesi è prevalente ed è stata avallata dalla Cassazione, ma la seconda ha trovato conforto nelle pronunce di alcuni tribunali, come quelli di Roma e di Milano.

I dubbi sullo stop oltre l’anno

Adottando questo secondo indirizzo, l’accoglimento della proposta di transazione fiscale da parte dell’agenzia delle Entrate risulta decisiva ai fini della possibilità di pagare i debiti fiscali oltre un anno dalla omologazione; infatti, in base a questo orientamento, l’obbligo di pagamento infrannuale stabilito dal citato articolo 186-bis può essere derogato solo in presenza del consenso dei creditori prelatizi interessati, da esprimere mediante un patto paraconcordatario, che, per quanto attiene i rapporti con il Fisco, dovrebbe essere costituito dalla transazione fiscale.

Questo consenso è ritenuto necessario anteriormente alla domanda di concordato, ma relativamente ai crediti fiscali ciò non è possibile, visto che la proposta di transazione fiscale viene approvata mediante il voto della proposta di concordato, che può essere espresso solo successivamente.

Fonte “Il sole 24 ore”

Via libera alla deduzione dei costi per i lavori su immobili di terzi

di Gianfranco Ferranti

La decisione delle Sezioni unite della Corte di cassazione in merito alla detraibilità dell’Iva relativa alle spese di ristrutturazione o manutenzione straordinaria degli immobili di terzi consente di dare soluzione anche alla questione concernente la deducibilità dei relativi costi ai fini delle imposte sui redditi.

La Suprema corte ha affermato, nella sentenza a Sezioni unite 11533 dello scorso 11 maggio , che va riconosciuto il diritto alla detrazione dell’Iva per lavori di ristrutturazione o manutenzione anche in ipotesi di immobili di proprietà di terzi, purché sia presente un nesso di strumentalità con l’attività d’impresa o professionale, anche se quest’ultima risulti soltanto potenziale o di prospettiva. E ciò anche se, per cause estranee al contribuente, tale attività non abbia poi potuto concretamente esercitarsi.

La sentenza della Corte riguarda l’Iva ma la soluzione adottata è destinata, come detto, ad esplicare effetto anche rispetto all’analoga questione della deducibilità per il conduttore degli stessi costi ai fini delle imposte sui redditi.

La questione Iva

La problematica oggetto del giudizio di legittimità ha riguardato l’inerenza delle spese di ristrutturazione degli immobili detenuti in locazione ai fini sia del diritto ad esercitare la detrazione dell’Iva (nel caso in cui l’attività d’impresa non avesse ancora avuto inizio) sia del rimborso della stessa imposta, riconosciuto, dall’articolo 30, terzo comma, lettera c), del Dpr 633/1972 , in presenza di costi ammortizzabili.

La Corte, dopo aver ricordato il contrasto interpretativo emerso nell’ambito della giurisprudenza di legittimità, ha ricordato che le sentenze “negative” erano fondate sul timore che il contratto di locazione fosse stato predisposto allo scopo di consentire alla conduttrice una detrazione di cui la proprietaria dell’immobile in quanto «consumatrice finale» non avrebbe avuto diritto, «al di là della giustificazione giuridica fornita, che con riguardo alla detrazione è stata anche quella del divieto previsto per i beni non ammortizzabili».

Tale tesi non è stata, però, condivisa alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia (sentenze C-672/16 del 2018 , C-132/16 del 2017, C-124/12 del 2013 e C-29/08 del 2009) che, in base al principio di neutralità dell’imposta, ha riconosciuto il diritto alla detrazione dell’Iva «purché sia presente un nesso di strumentalità con l’attività d’impresa o professionale, anche se quest’ultima sia potenziale o di prospettiva. E ciò pur se – per cause estranee al contribuente – la predetta attività non abbia poi potuto concretamente esercitarsi».

Effetti sulle imposte sui redditi

Il locatario può dedurre, ai fini delle imposte sui redditi, i costi sostenuti per la ristrutturazione o la manutenzione straordinaria dell’immobile nel quale lo stesso svolge l’attività d’impresa, essendo gli stessi inerenti all’esercizio dell’impresa. A tale conclusione è possibile pervenire alla luce della sentenza 11533/2018, nella quale viene fatto un breve cenno anche alle precedenti incertezze della giurisprudenza della Cassazione in merito alla «simmetrica questione della deduzione dei costi».

In alcune sentenze era stata negata la deducibilità dei costi in esame per difetto del requisito dell’inerenza, perché il locatore sarebbe risultato il beneficiario ultimo dei miglioramenti apportati all’immobile. In altre pronunce era stata, invece, sostenuta la tesi opposta, ritenendo che la deducibilità degli stessi costi non potesse essere subordinata al diritto di proprietà dell’immobile, essendo sufficiente che fossero sostenuti nell’esercizio dell’impresa, al fine del migliore svolgimento dell’attività imprenditoriale da parte del locatario.

Quest’ultima soluzione è senz’altro condivisibile, anche perché altrimenti la deduzione degli stessi costi non spetterebbe né al conduttore né al locatore (in quanto non sostiene la spesa).

Fonte “Il sole 24 ore”

Quello spiraglio per il ravvedimento sulle operazioni soggettivamente inesistenti

di Antonio Zappi

Se un cessionario/committente assume consapevolezza che un’operazione economica è stata posta in essere da una controparte diversa da quella indicata in fattura come fornitore, ma se ne accorge solo dopo aver presentato la dichiarazione, incappa in una operazione accertabile come soggettivamente inesistente e rischia di vedersi contestare la falsità documentale.

Molto spesso, allora, il contribuente, nella difficoltà di provare con elementi oggettivi la propria buona fede, preferirebbe rinunciare a difendere la detrazione del tributo ed a ravvedere un’indebita detrazione dell’Iva, ante-accertamento, per evitare ogni contaminazione da illecito altrui e non subire conseguenze penali, nonché anche per evitare il rischio della sanzione per infedele dichiarazione (aumentabile anche della metà per violazioni da falsa fatturazione, ex articolo 5, comma 4-bis, del Dlgs 471/1997, ovvero dal 135% al 270% dell’imposta). Detta sanzione, peraltro, assorbe anche quella per l’utilizzo in compensazione del credito illecito, giusto quanto chiarito con la risoluzione 36/E/2018, con la quale le Entrate hanno illustrato il trattamento sanzionatorio da adottare nei casi di detrazione e/o di utilizzo di crediti Iva derivanti da falsa fatturazione, ma nella quale, per ovvie ragioni, non hanno fatto alcun cenno all’ipotesi di poter anche ravvedere infrazioni alla normativa tributaria suscettibili di fraudolenza, in quanto è ben nota la netta chiusura espressa sul tema nel corso del Telefisco 2018, sia dalle Entrate che dalla Guardia di finanza.

Tuttavia, se già l’impossibilità di ravvedere gli effetti delle fatture false inserite in dichiarazione è alquanto controversa, poiché la posizione del Fisco (circolare 180/E/98) non per tutti coincide né con la formulazione dell’articolo 13 del Dlgs 472/1997, né con quella dell’articolo 13-bis del Dlgs 74/2000 (Cassazione, sentenza 5448/2018), in un caso come quello prospettato, anche a voler aderire alla tesi erariale secondo cui il concetto di «errore od omissione» va escluso per le violazioni connotate dalla fraudolenza, un ravvedimento operoso sarebbe difficilmente sindacabile anche dal Fisco, perché l’erronea identificazione in buona fede della controparte di una operazione economica realmente avvenuta integra un errore qualificabile come colposo, ovvero, mutuando le stesse parole espresse dalle Entrate per giustificare le inibizioni dal ravvedimento, un’infrazione non considerabile come “caratterizzata da un grado di intrinseca antigiuridicità”, al punto che, in assenza di ravvedimento, per il contribuente estraneo alla frode la detrazione del tributo sarebbe anche ammessa.

Proponendo, quindi, una resipiscenza dall’errore originario con una dichiarazione a sfavore non appena si assume consapevolezza della diversità anagrafica del reale fornitore, un ravvedimento operoso per escludere fatture includenti un elemento antigiuridico, ma avente origine in un errore/omissione, appare perfezionabile, mentre risulterebbe illegittimo far derivare solo da una non adeguata verifica della controparte di un’operazione economica (oggettivamente esistita) un’ipotesi preclusiva del ravvedimento operoso di un’indebita detrazione ed infedele dichiarazione (sanzione base 90%): perché finché c’è inconsapevolezza non può esserci frode.

Fonte “Il sole 24 ore”

Integrativa sprint per usare il credito in F24

di Giorgio Gavelli e Riccardo Giorgetti

 

Termini ristretti per presentare una dichiarazione integrativa “a favore” sul periodo d’imposta 2016, almeno se si vuole usare subito il credito emergente da tale modello. L’approssimarsi delle scadenze dei versamenti (2 luglio per le imposte sui redditi e l’Irap senza maggiorazione, oggi – 18 giugno – per Imu e Tasi) rende opportuno affrettarsi nelle correzioni di eventuali errori commessi nelle dichiarazioni presentate nel 2017 (dal modello 730 al modello Redditi, sino a quello Irap), nel caso in cui la rettifica consenta di maturare un credito compensabile. Infatti, come affermato dalle Entrate a Telefisco 2018 , «il credito derivante dalla dichiarazione integrativa a favore presentata entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa all’anno d’imposta successivo, può essere utilizzato in compensazione già a partire dal giorno successivo all’integrazione».

L’ESEMPIO

Quindi, ad esempio, trasmettendo l’integrativa entro il prossimo 30 giugno, si può “monetizzare” il 2 luglio in F24 il credito così maturato (e non chiesto a rimborso con l’integrativa), utilizzandolo in compensazione. Si tratterà di integrative “entro l’anno”. Quindi nel compilare il modello 2018 per il periodo d’imposta 2017:
• non va compilato il quadro DI;
• occorre inserire, quale «eccedenza di imposta risultante dalla precedente dichiarazione», l’importo che emerge tenendo conto anche dell’integrativa (l’importo influirà sul risultato della dichiarazione e potrà anche essere rimborsato dal sostituto per chi presenta il 730 o chiesto a rimborso per chi presenta Redditi);
• se al momento di presentazione della dichiarazione 2018 tale credito è già stato utilizzato, anche solo in parte, in F24 (indicando come anno di riferimento il 2016), andrà compilato anche il rigo successivo, che ha lo scopo di impedire che il credito già compensato venga fruito anche in dichiarazione.

Le limitazioni
Una procedura solo in parte simile è riservata ai soggetti tenuti alla contabilità, nel caso in cui la correzione tramite integrativa abbia riguardato un errore commesso a proprio danno nell’ambito delle rilevazioni contabili.

Facciamo l’ipotesi del contribuente che si è dimenticato di annotare un costo di competenza o ha sbagliato per eccesso nel riportare un ricavo. In questo caso, la compensazione immediata in F24 (indicando come anno di riferimento quello dell’errore commesso) del credito emergente dalla dichiarazione integrativa “a favore” può riguardare due tipi di correzioni:
• le integrative “entro l’anno” (ad esempio per il periodo d’imposta 2016 entro il prossimo 31 ottobre);
• le integrative “ultrannuali”, cioè gli aggiustamenti pro contribuente nei modelli presentati oltre il termine di invio della dichiarazione relativa all’anno d’imposta successivo.

Tuttavia, nella seconda delle situazioni appena menzionate, va compilato il quadro DI del modello Redditi (o del quadro IS, sezione XVII, del modello Irap), attraverso il quale il credito viene automaticamente riportato come «eccedenza» della dichiarazione precedente ed è possibile inserire l’utilizzo nel frattempo avvenuto in compensazione. Il modello da usare è quello relativo al periodo in cui è stata presentata l’integrativa (perciò, ad esempio, dopo la presentazione nel 2017 di un Unico 2016 integrativo per l’anno d’imposta 2015, va compilato il quadro DI di Redditi 2018).

Inoltre, per i soggetti tenuti alla contabilità, va rilevata una limitazione in più. Le istruzioni ai modelli, infatti, affermano che il credito così maturato «può essere utilizzato dal giorno successivo a quello di presentazione della dichiarazione integrativa ed entro la fine del periodo d’imposta oggetto della presente dichiarazione per compensare importi a debito». Si delineano perciò due situazioni:
1. se l’integrativa è presentata quest’anno, la compensazione può subito avvenire, ma non può andare oltre il 31 dicembre, e verrà formalizzata con il modello Redditi (o Irap) 2019;
2. se la correzione è stata effettuata lo scorso anno (2017), in base alle istruzioni – che in ogni caso non risultano in linea con il dettato normativo del legislatore (si veda l’altro articolo) – l’importo a credito poteva essere utilizzato liberamente entro il 31 dicembre 2017, mentre l’eventuale eccedenza non ancora compensata entro questa data, di fatto non può essere utilizzata prima di cumularsi al saldo di periodo, configurando una compensazione che è prima di tutto “verticale” (si veda Il Sole 24 Ore del 26 febbraio ).

Nell’ipotesi di errore contabile “ultrannuale” corretto nel 2017, il contribuente dovrà far transitare il credito emergente dall’integrativa, al lordo delle compensazioni eventualmente già effettuate, nel quadro DI del modello Redditi 2018. In particolare, l’ammontare del credito da errori contabili va indicato nella colonna 4 e non nella colonna 5 destinata, invece, ad accogliere i crediti derivanti da errori diversi da quelli contabili.

Fonte “Il sole 24 ore”

L’avvenuto pagamento determina le modalità dell’impugnazione

Il contribuente, che dichiara ma omette di versare una determinata imposta, può attendere, senza incorrere in alcuna decadenza, di opporsi in sede contenziosa all’iscrizione a ruolo della pretesa tributaria (nel caso di specie, Irap dichiarata e non versata da un avvocato). Viceversa, se l’imposta viene versata, non si potrà più ricorrere contro l’iscrizione a ruolo, bensì dovrà instaurarsi un contenzioso sul silenzio-rifiuto nei termini decadenziali previsti, perché la dichiarazione dei redditi è sempre emendabile e la natura del processo tributario è di tipo impugnatorio.

Cassazione ordinanza 14541/2018

 

Il mancato versamento del saldo mette a rischio il superammortamento

di Pierpaolo Ceroli e Luisa Miletta

Calcolo degli acconti influenzati dai maxi-ammortamenti sui beni materiali strumentali nuovi. Le norme che regolano le proroghe del super e dell’iper ammortamento infatti risultano disallineate sotto molti punti di vista e quando si tratta di calcolare gli acconti da versare entro il prossimo 2 luglio (il 30 giugno cade di sabato) gli operatori economici incontrano non poche difficoltà.

Nel calcolo degli acconti un difetto di coordinamento per il mancato richiamo del comma 94 della legge di stabilità 2016 nell’analoga disposizione della legge di bilancio 2017, creava come conseguenza che l’acconto 2018 va determinato senza tenere conto delle norme sulla proroga del super ammortamento, sull’iperammortamento e sulla maggiorazione relativa ai beni immateriali, diversamente dalla regola generale prevista dalla legge che impone di non considerare gli effetti delle agevolazioni (si veda Il Quotidiano del Fisco dell’8 maggio 2018 ).

Ebbene i problemi di disallineamento normativo non terminano qui. Occorre prestare attenzione anche al caso in cui per lo stesso bene si voglia beneficiare sia dell’iper che del super ammortamento. In tale ipotesi l’articolo 1, comma 8, della legge 232/2016 sancisce, per quanto riguarda il super ammortamento, che «le disposizioni dell’articolo 1, comma 91, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, si applicano anche agli investimenti in beni materiali strumentali nuovi, esclusi i veicoli e gli altri mezzi di trasporto di cui all’articolo 164, comma 1, lettere b) e b-bis), del Tuir, effettuati entro il 31 dicembre 2017, ovvero entro il 30 giugno 2018 a condizione che entro la data del 31 dicembre 2017 il relativo ordine risulti accettato dal venditore e sia avvenuto il pagamento di acconti in misura almeno pari al 20 per cento del costo di acquisizione».

Il comma 9 stabilisce per l’iperammortamento che «la disposizione … si applica agli investimenti effettuati entro il 30 settembre 2018, a condizione che entro la data del 31 dicembre 2017 il relativo ordine risulti accettato dal venditore e sia avvenuto il pagamento di acconti in misura almeno pari al 20 per cento del costo di acquisizione».

Lo slittamento del termine ultimo, ad opera del Dl 91/2017, non è stato esteso anche al super ammortamento, cosicché la data del 30 settembre 2018 quale termine di ultimazione degli investimenti opera solo con riferimento a quelli iperammortizzabili. Infatti, un bene iperammortizzabile è sempre anche soggetto al super ammortamento, crescendo di livello nella deduzione (da 40% a 150%) solo per via della interconnessione (che può avvenire anche in anni successivi). Ciò significa, permanendo questa doppia data limite, che un bene, ordinato entro il 2017 con il versamento del 20% del costo di acquisizione, ultimato oltre il 30 giugno 2018, ma entro il 30 settembre, non sarà mai super ammortizzabile, ma potrebbe godere dell’iper-ammortamento se e in quanto diverrà interconnesso.

Pertanto, si suggerisce di ultimare gli acquisti dei beni materiali strumentali nuovi di cui all’allegato A della legge di bilancio 2018 entro la data del 30 giugno 2018, altrimenti non sarà possibile tener conto dell’agevolazione al 40% ma soltanto di quella al 150 per cento.

Fonte “Il sole 24 ore”

Finanziamenti, oneri presunti solo per i soci

di Luca Benigni e Ferruccio Bogetti

Illegittimo l’avviso che presume la fruttuosità dei finanziamenti erogati a favore di società commerciali da coloro che non rivestono la qualifica di soci. Così afferma la Ctp Varese 126/2/2018 (presidente Petrucci, relatore Ferrari).

La guardia di Finanza contesta movimentazioni di capitali verso l’estero a favore di un istituto di credito bulgaro, rispettivamente per 3 milioni di euro nel 2010 e per altri 3 milioni di euro nel 2011. Il contribuente si giustifica, sottolineando che le operazioni si riferiscono alla costruzione di un immobile strumentale, così come emerge dal preliminare siglato nel 2010 con una società di costruzioni bulgara a cui è stato effettuato il primo bonifico a titolo di caparra. Le successive difficoltà finanziarie del costruttore estero hanno imposto, per completare l’intervento, la successiva erogazione nel 2011 del secondo bonifico, questa volta a titolo di finanziamento, in realtà mai restituito. I chiarimenti forniti nella fase istruttoria non sono ritenuti convincenti e per il 2011 l’ufficio notifica al contribuente un maggior reddito di capitale di 7.500 euro, conteggiato in base alla consistenza finanziaria media di 500mila euro al tasso legale dell’1,5 per cento.

Il contribuente sottolinea che l’onerosità del mutuo (articolo 1815 del Codice civile), in assenza di diversa volontà delle parti, rappresenta una presunzione semplice superabile, anche ai fini fiscali, con qualsiasi mezzo di prova; e ricorda che non emerge alcun riferimento alla fruttuosità delle somme trasferite nelle causali dei bonifici effettuati alla società bulgara.

Secondo l’ufficio, però, la finalità realizzata in concreto è stata quella di riconoscere alla società estera la titolarità di denaro con obbligo alla restituzione insieme agli interessi pattuiti.

La Ctp accoglie il ricorso del contribuente, ricordando che la presunzione legale del Tuir, secondo cui le somme versate alle società commerciali dai loro soci si considerano date a mutuo se dai bilanci non risulta che il versamento è stato fatto ad altro titolo, vale soltanto per coloro che rivestono tale qualifica. E comunque, se l’ufficio intende accertare i maggiori redditi di capitale, deve provarne la pretesa fruttuosità e il contribuente può replicare attraverso la prova contraria dei bilanci della società finanziata da cui emerge il mancato pagamento degli interessi accertati.

Fonte “Il sole 24 ore”

Concordato, resta il nodo della falcidia dell’Iva

di Paolo Moretti

La crescita economica del nostro Paese dipende, soprattutto, dalla “buona salute” delle imprese, le quali, in una economia ormai completamente globalizzata, si trovano spesso in difficoltà a fronteggiare una concorrenza “senza frontiere”.

Non a caso, il legislatore è intervenuto più volte per aiutare le imprese in crisi, con provvedimenti volti ad a far superare le difficoltà economiche derivanti dalla crisi che ha investito il nostro Paese, con sostanziali modifiche alla legge fallimentare (regio decreto 267/42), al fine di permettere alle stesse la continuazione dell’attività oppure liquidare il patrimonio mettendolo a disposizione dei creditori, evitando così il fallimento.

Tra i vari provvedimenti, il legislatore, con la legge di stabilità 2017, è intervenuto sostituendo l’articolo 182-ter sulla «Transazione fiscale» con una nuova versione e denominazione «Trattamento dei crediti tributari e contributivi» (articolo 1, comma 81, legge 232/2016 ). L’intento è quello di chiarire le numerose incertezze interpretative che la precedente disposizione aveva determinato per gli operatori e la stessa amministrazione finanziaria.

Sono stati rafforzati gli strumenti riguardanti il concordato preventivo (articolo 160, legge fallimentare), l’accordo di ristrutturazione dei debiti (articolo 182-bis) e le crisi da sovraindebitamento (legge 3/2012).

La nuova disposizione rappresenta una particolare procedura transattiva tra Fisco e contribuente, avente ad oggetto la possibilità di pagamento, in misura ridotta e/o dilazionata, il credito tributario privilegiato, oltre di quello chirografario.

Contenuto principale del nuovo articolo 182-ter è la possibilità, per il debitore, di proporre nel concordato preventivo e, negli accodi di ristrutturazione, il pagamento e la dilazione dei debiti privilegiati (Iva, ritenute, contributi previdenziali).

La nuova disciplina ha, tra l’altro, recepito i principi espressi dalla Corte di giustizia europea in tema di falcidia dell’Iva nonché di ritenute operate e non versate.

La Corte di giustizia ha definitivamente chiarito che la procedura di concordato preventivo costituisce una rinuncia generale e indiscriminata alla riscossione dell’Iva. Inoltre, secondo la Corte Ue, tale procedura è compatibile con il sistema comune dell’Iva.

Pertanto, sulla base del nuovo comma 1 dell’articolo 182-ter così come modificato dalla legge 232/2016, l’Iva è ora falcidiabile nell’ambito del concordato preventivo e degli accordi, oltre alle ritenute operate e non versate.

Di parere opposto è, però, attualmente l’amministrazione finanziaria e, pertanto, sono iniziati i contenziosi.

Al riguardo, proprio in merito all’infalcidiabilità dell’Iva, si è espresso il tribunale di Udine con ordinanza del 14 maggio 2018. Il Tribunale ritiene che, la non falcidiabilità dell’Iva comporterebbe la violazione degli articoli 3 e 97 della Costituzione, oltre al non rispetto dei principi della Corte di giustizia Ue.

A parere dei giudici del tribunale di Udine, l’articolo 7 della legge 3/2012 contempla un’eccezione ingiustificata alla regola della generale falcidiabilità dei crediti privilegiati nel settore concorsuale e, in particolare, nell’omologo comparto del concordato preventivo. Da ciò deriva che il tutto è rimesso al parere della Consulta.

Fonte “Il sole 24 ore”

Commesse pluriennali, derivazione rafforzata solo in casi limitati

di Luca Miele

In caso di commesse pluriennali, la rilevazione nel bilancio redatto secondo gli standard nazionali dei relativi componenti positivi con il sistema delle rimanenze comporta l’applicazione delle norme fiscali relative alle valutazioni e, nello specifico, dell’articolo 93 del Tuir. Non trova, quindi, riconoscimento il principio di derivazione rafforzata che riguarda le qualificazioni, classificazioni e l’imputazione temporale ma non, in linea generale, le valutazioni.

Il documento della Fondazione nazionale commercialisti (Fnc) di ieri fa il punto della situazione sulla disciplina contabile e fiscale delle opere ultrannuali,sia per i soggetti Ias adopter che per quelli Oic adopter.

Secondo l’articolo93 del Tuir, le rimanenze finali delle opere con tempo di esecuzione ultrannuale concorrono alla formazione del reddito, non al momento della loro definitiva ultimazione,bensì in misura proporzionale alla percentuale di avanzamento dei lavori misurabile al termine di ciascuno degli esercizi interessati. In sostanza, trovano applicazione il criterio della competenza economica e il principio della correlazione costi-ricavi. Questa previsione normativa trova applicazione anche quando le commesse pluriennali sono rilevate contabilmente secondo il criterio della commessa completata che riconosce i ricavi e i margini di commessa solo quando il contratto è completato, ossia alla data in cui avviene il trasferimento dei rischi e benefici connessi al bene realizzato o i servizi sono resi. Tale modalità di rilevazione contabile non trova riconoscimento fiscale, non applicandosi il principio di derivazione rafforzata, e quindi si genera un doppio binario civile e fiscale, in quanto contabilmente ricavi e margini di commessa sono riconosciuti quando il contratto è completato mentre fiscalmente rilevano gli stati di avanzamento al termine di ciascun esercizio.

Campo ristretto

Il documento della Fondazione pone in evidenza come, invece, il principio di derivazione rafforzata all’articolo 83 del Tuir trova applicazione in caso di adozione del combining/segmenting nella contabilizzazione della commessa, modalità contabile che influenza la determinazione del margine economico attribuibile ad ogni attività per la durata della commessa stessa.

Le microimprese

L’Oic 23, al ricorrere di determinate condizioni, consente infatti di segmentare la contabilizzazione di una commessa in più fasi o di raggruppare più commesse trattandole come un’unica commessa. In tali fattispecie si verte in tema di qualificazioni e non di valutazioni e quindi l’articolo 93 del Tuir troverà naturale applicazione alla commessa così come contabilizzata. Ciò, tuttavia, non è vero per le micro imprese ex articolo 2435-ter del Codice civile per le quali non valgono le diverse qualificazioni (classificazioni e imputazioni temporali) previste dagli standard nazionali. Ciò determina, per queste imprese e con riferimento alle commesse ultrannuali, il mancato riconoscimento fiscale dei criteri di individuazione della commessa indicati dall’Oic 23 diversi da quelli previsti dall’articolo 93 del Tuir.

I soggetti Ias

Il documento della Fondazione evidenzia altresì che il principio di derivazione rafforzata trova invece diretta applicazione per i soggetti Ias adopter in quanto, in tal caso, le commesse ultrannuali sono rilevate con una modalità di contabilizzazione fondata sulla immediata e diretta rilevazione dei ricavi al conto economico degli esercizi in cui il lavoro è svolto, abbandonando la logica propria della valutazione delle rimanenze. Pertanto, la contabilizzazione secondo lo Ias 11 e, dal 2018, secondo l’Ifrs 15 assume rilievo ai fini Ires, salvo deroghe specifiche, e non trova applicazione l’articolo 93 del Tuir.

Fonte “Il sole 24 ore”

Iper e superammortamento 2017 costringono ad acconti più pesanti

di Giorgio Gavelli

Verifica di quanto versato, calcolo con possibile rideterminazione dell’imposta, indicazione in dichiarazione: sono diverse le problematiche che riguardano la corretta determinazione degli acconti d’imposta delle imposte sui redditi, in vista della prima scadenza fissata per il 2 luglio.

Le scadenze

La scadenza ordinaria per gli acconti (come per i saldi d’imposta) per le persone fisiche e i soggetti con periodo d’imposta coincidente con l’anno solare è il 30 giugno che, essendo sabato, slitta a lunedì 2 luglio.

Per i soggetti Ires tale scadenza è valida se l’approvazione del bilancio è avvenuta nei termini ordinari; in caso di slittamento ai 180 giorni (articolo 2364, comma 2 del Codice civile), se l’assemblea ha positivamente deliberato entro il 31 maggio. In alternativa, è possibile versare entro i 30 giorni successivi maggiorando le somme dovute dello 0,40%; in questo caso, essendo la scadenza compresa nel periodo dal 1° al 20 agosto, per effetto dell’articolo 37, comma 11-bis del Dl 223/2006, il termine diviene il 20 agosto.

Secondo le istruzioni, per chi, fruendo della maggiorazione, sceglie anche la rateizzazione, se in possesso di partita Iva, entro tale data deve versare tanto la prima quanto la seconda rata, conclusione che è stata criticata in dottrina.

Il ricalcolo

Per gli acconti 2018 il problema principale è la rideterminazione della base di calcolo. Per imprese e lavoratori autonomi, infatti, se – come nella stragrande maggioranza dei casi – il metodo scelto è quello “storico”, è facile trovarsi in una delle ipotesi riportate dalla grafica a lato, che costringono a versare un acconto ricalcolato partendo da una base imponibile 2017 rideterminata.

La situazione più frequente è senza dubbio quella di chi ha fruito nel 2017 della variazione in diminuzione dovuta a super e iperammortamenti. Infatti, l’articolo 1, comma 12 della legge 232/2016 prevede che «la determinazione degli acconti dovuti per il periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2017 e per quello successivo è effettuata considerando quale imposta del periodo precedente quella che si sarebbe determinata in assenza delle disposizioni di cui ai commi 8, 9 e 10». Il mancato richiamo all’articolo 1, commi 91 e seguenti, della legge 208/2015 dovrebbe comportare, anche in virtù di quanto chiarito con circolare 4/E/2017, che l’agevolazione del superammortamento per i beni acquistati (in proprietà o in leasing) negli ultimi mesi del 2015 e nel 2016 non dovrebbe essere interessata dal ricalcolo, che è limitato agli effetti positivi sull’imponibile determinati dai beni (super o iperammortizzabili) acquisiti successivamente, in virtù della proroga dell’agevolazione.

In buona sostanza, la complessiva variazione in diminuzione operata dalle imprese nel modello Redditi a questo titolo dovrebbe essere scomposta a seconda dell’anno di acquisizione dei cespiti, dovendo eliminare in sede di rideterminazione degli acconti Irpef ed Ires 2018 (no Irap) solo la quota relativa ai beni per cui il 2017 è stato il primo anno di super o iperammortamento. Stesso esercizio dovrebbero effettuare i lavoratori autonomi.

Fonte “Il sole 24 ore”

Studi di settore, correttivi per cassa più severi con il commercio al dettaglio

di Lorenzo Pegorin e Gian Paolo Ranocchi

Correttivi cassa ad effetto variabile sugli studi di settore del periodo d’imposta 2017 per le imprese in contabilità semplificata. Il ricavo stimato dal software Gerico 2018 tendenzialmente cresce nei settori che operano nel commercio al dettaglio e nei servizi alla persona. Viceversa si registra una diminuzione nella stima per le manifatture, il commercio all’ingrosso e i servizi alle imprese. È lo scenario che emerge dall’applicazione dei correttivi per cassa sulle imprese in contabilità semplificata che dal 1° gennaio 2017 sono alle prese con il nuovo regime previsto dall’articolo 66 del Tuir .

L’approvazione di questi correttivi si è resa necessariaper normalizzare il risultato di Gerico. L’applicativo, infatti, da sempre opera secondo logiche prettamente di competenza. Il passaggio (dal 1° gennaio 2017) a un regime contabile misto di competenza/cassa per i semplificati ha scardinato parte degli automatismi tipici che contraddistinguono il funzionamento del software. Si è reso, infatti, necessario prevedere delle opportune correzioni al fine di salvaguardare l’impianto generale con l’obiettivo di ricavarne un risultato stimato credibile. Il tutto in vista del passaggio agli Isa (indicatori sintetici di affidabilità fiscale) che è stato rinviato all’anno prossimo. Per tale ragione si assiste quest’anno ai risultati differenti a seconda del singolo studio di settore. Inoltre i correttivi per cassa si applicano potenzialmente a tutte le imprese in contabilità semplificata, ad esclusione di chi ha optato per il regime del «registrato» (articolo 18, comma 5, del Dpr 600/1973).

Gli esempi a lato mettono in luce uno spaccato di quella che è la tendenza generale: nei settori B2C (business to consumer), come commercio al dettaglio e servizi alla persona (si vedano i casi del parrucchiere e del fruttivendolo), i correttivi di «cassa» sposteranno in alto l’asticella dei ricavi. In tali circostanze, il risultato finale stimato da Gerico, quest’anno (2017), sarà quindi più elevato rispetto all’analisi tradizionale, a parità di condizioni, sull’anno d’imposta 2016. A pesare potrebbe essere il gap tra incassi immediati rispetto alla cessione dei beni e le fatture di acquisto datate 2017 ma saldate nel 2018.

Invece nel B2B (business to business) , e quindi essenzialmente manifatture, commercio all’ingrosso, e servizi alle imprese (nell’esempio in pagina vengono propposti la fabbricazione di gioielli e l’impresa che opera con la pubblica amministrazione), i correttivi di «cassa» potranno risultare più vantaggiosi per i diretti interessati. E il risultato finale stimato da Gerico quest’anno sarà minore (e perciò più favorevole al contribuente) rispetto all’analisi tradizionale, a parità di condizioni, sull’anno d’imposta 2016.

La compilazione dei modelli

Per applicare correttamente i correttivi di cassa tutte le imprese in contabilità semplificata devono compilare il dato relativo alle rimanenze finali. Infatti, nonostante quest’ultimo valore per i contribuenti in contabilità semplificata (siano essi in regime di cassa «pura» o con quello del «registrato»), non abbia alcuna influenza sul reddito imponibile, deve essere comunque elaborato da Gerico per la corretta applicazione degli studi di settore.

I contribuenti dovranno prestare attenzione a compilare correttamente i campi da F42 a F44 del modello studi. Tradizionalmente la compilazione di questi righi ha l’effetto di diminuire il risultato stimato dall’applicativo favorendo un esito migliore per il contribuente. In particolare si tratta delle operazioni imponibili verso soggetti Iva(campo F42), di quelle con reverse charge (campo F43) e di quelle in split payment (campo F44). In questo senso, infatti, maggiore sarà la quota di vendite B2B, più elevata sarà anche la durata dei crediti stimata dal software e quindi maggiore sarà la riduzione della stima dei ricavi di «cassa».

Fonte “Il sole 24 ore”

Da acquisto a cessione, così la Ue cerca il cambio di passo sull’evasione Iva

di Benedetto Santacroce

In quattro mosse l’Unione europea cerca di semplificare l’applicazione delle regole Iva che disciplinano gli scambi intraUe rafforzando le misure antifrode.

In particolare, il regime delle transazioni tra Stati membri proposto dalla Commissione supera l’impianto «dell’acquisto intracomunitario» e lo sostituisce con la disciplina della «cessione intraunionale». Il nuovo regime si baserà sul principio dell’imposizione nello Stato di destinazione della cessione di beni, con luogo di tassazione nello Stato di arrivo dei beni stessi. Il fornitore sarà tenuto al versamento dell’Iva sulla «cessione intraunionale» a meno che l’acquirente non sia un soggetto certificato e, in quanto tale, affidabile. Qualora l’operatore obbligato al pagamento dell’imposta non sia stabilito nello Stato in cui l’imposta è dovuta, potrà assolvere agli obblighi di dichiarazione e versamento con il sistema dello sportello unico (one shop stop, Oss). Con ogni probabilità, il nuovo regime consentirà l’abolizione dell’elenco Intrastat.

La cessione intraunionale potrà rimanere esente da imposta solo nel caso in cui il cessionario sia un soggetto certificato dall’amministrazione quale soggetto affidabile Iva (Ctp, certified taxable person). Inoltre, in caso di consignment stock intraunionale, l’operazione sarà considerata unica nel caso in cui sia il cedente che il cessionario siano Ctp. Infine, le nuove regole prevedono che per l’esenzione delle cessioni unionali il codice identificativo attribuito dallo Stato membro di arrivo delle merci sia considerato un elemento essenziale.

Fonte “Il sole 24 ore”

Dagli studi di settore all’eredità, tante liti senza speranza per l’Erario

di Salvina Morina e Tonino Morina

Sono frequenti le condanne a carico degli uffici che proseguono il contenzioso perdente, subendo una doppia beffa. L’erario non incassa nulla e l’ufficio è condannato a pagare le spese di giudizio. Sono diversi i casi in cui gli ufficipotrebbero evitare la prosecuzione del contenzioso. Ecco, di seguito, quelli più frequenti.

La rinuncia all’eredità «salva» dal Fisco
Per la Cassazione, ordinanza 13639/18, depositata il 30 maggio 2018, chi rinuncia all’eredità non ha alcuna responsabilità per i debiti del contribuente deceduto. Sbaglia perciò l’ufficio che insiste nella richiesta di pagamento agli eredi rinunciatari, e, quindi, deve essere accolto il ricorso dei contribuenti con condanna alle spese a carico dell’agenzia delle Entrate per 15mila euro, oltre rimborso forfetario ed accessori di legge.

L’ufficio deve provare che le operazioni sono inesistenti
Per la Cassazione, l’ufficio che nega la detrazione dell’Iva per presunte operazioni soggettivamente inesistenti, deve fornire la “prova” che le operazioni non sono mai state poste in essere. In mancanza di questa prova, l’accertamento del Fisco deve essere annullato, l’ufficio non incassa nulla ed è condannato a pagare le spese di giudizio, a favore del contribuente, per oltre 6mila euro.

Stop alle sanzioni sugli errori formali
Per i giudici di legittimità, ordinanza 14933 del giorno 8 giugno 2018, non è punibile il contribuente che presenta in ritardo le scritture contabili, a condizione che la violazione «sia priva di incidenza sulla determinazione della base imponibile dell’imposta e sul versamento del tributo e sia inidonea ad arrecare pregiudizio all’esercizio delle azioni di controllo». Il “guaio” è che, dopo quasi 13 anni di contenzioso, l’erario, dopo avere subìto una triplice bocciatura, primo grado, in secondo grado e in Cassazione, non incassa nulla e deve anche pagare le spese di giudizio per circa 5mila euro.

La media semplice non è ponderata
Per la Cassazione, è illegittimo il ricorso alla media semplice, anziché alla media ponderata, quando tra i vari tipi di merci esiste una notevole differenza di valore ed i tipi più venduti presentano una percentuale di ricarico inferiore a quella risultante dal ricarico medio (Cassazione, n. 13319 del 2011; n. 4312 del 2015). Sono diversi i contenziosi in materia di applicazione sbagliata della media aritmetica semplice, “scambiata” per media ponderata. Per giurisprudenza consolidata in materia, è costante l’accoglimento del ricorso dei contribuenti, con conseguente bocciatura dell’operato della Finanza e degli uffici delle Entrate che non applicano correttamente il ricarico medio ponderato.

Il rimborso Iva è soggetto alla prescrizione decennale
Per la Cassazione, sentenza n. 19510 del 19 dicembre 2003, il credito del contribuente per il rimborso dell’Iva si consolida decorsi due anni dal termine per la presentazione della dichiarazione annuale senza che l’amministrazione finanziaria abbia notificato alcun avviso di rettifica o di accertamento ed è esigibile alla scadenza dei successivi tre mesi. Pertanto, il termine di prescrizione decennale del diritto al rimborso decorre a partire da due anni e tre mesi dalla data di presentazione della dichiarazione annuale, non essendo il diritto medesimo esigibile prima del decorso di detto termine.

L’Inps chiede i contributi in base agli accertamenti
L’Inps non ha alcun titolo per chiedere i contributi che scaturiscono dagli accertamenti del Fisco definiti con la chiusura delle liti pendenti. È perciò priva di effetti la richiesta fatta dall’istituto previdenziale, con un avviso di addebito, sulla base dell’accertamento emesso dall’agenzia delle Entrate, direzione provinciale di Siracusa. Per il Tribunale di Siracusa, deve essere perciò accolto il ricorso del contribuente, e, per l’effetto, deve essere annullato l’avviso di addebito emesso dall’Inps (sentenza n. 108/2018, pubblicata il 5 febbraio 2018).

Stop agli studi di settore automatizzati
Proseguono le bocciature della Cassazione nei confronti degli uffici che emettono accertamenti standardizzati da studi di settore. Un esempio è nella sentenza 9755/17, depositata il 18 aprile 2017. Per la Cassazione, sbagliano gli uffici che considerano gli studi di settore uno strumento di accertamento.

Dopo 5 anni di silenzio il Fisco perde i soldi
Le richieste di pagamento, così come i fermi amministrativi notificati dopo i 5 anni dalla notifica della cartella di pagamento, sono prive di effetto. Per la Cassazione, sezioni unite civili, sentenza 23397/16, depositata il 17 novembre 2016, le pretese della Pubblica Amministrazione, agenzia delle Entrate, Inps, Inail, Comuni, Regioni, e altri enti impositori, si prescrivono nel termine “breve” di cinque anni, con l’eccezione dei casi in cui la sussistenza del credito non sia stata accertata con sentenza passata in giudicato o a mezzo di decreto ingiuntivo.

I conti fittizi devono essere provati
Per la Cassazione, deve essere annullato l’accertamento dell’ufficio, relativo all’anno 2002, che non ha “provato” in alcun modo che i versamenti rilevati sui conti personali del socio e della figlia fossero effettivamente riferibili alla società (ordinanza 9212/2018, depositata il 13 aprile 2018). Dopo tre bocciature, primo grado, secondo grado e Cassazione, e dopo oltre 10 anni, il Fisco rimane con un pugno di mosche in mano e con una condanna al pagamento delle spese che la Cassazione liquida in 6mila euro per compensi, più 200 euro per esborsi e il 15% a titolo di spese forfettarie.

Contraddittorio preventivo obbligatorio
Gli atti emessi dal Fisco senza alcun confronto con il contribuente devono essere annullati. Per la Commissione tributaria provinciale di Vicenza, sentenza 48/02/2018, depositata il 17 gennaio 2018, «la violazione del diritto del contribuente al contraddittorio preventivo, ossia antecedente all’emanazione dell’atto di accertamento, determina pertanto l’illegittimità dell’atto, e di conseguenza, il suo annullamento».

Fonte “Il sole 24 ore”

Tre strade differenti per gli affitti brevi in dichiarazione

di Mario Cerofolini, Lorenzo Pegorin e Gian Paolo Ranocchi

Le locazioni brevi entrano a pieno regime nei modelli dichiarativi 2018 con tutte le novità approvate nel 2017. Di fatto, i contribuenti si trovano di fronte a tre possibili percorsi dichiarativi:

le locazioni stipulate prima del 1° giugno 2017, che seguono le vecchie regole;

le locazioni brevi stipulate dal 1° giugno 2017 sottoposte a ritenuta da parte dell’intermediario;

le locazioni brevi non sottoposte a ritenuta.

La nuova disciplina è contenuta nell’articolo 4 del Dl 50/2017 , che ha ridisegnato l’intero regime fiscale delle locazioni brevi, con modifiche che interessano i proprietari, gli inquilini e anche le agenzie immobiliari. I chiarimenti dell’agenzia delle Entrate su questo tema sono stati forniti con la circolare 24/E/2017.

I contratti e la tassazione

A partire dal 1° giugno 2017 è stata introdotta una disciplina fiscale ad hoc che permette l’esercizio dell’opzione relativa alla cedolare secca (con aliquota al 21%) per i contratti, stipulati da persone fisiche, di locazione, sublocazione e le concessioni in godimento oneroso a terzi da parte del comodatario, che hanno a oggetto immobili a uso abitativo, situati in Italia. Si tratta dei contratti di durata complessiva non superiore a 30 giorni, il cui limite si determina computando tutti i rapporti di locazione – di durata inferiore a 30 giorni – intercorsi nell’anno con lo stesso conduttore (circolare 12/E/1998 ).

Peraltro, nel caso delle locazioni di durata non superiore a 30 giorni la cedolare era già applicabile fin dal 2011: l’innovazione del Dl 50 sta nella possibilità di applicarla anche quando, insieme alla messa a disposizione della casa, vengano rese altre prestazioni.

Resta inteso che, in caso di mancato esercizio dell’opzione per la cedolare secca, il contribuente dovrà assoggettare ordinariamente a Irpef i relativi redditi.

Le nuove regole si applicano sia nel caso in cui i contratti siano stipulati direttamente tra chi detiene l’immobile (proprietario o titolare di altro diritto reale, sublocatore o comodatario) e il conduttore, sia quando intervengono i soggetti che esercitano attività di intermediazione immobiliare (anche attraverso portali online). In quest’ultimo caso, l’ulteriore novità (si veda l’altro articolo) è costituita dall’introduzione di una ritenuta del 21% da applicare a cura dell’intermediario.

Il contratto di locazione breve può avere a oggetto, unitamente alla messa a disposizione dell’immobile abitativo, anche la fornitura di biancheria e la pulizia dei locali e di altri servizi che corredano la messa a disposizione dell’immobile, come ad esempio, la fornitura di utenze, wi-fi, aria condizionata.

La disciplina delle locazioni brevi non è invece applicabile se insieme alla messa a disposizione dell’abitazione sono forniti servizi aggiuntivi che non presentano una necessaria connessione con la finalità residenziale dell’immobile, quali ad esempio, la fornitura della colazione, la somministrazione di pasti, la messa a disposizione di auto a noleggio o di guide turistiche o di interpreti.

La natura del canone

Il reddito conseguito dalle locazioni brevi può assumere una diversa natura, in relazione al soggetto titolare dello stesso.

Se l’immobile è concesso in locazione da parte del proprietario o dal titolare dell’usufrutto si dovrà compilare nel modello Redditi il quadro RB, tassando il corrispettivo pattuito per competenza (secondo le logiche che governano i redditi fondiari), anche se questo non è stato interamente percepito nell’anno.

Laddove il canone di locazione sia assoggettato a Irpef (in assenza di opzione per la cedolare), questo risulterà imponibile nella misura del 95%, ovvero con abbattimento del 35% per gli immobili di interesse storico, o del 25% per Venezia centro e isole limitrofe.

In caso di opzione per la cedolare secca sarà invece l’intero canone di locazione a essere assoggettato all’imposta sostitutiva nella misura del 21%, che andrà poi successivamente liquidata nel nuovo quadro LC. L’opzione per la tassazione piatta, non essendoci l’obbligo di registrare il contratto, va fatta direttamente in dichiarazione dei redditi e si esercita singolarmente per ciascuno dei contratti stipulati nell’anno. Per lo stesso immobile è, infatti possibile nei singoli periodi, con i diversi conduttori “brevi” optare o meno per la tassa piatta.

Nel caso in cui il contratto venga volontariamente registrato, la scelta viene fatta in sede di registrazione.

In caso, invece, di locazione breve dell’immobile da parte del comodatario (o sublocatore), il reddito sarà tassato in capo a quest’ultimo come reddito diverso e dovrà essere indicato obbligatoriamente nel quadro RL (rigo RL10).

In questa ipotesi il reddito da dichiarare sarà quello riferibile ai soli canoni incassati nell’anno (principio di cassa), senza tenere conto di quando effettivamente il soggiorno ha avuto luogo. Le istruzioni opportunamente segnalano che, laddove si sia optato per la tassazione in cedolare secca non sarà possibile compilare la colonna 5 «Spese» (rigo RL10) poiché dovrà essere tassato l’intero canone da contratto.

In questo caso, il proprietario dell’immobile dovrà indicare nel quadro RB solamente la rendita catastale dell’immobile concesso in comodato gratuito.

Fonte “Il sole 24 ore”

Omesse ritenute ante ottobre 2015, non basta il 770

di Antonio Iorio

Il reato di omesso versamento delle ritenute, prima delle modifiche in vigore dal 22 ottobre 2015, non può essere provato soltanto con la dichiarazione del sostituto di imposta, essendo necessarie le certificazioni rilasciate ai percipienti. A fornire questa importante interpretazione sono le Sezioni unite penali della Corte di cassazione, con la sentenza 24782 depositata ieri.

La pronuncia dovrebbe definitivamente risolvere un contrasto interpretativo sorto all’interno della terza sezione penale sulla rilevanza della sola dichiarazione del sostituto di imposta per la configurazione del reato di omesso versamento delle ritenute, previsto dall’articolo 10 bis Dlgs 74/2000.

La versione iniziale del citato articolo 10 bis, (precedente alle modifiche introdotte con il Dlgs 158/2015) prevedeva la reclusione da sei mesi a due anni per chiunque non avesse versato, entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta, le ritenute risultanti dalle certificazioni rilasciate ai sostituiti, per un ammontare superiore a cinquantamila euro per ciascun periodo.

Di sovente, in passato l’accusa per provare al colpevolezza di questo reato si basava esclusivamente sui dati “autodichiarati” dal contribuente nel 770, trasmesso dall’Agenzia delle Entrate al Pm.

Inizialmente, la Suprema corte ha ritenuto soddisfatto l’onere probatorio con la mera allegazione del modello 770 all’interno del quale sono elencate le ritenute.

Successivamente la Cassazione ha mutato orientamento, fornendo un’interpretazione più aderente al dato letterale: il reato è collegato all’omesso versamento, non delle ritenute indicate nel 770, ma di quelle risultanti dalle certificazioni rilasciate ai sostituiti e quindi la prova dell’illecito è rappresentata dalle certificazioni e non dalla dichiarazione.

Il Dlgs 158/2015 ha modificato anche questa fattispecie penale. In particolare il nuovo delitto ora concerne le omissioni risultanti anche dalla dichiarazione, non essendo più necessaria la prova delle certificazioni ai sostituiti. E quindi, con l’entrata in vigore (22 ottobre 2015) del predetto decreto, per la commissione del reato non sono più necessarie le certificazioni, ma è sufficiente l’indicazione nel modello 770 dell’importo poi non versato.

Secondo alcune pronunce della terza sezione penale, questa modifica doveva intendersi quale chiarimento della precedente norma: quindi anche per il passato si sarebbe potuta provare la sussistenza del delitto, mediante la semplice produzione della dichiarazione 770.

Da qui l’intervento delle Sezioni Unite, che ora hanno definitivamente chiarito che per il passato la dichiarazione 770 proveniente dal sostituto di imposta non può essere ritenuta di per sé sola sufficiente ad integrare la prova dell’avvenuta consegna al sostituito della certificazione fiscale.

Nonostante, come si è detto, il reato sia poi stato modificato a decorrere da ottobre 2015, per i delitti consumati fino a quella data (i cui procedimenti, anche numerosi, sono tuttora in corso), l’assenza di produzione da parte del Pm delle certificazioni (circostanza frequente in quanto l’agenzia delle Entrate in genere inviava il solo modello 770 del contribuente) comporterà l’assoluzione del’imputato.

Fonte “Il sole 24 ore”

Spese fuori bilancio da recuperare

di Giorgio Gavelli

Le spese di pubblicità e di ricerca eliminate nello scorso esercizio dal bilancio in applicazione delle nuove regole contabili vanno anche quest’anno fiscalmente recuperate in dichiarazione, tanto ai fini Ires quanto ai fini Irap.

L’eliminazione contabile intervenuta nello scorso esercizio per effetto del Dlgs 139/2015 non deve far dimenticare la deduzione del costo ammessa in ambito fiscale, anche per dare continuità ai comportamenti dichiarativi assunti nello scorso periodo d’imposta.

La modifica contabile

A partire dai bilanci 2016, per effetto del nuovo testo dell’articolo 2426, comma 1, numero 5), Codice civile , non è più consentita la capitalizzazione delle spese di ricerca e di pubblicità, che vanno quindi spesate a conto economico nell’esercizio di competenza. Poiché tali regole si applicavano retroattivamente, le spese in corso di capitalizzazione alla chiusura del bilancio precedente a quello di prima applicazione andavano eliminate contabilmente, con contropartita preferibile sugli utili portati a nuovo o ad una riserva libera di utili presente nel patrimonio netto. Tutto ciò a meno che:

i costi di pubblicità precedentemente capitalizzati non soddisfacessero i requisiti stabiliti per i costi di impianto e ampliamento (paragrafi 41-43 del principio Oic 24), nel qual caso la riclassificazione evitava l’eliminazione (ipotesi non ricorrente);

i costi di ricerca precedentemente capitalizzati non soddisfacessero i criteri per essere riclassificati tra i costi di sviluppo (paragrafo 49), mantenendo, quindi, la propria iscrizione tra le immobilizzazioni immateriali (caso piuttosto frequente).

Le ricadute tributarie

Fiscalmente, i costi cancellati contabilmente non cessano di essere deducibili, in quanto l’articolo 13-bis, comma 7, del Dl 244/2016 prevede che per i costi imputati a conto economico in precedenti esercizi e non più capitalizzabili «resta ferma… la deducibilità sulla base dei criteri applicabili negli esercizi precedenti». Ciò significa che, per le poste in questione, la deduzione fiscale prosegue secondo la ripartizione temporale precedente. Quindi, in presenza delle condizioni richieste dal principio contabile Oic 25 (ragionevole previsione di redditi imponibili capienti), all’eliminazione dei costi non più capitalizzabili si affianca l’iscrizione delle relative imposte anticipate.

Tuttavia, la cancellazione in bilancio rende necessario, ai fini della deducibilità, il “ripescaggio” delle quote di ammortamento di queste spese in dichiarazione dei redditi, tramite variazione in diminuzione da effettuarsi sia ai fini delle imposte sui redditi che ai fini Irap.

Dove fare le variazioni

Diversamente dallo scorso anno, quest’anno i modelli dichiarativi sono più chiari nell’indicare dove effettuare le variazioni in esame:

rigo RF55 (codice 22) per la dichiarazione Ires;

rigo IC56, colonna 2, per il modello Irap.

Inoltre, le istruzioni richiedono (già dallo scorso periodo d’imposta) che si proceda, nel caso di specie, alla compilazione del quadro RV, per monitorare il disallineamento tra valore contabile e valore fiscale dell’elemento patrimoniale.

La colonna 3 dei vari righi, che sino al 2015 era riservata ai soggetti Ias, dal modello 2016 è riferita anche ai soggetti cui si applica il Dlgs 139/2015 (va riportato il codice 3), e le istruzioni avvertono che «l’eliminazione nell’attivo patrimoniale di costi iscritti e non più capitalizzabili, genera un disallineamento tra il valore civile (non più esistente a seguito dell’eliminazione) e quello fiscale». In questa ipotesi, proseguono le istruzioni, «in colonna 1, va indicata la descrizione della posta eliminata dal bilancio a seguito dell’applicazione dei principi contabili; in colonna 4, va indicato il corrispondente valore contabile risultante dal bilancio prima della transizione ai principi contabili» (2015).

Nella colonna 10, va, invece, indicato il valore fiscale esistente alla data di apertura del primo bilancio di esercizio redatto secondo i principi contabili della voce di bilancio eliminata (2016). Nelle colonne 11 e 12, vanno indicati gli incrementi/decrementi rilevanti ai fini fiscal, mentre, nella colonna 13, va indicato il valore fiscale esistente alla data di chiusura dell’esercizio.

Invece, il modello Irap – piuttosto curiosamente – chiede di monitorare i disallineamenti solo in caso di operazioni straordinarie e non di modifiche ai principi contabili.

Fonte “Il sole 24 ore “

Costi pluriennali, stop ai controlli «infiniti»

di Laura Ambrosi e Antonio Iorio

Per i costi pluriennali la rettifica da parte dell’amministrazione è possibile solo se nell’esercizio di sostenimento, ossia il primo di imputazione, il potere di accertamento non è ancora decaduto, a nulla rilevando le successive imputazioni annuali. È questo l’importante orientamento assunto recentemente dalla Corte di cassazione.

La questione
I costi di «utilità pluriennale» non sono dedotti integralmente nell’esercizio di sostenimento, ma vengono imputati anche negli anni successivi.Ne consegue così che in un determinato periodo di imposta potrebbero esserci quote di ammortamento relative a beni acquistati in anni il cui potere di accertamento è già decaduto.

La circostanza ha suscitato dubbi nell’ambito dell’attività di controllo: secondo la prassi seguita dai verificatori, infatti, poiché “parte” di quel costo ha rilevanza in esercizi ancora accertabili, è possibile verificarne la congruità fin dall’origine e, quindi, è legittimo disconoscere parte o tutto del valore di acquisto.

Si pensi ad esempio a un macchinario acquistato al prezzo di 100mila euro nel 2010 (periodo di imposta per il quale è decaduto a fine 2015 il potere di rettifica da parte dell’amministrazione) e ammortizzato al 10% annuo, pari cioè a 10mila euro imputati in ciascun esercizio. Cosa succede se nel corso di una verifica nel 2018 e relativa al 2014 (anno ancora accertabile), nell’ambito del controllo dei beni strumentali, i verificatori ritengono per le più svariate ragioni che solo 20mila dei 100mila euro sostenuti siano deducibili?

Secondo l’interpretazione dell’amministrazione, poiché la quota di ammortamento ha rilevanza in anni ancora accertabili, è possibile recuperare a tassazione la parte ritenuta indeducibile rispetto al costo originario. E quindi, seguendo l’esempio, è legittimo il recupero di 8mila euro dei 10mila imputati in ammortamento.

Il principio della Cassazione
È stato richiesto alla Suprema corte di stabilire se per i costi che danno luogo a una deduzione frazionata in più anni la decadenza del potere di accertamento dell’amministrazione si realizzi al 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di ciascun periodo di imposta in cui è dedotto il costo ovvero a quello in cui è stato iscritto il costo originario.

Con la recente sentenza 9993/2018 i giudici di legittimità hanno innanzitutto ricordato che in conformità dei principi affermati dalla Consulta (sentenza 352/2004), l’interpretazione della norma sulla decadenza non può lasciare il contribuente esposto all’azione esecutiva del fisco per termini eccessivamente dilatati. Ciò anche perché il contribuente è tenuto alla conservazione dei documenti per gli anni oggetto di possibile controllo.

Per non violare questi principi, secondo i giudici di legittimità nell’ipotesi di costi la cui deducibilità è frazionata nel tempo, il computo della decadenza decorre dall’anno in cui è stato iscritto in bilancio il valore da ripartire. Perciò, se il Fisco non ha disconosciuto tale originaria iscrizione, le relative quote imputate negli esercizi successivi divengono deducibili.

L’unica contestazione in tali periodi di imposta, può riguardare un’eventuale errata determinazione perché ad esempio imputata in misura superiore o malamente calcolata.

Gli acquisti non rettificabili
Alla luce di questo principio occorre individuare se l’acquisto del bene strumentale in ammortamento sia avvenuto in un anno non ancora decaduto:

fino al periodo di imposta 2015 (modello Unico 2016), gli uffici potevano notificare accertamenti entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di presentazione (o quinto in caso di omessa dichiarazione). Quindi, se la dichiarazione è stata presentata, nel 2018 risultano decaduti gli acquisti effettuati fino al 2012, a prescindere dal fatto che il relativo ammortamento sia ancora in corso. Inoltre, la norma prevedeva il raddoppio dei termini se la violazione comportava l’obbligo di denuncia di un reato tributario. È pertanto verosimile che in tale ipotesi, il maggior termine consenta all’ufficio di verificare gli acquisti di cespiti anche se avvenuti in periodi precedenti al 2012;

dal periodo d’imposta 2016 (modello Redditi 2017), invece, gli uffici possono notificare gli accertamenti entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione (ovvero se omessa o nulla entro il 31 dicembre del settimo anno successivo a quello in cui si sarebbe dovuta presentare). E quindi, ad esempio, il bene strumentale acquisito nel 2016, potrà essere verificato e nel caso contestato solo fino al 2022, senza peraltro alcuna possibile proroga anche in presenza di reato, dato che la modifica ha abrogato il raddoppio dei termini.

Fonte “Il sole 24 ore”

Pignoramenti, la Corte costituzionale apre all’opposizione

di Laura Ambrosi e Antonio Iorio

Più tutele per i contribuenti nel pignoramento presso terzi dall’agente della riscossione. È stata infatti dichiarata incostituzionale la norma che non ammetteva nell’esecuzione esattoriale la tutela prevista dal codice di procedura civile in occasione delle esecuzioni ordinarie. A sancirlo è la Consulta con la sentenza 114, depositata ieri.

Ma vediamo, in estrema sintesi, i termini della questione. Nell’ipotesi in cui, a seguito della cartella di pagamento, il contribuente non adempia al proprio debito tributario richiesto dall’agente della riscossione, tra i vari poteri a disposizione di quest’ultimo vi è il pignoramento presso terzi.

In questi casi la controversia non riguarda il giudice tributario e il contribuente può solo opporsi all’esecuzione davanti al giudice ordinario. Tuttavia, rispetto alla normativa del codice di procedura civile, nell’esecuzione esattoriale e segnatamente nel pignoramento presso terzi, esistono alcune deroghe a favore del creditore (l’agente della riscossione) previste dal Dpr 602/73.

A norma dell’articolo 57 di questo decreto nel pignoramento presso terzi nelle esecuzioni esattoriali non sono ammesse: le opposizioni regolate dall’articolo 615 Cpc, fatta eccezione per quelle concernenti la pignorabilità dei beni; le opposizioni regolate dall’articolo 617 Cpc relative alla regolarità formale ed alla notificazione del titolo esecutivo.

Ne consegue che il contribuente interessato, una volta effettuato il pignoramento presso terzi dall’agente della riscossione, ha di fatto pochissimi strumenti di tutela proprio perché quelli previsti dal codice di procedura civile subiscono delle forti limitazioni.

In questo contesto i tribunali di Trieste e Sulmona rilevavano in opposizione ad atti di pignoramento dell’agente della riscossione la fondatezza sostanziale e processuale dell’impugnazione del contribuente. In particolare, nella vicenda sottoposta al vaglio dei giudici triestini, il contribuente lamentava la violazione da parte di Equitalia dell’articolo 7 del Dl 70/2011, relativo alla sospensione ex lege degli atti esecutivi esattoriali per la durata di 120 giorni.

Tuttavia, si trattava di circostanze che non potevano essere fatte valere né davanti alle commissioni tributarie, poiché gli atti dell’esecuzione esulano dalla giurisdizione tributaria, né davanti al giudice ordinario per le limitazioni poste dal ripetuto articolo 57. Vi sarebbe, così, un difetto assoluto di giurisdizione con conseguente violazione degli articoli 3 e 24 della Costituzione. Da qui, in buona sostanza, la remissione alla Consulta.

La Corte ha ritenuto fondata la questione sollevata dal tribunale di Trieste. Secondo la Consulta, in estrema sintesi, la peculiarità dei crediti tributari, che può determinare una disciplina di favore per l’amministrazione fiscale, come già rilevato dalla Corte stessa anche recentemente (da ultimo, sentenza n. 90 del 2018), e che è a fondamento della speciale procedura di riscossione coattiva tributaria rispetto a quella ordinaria di espropriazione forzata, non è però tale da giustificare che, nelle ipotesi in cui il contribuente contesti il diritto di procedere a riscossione coattiva e sussista la giurisdizione del giudice ordinario, non vi sia una risposta di giustizia se non dopo la chiusura della procedura di riscossione ed in termini meramente risarcitori.

Per tali ragioni è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo 57, comma 1 lettera a) del Dpr 602/73, nella parte in cui non prevede per le controversie relative agli atti dell’esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella le opposizioni regolate dall’articolo 615 codice procedura civile.

Fonte “Il sole 24 ore”

Detrazione dell’Iva erroneamente assolta in cerca di punti fermi

di Benedetto Santacroce

Ancora aspetti da puntualizzare sulle disposizioni che permettono al cessionario/committente di detrarre l’Iva che il cedente/prestatore ha erroneamente assolto, in una situazione che è comunque da definirsi di irregolarità. I commenti della prassi – si fa riferimento in particolare alla circolare 12 di Assonime di ieri – pur offrendo una propria linea interpretativa, sottolineano la necessità di chiarimenti ufficiali su alcuni punti della recente disciplina.

Dopo l’introduzione della possibilità per il fornitore di chiedere il rimborso dell’imposta non dovuta entro 2 anni dall’avvenuta restituzione al cliente dell’importo pagato a titolo di rivalsa (articolo 8 della legge europea 2017), specularmente è stato previsto (articolo 1, comma 935, della legge di bilancio 2018) che, se il cliente ha detratto un’imposta superiore a quella effettiva, il diritto alla detrazione viene comunque conservato con un’unica penalità, ovvero l’applicazione di una sanzione in misura fissa. Se la norma (articolo 6, comma 6, del Dlgs 471/1997) è stata accolta giustamente in un clima di entusiasmo generale, in quanto permette di garantire la neutralità dell’Iva nelle ipotesi di applicazione indebita dell’imposta senza passare per i vari step previsti dalla precedente procedura (il cessionario/committente chiedeva al fornitore la restituzione dell’imposta a lui pagata a titolo di rivalsa, il fornitore dopo aver restituito la somma al cliente, chiedeva il rimborso all’Erario), ciò non significa che essa sia completamente scevra da criticità.

Innanzitutto, sembrerebbe da escludere la sua interpretazione letterale, secondo la quale l’ambito di applicazione della norma sarebbe limitato solamente ai casi in cui l’imposta è dovuta, ma ne è errata la quantificazione, come nel caso in cui il fornitore abbia applicato erroneamente un’aliquota maggiore a quella effettivamente dovuta. Escludendo la detraibilità dell’Iva non dovuta ogniqualvolta l’operazione non è soggetta ad Iva poiché esente, non imponibile od esclusa, si creerebbe una forte disparità rispetto ad un comportamento (l’applicazione di un’aliquota superiore a quella corretta) del tutto analogo, andando contro la ratio stessa della riforma.

Un’altra questione è il dubbio sulla compatibilità dell’articolo 6, comma 6 con la giurisprudenza unionale (in particolare sentenza del 15 dicembre 2011, C-427/10). In quel caso la Corte aveva affermato che l’imposta non dovuta non sarebbe comunque detraibile, affermazione che – secondo la circolare di Assonime – non creerebbe un contrasto tra la norma domestica e la direttiva Iva, così come interpretata dai giudici unionali: il motivo è che, per garantire a tutti gli effetti il principio di neutralità, se l’ordinamento italiano richiede che l’imposta erroneamente esposta in fattura è comunque dovuta (articolo 21, comma 7, del Dpr 633/1972), dall’altro lato, per coerenza, ed in quanto non c’è danno per l’Erario, deve consentire al debitore di portare in detrazione l’imposta, evitando il giro di restituzioni tra cliente, fornitore, Erario sopra descritto. Naturalmente, deve trattarsi di un contesto in cui non vi sia frode fiscale.

Fonte “Il sole 24 ore”

Dati liquidazioni Iva, correzione degli errori a due vie

di Paola Bonsignore e Pierpaolo Ceroli

Passata la scadenza del 31 maggio per la comunicazione dei dati delle liquidazioni Iva relativi al primo trimestre, gli operatori del settore iniziano ad avere le prime preoccupazioni circa la possibilità di ricevere dal sistema uno scarto della comunicazione inoltrata o la rilevazione a posteriori della commissione di errori nella compilazione della stessa.

Diventa, quindi, necessario ricercare i possibili rimedi e valutare le eventuali sanzioni cui si sarà soggetti. In linea generale entrambe le problematiche sono sanabili attraverso:
•un nuovo invio nel caso di scarto;
•la predisposizione ed inoltro di una nuova comunicazione liquidazioni periodiche Iva, o la corretta indicazione dei dati errati in sede di dichiarazione Iva, in caso di omissioni/errori nella compilazione della comunicazione;
•il pagamento, se ne è il caso, della sanzione amministrativa da 500 a 2mila euro, riducibile alla metà nel caso in cui la corretta trasmissione avviene entro 15 giorni successivi la scadenza stabilita, ex articolo 11, comma 2-ter, del Dlgs 471/1997 ravvedibile in base all’articolo 13 del Dlgs 472/1997 (risoluzione 104/E/2017).

Il nuovo invio in caso di scarto
In caso di scarto da parte del sistema delle Entrate per la presenza di anomalie nella liquidazione inoltrata, sarà possibile ritrasmettere il file attraverso un nuovo invio telematico, il quale se viene posto in essere:
•entro 5 giorni lavorativi successivi (esclusi quindi il sabato, domenica e le festività) alla data contenuta nella comunicazione che attesta il motivo dello scarto ed accettato dal sistema informatico dell’Ufficio sarà considerato tempestivo, anche se è scaduto il termine ordinario di presentazione (circolare 195/1999 e risoluzione 5/E/2003), e di conseguenza non sarà soggetto a sanzione (ad esempio qualora la data della comunicazione di scarto sia 31 maggio il termine per la ritrasmissione “tempestiva” sarà il 7 giugno: si veda Il Quotodiano del Fisco del 29 maggio ). In tale caso sembra opportuno conservare, ai fini probatori, sia la comunicazione originale di scarto, sia la comunicazione “rettificativa” con le relative ricevute emesse dall’Amministrazione a riprova dell’avvenuta presentazione nei termini;
•oltre 5 giorni lavorativi successivi alla data contenuta nella comunicazione che attesta il motivo dello scarto sarà considerato fuori termine e, quindi, sarà necessario versare la sanzione amministrativa minima prevista dal citato articolo 11 ridotta a seguito di ravvedimento in base alla data dell’adempimento (ulteriormente ridotta alla metà nel caso in cui la corretta trasmissione avviene entro 15 giorni successivi la scadenza stabilita).

La correzione degli errori
Viceversa, nel caso di errore, come anticipato, saranno possibili due soluzioni ai fini della correzione dei dati trasmessi:
■compilazione di una nuova comunicazione delle liquidazioni periodiche e nuova trasmissione tramite il servizio online dell’agenzia delle Entrate;
■indicazione dei dati corretti relativi alla liquidazione errata in sede di dichiarazione Iva.

Qualunque sia la scelta del contribuente sarà necessario versare la sanzione amministrativa minima di cui all’articolo 11 del Dlgs 471/1997 (500 euro), riducibile alla metà se la corretta trasmissione avviene entro 15 giorni successivi la scadenza stabilita (250 euro) oltre alla riduzione derivante dall’applicazione del ravvedimento operoso.

A titolo esemplificativo, si ipotizzi che in data 15 giugno sia trasmessa la correzione della liquidazione periodica relativa al primo trimestre 2018 con scadenza 31 maggio, e la sanzione sia versata nella medesima data la sanzione da pagare, tenendo conto anche della riduzione a 1/9 a seguito di ravvedimento operoso, sarà pari a 27,78 euro [(500/2)/9=27,78].

Fonte “Il sole 24 ore”

Accertamento, utilizzabili solo i dati «regolari»

di Laura Ambrosi e Antonio Iorio

Se l’accesso presso i locali adibiti promiscuamente ad abitazione e a sede dell’attività non è autorizzato dalla Procura i dati acquisiti non sono utilizzabili a nulla rilevando la consegna spontanea ai verificatori da parte dell’interessato. Nessuna norma, infatti, subordina l’autorizzazione alla volontà del soggetto sottoposto a verifica. A fornire questo importante chiarimento è la Corte di cassazione con l’ordinanza n. 13711 depositata ieri.

L’agenzia delle Entrate rettificava a un contribuente un avviso di accertamento fondato sulla documentazione rinvenuta in occasione dell’accesso presso i locali adibiti promiscuamente ad abitazione e a sede dell’attività. Il contribuente impugnava l’atto impositivo evidenziando tra i diversi motivi di ricorso che l’accesso dei verificatori era avvenuto in assenza dell’autorizzazione (ex articolo 52 del Dpr 633/1972).

Entrambi i giudici di merito annullavano l’accertamento e l’agenzia delle Entrate ricorreva in Cassazione. In particolare, l’Ufficio evidenziava che la spontanea consegna della documentazione da parte del contribuente avrebbe escluso la necessità della predetta autorizzazione, potendosi utilizzare il materiale indiziario comunque raccolto.

I giudici di legittimità hanno premesso che non esiste nell’ordinamento tributario un principio generale di inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite, con la conseguenza che i verificatori devono solo rispettare le disposizioni dettate dalle norme tributarie. Tuttavia, proprio tali norme, prevedono la necessità di una preventiva autorizzazione del procuratore della Repubblica per procedere a specifici accessi diversi dalla mera sede dell’attività.

La giurisprudenza in proposito ha chiarito che la mancanza di tale autorizzazione, ove richiesta, determina la inutilizzabilità degli elementi probatori sui quali sia stato fondato l’accertamento solo nell’ipotesi di accesso domiciliare. Più precisamente, la norma dispone che se i locali sono adibiti anche ad abitazione (cosiddetto uso promiscuo) è necessaria l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica, quale mero atto amministrativo. Mentre se si tratta di un accesso presso la sola abitazione occorre un’autorizzazione con specifica indicazione degli indizi gravi indizi di violazione delle norme tributarie.

Tale inutilizzabilità, sebbene non espressamente prevista per legge, deriva sia dalla regola generale secondo cui l’assenza del presupposto di un procedimento amministrativo infirma tutti gli atti nei quali si articola, sia dal principio dell’inviolabilità del domicilio (articolo 14 della Costituzione). Il giudice deve così vagliare le prove offerte in causa solo se ritualmente acquisite.

La Cassazione, alla luce di queste premesse, ha rilevato che tali principi non possono essere derogati per effetto della consegna spontanea della documentazione da parte del contribuente. Ed infatti, l’accesso, effettuato senza la necessaria autorizzazione, in ogni caso non è legittimo; l’eventuale consenso o dissenso del contribuente è privo di rilievo giuridico non essendo richiesto e o preso in considerazione da nessuna norma di legge. Nella specie, quindi, poiché la sede era adibita sia ad attività sia ad abitazione, occorreva l’autorizzazione del procuratore della Repubblica a prescindere che il contribuente avesse spontaneamente consegnato i documenti richiesti.

La decisione è particolarmente importante poiché non di rado, in occasione dei controlli, i verificatori ritengono di poter bypassare le necessarie autorizzazioni solo perché il contribuente si mostra collaborativo, consegnando ciò che gli viene richiesto.

Fonte “Il sole 24 ore”

La rinuncia dei soci al credito cerca una via d’uscita dall’imposta di registro

di Giuseppe Carucci e Barbara Zanardi

Il finanziamento dei soci persone fisiche enunciato nel verbale di assemblea potrebbe essere a rischio di assoggettamento a imposta di registro proporzionale. Pertanto, in occasione della copertura delle perdite mediante rinuncia dei soci alla restituzione del finanziamento, alcuni accorgimenti operativi potrebbero scongiurare l’imposizione per enunciazione. Il tema è attuale per i soggetti che sono ancora alle prese con il bilancio 2017, ad esempio, perché hanno differito a 180 giorni il termine di approvazione.

L’origine del problema
Il rischio di enunciazione del finanziamento è connesso al contenuto della sentenza della Cassazione 15585/2010, che ha sancito l’obbligo di corrispondere l’imposta di registro del 3% per un finanziamento dei soci non registrato, ma richiamato in un successivo verbale di assemblea straordinaria nel quale, attraverso la rinuncia dei soci, si ricostituiva il capitale sociale eroso dalle perdite.

L’accertamento troverebbe fondamento nell’articolo 22 del Dpr 131/1986, che prevede l’applicazione dell’imposta alle disposizioni enunciate in un determinato atto e contenute in contratti verbali o atti scritti formati in precedenza e non registrati.

Soluzioni operative
Nonostante le critiche subite da tale decisione della Suprema corte, prudenzialmente, per cercare di evitare il rischio di una imposizione del finanziamento enunciato, è opportuno adottare le seguenti principali soluzioni operative individuate dalla prassi notarile, prescindendo da ulteriori valutazioni prettamente giuridiche (ad esempio, effetti di diluizione dei soci che non sottoscrivono l’aumento del capitale).

Conversione finanziamento in capitale
La prima soluzione consiste nel convertire preventivamente il finanziamento soci in versamento in conto capitale e, solo successivamente, di utilizzare, per l’aumento del capitale sociale, la riserva di patrimonio netto generata a seguito di tale conversione.
In tal modo, pertanto, prima si effettua la rinuncia al credito, ad esempio con lettera, e, poi, nel verbale, si da atto solo dell’esistenza della riserva che viene utilizzata per l’aumento del capitale.

Delibera aumento e successiva esecuzione
Un’altra soluzione consiste nel procedere con la sola delibera di aumento, riservando in un secondo momento, e con differenti modalità (ad esempio mediante scambio di corrispondenza), l’esecuzione materiale dell’aumento stesso, che, pertanto, non è parte della delibera assembleare. In tal modo si evita di eseguire in un unico contesto l’aumento e la sottoscrizione del capitale, nonché la liberazione della sottoscrizione mediante rinuncia del socio al credito derivante dal finanziamento effettuato a favore della società.

Restituzione finanziamento
Infine, si potrebbe procedere alla restituzione del finanziamento soci prima dell’adozione della delibera di aumento del capitale e, successivamente, al conferimento in società del denaro. Tale soluzione non è sempre percorribile, soprattutto quando il finanziamento non sia facilmente liquidabile e rimborsabile. In definitiva, come si evince dalle soluzioni operative sopra analizzate, al fine di cercare di sottrarre tali delibere di copertura perdite dal rischio di imposizione, è opportuno che la “rinuncia” al credito o il suo utilizzo per una ricapitalizzazione si perfezioni al di fuori di un verbale notarile o comunque non in atti sottoposti a registrazione.

Fonte “Il sole 24 ore”

Il professionista deduce il leasing immobiliare

di Gian Paolo Tosoni

I professionisti possono dedurre i canoni di leasing immobiliare ma non l’ammortamento del fabbricato strumentale. La conferma da parte dell’Agenzia in occasione dello speciale L’esperto risponde era scontata, ma ha consentito di aprire il dibattito su una delle tante anomalie del nostro sistema tributario, sottolineata nell’occasione dal consigliere delegato alla fiscalità del Cndcec Gilberto Gelosa.

L’articolo 54, comma 2, del Tuir in tema di deducibilità del costo dei beni ammortizzabili prevede fra l’altro che la deduzione dei canoni di locazione finanziaria è ammessa per un periodo non inferiore alla metà del periodo di ammortamento corrispondente al coefficiente stabilito dall’apposito decreto; in caso di beni immobili la deduzione è ammessa per un periodo non inferiore a dodici anni. Tale modifica è stata introdotta dal dall’articolo 1, comma 162, della legge 147/2013 con effetto dai contratti di locazione finanziaria stipulati a decorrere dal 1° gennaio 2014. In quella occasione il legislatore aveva fissato il limite minimo di deducibilità per i canoni di leasing immobiliare nella misura di dodici anni prevedendo la modifica anche per il reddito di lavoro autonomo, senza considerare che per tali soggetti la deducibilità non era ammessa. Però introducendo una norma che stabiliva il nuovo limite di deducibilità temporale, ha legittimato la rilevanza fiscale del costo anche per i professionisti.

Mentre la deducibilità dell’ammortamento dei fabbricati strumentali per l’esercizio di arti e professioni si è fermata agli acquisti effettuati fino al 31 dicembre 2009 relativamente agli immobili acquistati nel periodo dal 2007 al 2009.

Quindi durante il forum, l’Agenzia ha ricordato che in mancanza di una espressa previsione normativa, resta invece a tutt’oggi preclusa la possibilità di dedurre gli ammortamenti relativi ai beni immobili strumentali acquistati dal professionista a partire dal 1° gennaio 2010.

Per questi immobili si applica la disposizione contenuta nell’articolo 43 del Tuir la quale afferma che il fabbricato strumentale posseduto e utilizzato esclusivamente per l’esercizio della professione, non produce reddito fondiario e quindi non deve essere assolta l’Irpef sulla rendita catastale.

Inoltre la risposta dell’Agenzia ricorda che la indeducibilità del costo sostenuto dal professionista per l’acquisto diretto dell’immobile strumentale è contemperata dalla irrilevanza delle eventuali plusvalenze prodotte dal medesimo bene (risoluzione 13/E/2010) le quali sono imponibili solamente per gli immobili acquistati nel periodo 2007/2009 per i quali sono state dedotte le quote di ammortamento. Nella fattispecie la vendita non genera plusvalenza, anche se il fabbricato viene ceduto entro cinque anni in quanto l’articolo 67 del Tuir, in materia di redditi diversi colpisce le plusvalenze realizzate al di fuori dell’esercizio di arti e professioni e di impresa.

Per gli immobili acquisiti mediante contratti di leasing, con canoni dedotti, si porrà il problema della plusvalenza quando saranno ceduti tenuto conto che l’articolo 54 del Tuir contempla anche per i professionisti la tassazione delle plusvalenze e deduzione delle minusvalenze dei beni strumentali. Verosimilmente il fabbricato strumentale riscattato dal professionista e poi ceduto o destinato all’uso personale, rientrerà in questa fattispecie.

Invece l’articolo 54 del Tuir per i professionisti non contempla la rilevanza fiscale della sopravvenienza attiva costituita dal valore normale del bene che si verifica in presenza di cessione del contratto (articolo 88 del Tuir). Non convince la tesi che la sopravvenienza venga inquadrata fra gli elementi immateriali riferibili alla attività professionale e quindi tassabili analogamente alla cessione della clientela (comma 1-quater, articolo 54 del Tuir).

Fonte “Il sole 24 ore”

L’Iva per cassa «separa» le comunicazioni dei dati sulle liquidazioni

di Pierpaolo Ceroli e Agnese Menghi

Entro il prossimo 31 maggio i contribuenti devono comunicare, tramite il modello Lipe, il risultato della liquidazione periodica e, a tal fine, devono indicare l’ammontare delle transazioni che hanno concorso alla determinazione dell’imposta. Come regola generale, nel modello vanno dichiarate tutte le operazioni per le quali è richiesta la fatturazione, a prescindere, quindi, dall’effettiva imposta. A tal proposito, nel quadro VP, al rigo VP2, si riportano le operazioni attive rilevanti nel periodo di riferimento (mese o trimestre) – annotate nel registro delle fatture emesse o in quello dei corrispettivi o comunque soggette a registrazione – al netto dell’imposta. Pertanto, devono essere indicate le operazioni:

•imponibili;
•non imponibili;
•esenti;
•non soggette per carenza del presupposto territoriale, per le quali però è richiesta la fatturazione.

Sono, invece, escluse dalla comunicazione le operazioni esenti effettuate dai soggetti che si sono avvalsi della dispensa dagli adempimenti all’articolo 36-bis del Dpr 633/1972, come anche rilevato dalle istruzioni al modello.

Stessa compilazione per le operazioni passive in quanto nel rigo VP3 deve essere indicato l’ammontare complessivo delle transazioni registrate nel registro degli acquisti (fatture e bollette doganali). Di conseguenza, vanno dichiarati, anche se la relativa Iva è indetraibile:
■gli acquisti interni ed intracomunitari di beni e servizi;
■le importazioni di beni.

In merito alle operazioni con Iva ad esigibilità differita, come nel caso del regime Iva per cassa, il modello deve essere compilato riportando, per quanto riguarda le operazioni attive, l’imponibile nel rigo VP2 relativo al mese/trimestre di effettuazione dell’operazione, mentre l’imposta deve essere compresa nel rigo VP4 del periodo nel quale se ne verifica l’esigibilità. Di conseguenza, l’imponibile risulterà in un modello, mentre la relativa imposta sarà dichiarata in un altro. Allo stesso modo le operazioni passive ad esigibilità differita, le quali devono essere dichiarate riportando l’imponibile nel rigo VP3 nel periodo in cui l’acquisto è registrato, mentre l’imposta va nel rigo VP5 del modello riferito al periodo in cui si è verificato il diritto alla detrazione.

Un’altra ipotesi particolare di compilazione del modello Lipe riguarda le operazioni per le quali l’imposta è dovuta da parte del cessionario. Nell’ipotesi di applicazione del meccanismo dell’inversione contabile il cedente o prestatore indica esclusivamente l’imponibile tra le operazioni attive nel rigo VP2, mentre il cessionario/committente:
■indica la base imponibile solo nel rigo VP3 (e non anche in VP2);
■riporta l’imposta sia nel rigo VP4 «Iva esigibile» che nel rigo VP5 «Iva detratta» (purché l’Iva sia detraibile).

Qualora, invece, l’operazione rientrasse nel regime di split payment, il cedente/prestatore deve indicare solo l’imponibile nel rigo VP2, mentre l’imposta non va riportata nel rigo VP4, in quanto il debitore è la Pa in qualità di cessionario/committente.

Fonte “Il sole 24 ore”

Professionisti, sgravio sulle spese «separate» per alberghi e ristoranti

di Nicola Forte

Approdano in dichiarazione le agevolazioni fiscali per le spese alberghiere e di ristorazione dei professionisti, contenute nella legge 81/2017 (il cosiddetto Jobs act dei lavoratori autonomi).

Dal 2017, è infatti possibile superare i limiti alla deducibilità di queste spese stabiliti dal Tuir (articolo 54, comma 5 ) e, al verificarsi di determinate condizioni, le spese saranno integralmente deducibili.

La novità è stata inserita nell’articolo 54, comma 5 del Tuir (dall’articolo 8 della legge 81/2017). La nuova disposizione prevede la possibilità per il professionista di fornire la prova dell’inerenza delle spese. In buona sostanza, è ammessa la possibilità di dimostrare che le spese alberghiere e dei ristoranti siano state sostenute nell’esercizio dell’attività di lavoro autonomo. La prova può essere fornita esclusivamente con le modalità indicate dal comma 5, cioè addebitando analiticamente al committente gli oneri anticipati tramite l’esposizione distinta degli stessi nella fattura emessa.

Il legislatore ha di fatto spostato l’onere del controllo sulla riconducibilità degli oneri così sostenuti nell’attività professionale, in capo al committente dell’incarico professionale. Infatti, si parte dal presupposto che laddove le spese in questione fossero sostenute a titolo personale (al di fuori dell’attività), il committente rifiuterebbe il pagamento delle stesse unitamente ai compensi relativi all’incarico. Viceversa, in mancanza di una formale contestazione, resa possibile in seguito all’esposizione analitica degli oneri nella fattura emessa, gli stessi non potranno che essere considerati inerenti e quindi integralmente deducibili. Per questa ragione non si applicherà il limite generale alla deduzione delle spese alberghiere e di ristorazione, fissato al 75% degli importi, e, in ogni caso, per un ammontare non superiore al 2% dei compensi incassati nel periodo d’imposta.

La regola generale
In base alla regola generale, se un professionista fa una trasferta per seguire il contenzioso di un cliente, le spese alberghiere e per i ristoranti non sono completamente deducibili: se le spese ammontano a 1.000 euro la quota deducibile è di 750 euro (il 75%). L’importo così determinato deve essere capiente rispetto al 2 per cento dei compensi incassati nell’anno. L’importo eventualmente eccedente risulterà comunque indeducibile. Se i compensi incassati nell’anno sono di modesta entità, è possibile che anche una parte della spesa, pari nell’esempio a 750 euro (dopo aver applicato la prima limitazione), sia indeducibile.

La deroga
Nel nuovo assetto normativo, che consente la deduzione integrale delle spese, «addebito analitico» vuol dire che queste spese devono essere indicate distintamente nella fattura rispetto ai compensi. Se questi oneri fossero compresi nell’unica voce «compensi», il committente non sarebbe infatti in grado di riscontrarne l’inerenza rispetto all’espletamento del mandato professionale. Senza una preventiva attività di controllo, si rischierebbe dunque di consentire al professionista di considerare illegittimamente in deduzione anche gli eventuali costi sostenuti a titolo personale.

La novità è in vigore dal periodo di imposta 2017. È stato dunque modificato il modello «Redditi» 2018. Il professionista deve indicare separatamente, a seconda dei casi, le spese non addebitate rispetto a quelle “ribaltate” sul cliente. Ciò per consentire all’agenzia delle Entrate di controllare la spettanza o meno del beneficio integrale della deduzione in sede di determinazione del reddito.

Se paga il committente
È possibile poi che le spese solitamente a carico del professionista per l’esecuzione dell’incarico siano sostenute direttamente dal committente. In questa ipotesi, l’articolo 54 del Tuir prevede che questi oneri non costituiscano compensi in natura per il lavoratore autonomo.

Si consideri ad esempio il caso in cui una società che organizza un master in diritto tributario paghi direttamente le spese alberghiere e di viaggio del professionista che interviene come docente. L’operazione è perfettamente neutrale per il professionista, dal momento che questi oneri, che rimangono esclusivamente a carico della società, non hanno natura di compensi. È un’opportunità prevista dall’articolo 54 che consente, anche questa, di evitare le limitazioni della deducibilità delle spese alberghiere e di ristorazione.

Le spese di viaggio
La previsione del Tuir (articolo 54, comma 5 ) ha una portata molto ampia ed è riferibile anche alle spese di viaggio e più in generale alla trasferta effettuata dal professionista. Nello specifico, si prevede che «tutte le spese relative all’esecuzione di un incarico conferito e sostenute direttamente dal committente non costituiscono compensi in natura per il professionista».

Per le spese di viaggio, a parte il requisito dell’inerenza, l’articolo 54 non ha previsto specifici limiti quantitativi alla deducibilità. Pertanto, anche se questi oneri fossero sostenuti direttamente dal professionista, concorrerebbero integralmente alla deduzione in sede di determinazione del reddito di lavoro autonomo. Tuttavia, se anche tali spese fossero anticipate dal committente, non costituirebbero mai compensi in natura per il soggetto che ne beneficia. In questo caso, sarà il committente che potrà considerare in deduzione i costi sostenuti per conto del professionista relativi al mandato a lui conferito. La deducibilità spetta. L’inerenza, infatti, sussiste in ogni caso, trattandosi di spese funzionali all’espletamento del mandato professionale. Se è legittimamente deducibile il compenso professionale, anche le spese sostenute dall’impresa committente per conto del lavoratore autonomo possono essere considerate in deduzione.

Fonte “Il sole 24 ore”

Eccedenza Ace da convertire con aliquota uguale tra i soci

di Gian Paolo Tosoni

La conversione in credito Irap dell’eccedenza Ace si fa con le aliquote progressive Irpef stabilite dall’articolo 11 del Tuir a prescindere dall’effettiva incidenza del reddito dei soci. Lo precisa l’agenzia delle Entrate nel videoforum che viene trasmesso oggi.

Il Dm Economia del 3 agosto 2017, articolo 8, prevede per imprese individuali e società di persone in regime di contabilità ordinaria che la deduzione Ace eccedente il reddito d’impresa del periodo d’imposta possa avere utilizzo ampio. Tale eccedenza si può rinviare ai periodi di imposta successivi sia dall’impresa individuale sia dai collaboratori dell’impresa familiare; le società di persone possono attribuire il residuo Ace a ciascun socio in proporzione alla loro quota di partecipazione agli utili. Il socio può dedurre la quota di sua competenza dal proprio reddito d’impresa.

Sia la società di persone sia l’imprenditore individuale sia il socio singolarmente possono scegliere di convertire l’eccedenza Ace in credito Irap applicandovi le aliquote Irpef di cui all’articolo 11 del Tuir e tale credito va ripartito in cinque anni. Ad esempio, se la deduzione Ace eccedente per una persona fisica è di 10.000 euro, assumendo la prima aliquota Irpef del 23%, si può fruire di un credito Irap di 2.300 euro da ripartire in cinque anni. Infatti, se il beneficiario è una sola persona fisica il credito Irap si calcola con le aliquote Irpef corrispondenti agli scaglioni di reddito di cui all’articolo 11.

Ma, qualora la società di persone scelga di tramutare l’eccedenza della deduzione Ace in credito Irap, si pone il problema di quali scaglioni di reddito e relative aliquote Irpef applicare, tenuto conto che i soci, essendo più di uno, possono, avere una progressività Irpef diversa tra loro.

L’Agenzia risolve bene il problema precisando che si devono adottare gli scaglioni e aliquote indicate dall’articolo 11 in modo oggettivo senza tener conto del numero dei soci e delle eventuali aliquote marginali di ciascuno.

L’Agenzia fa anche un esempio: se una società con due o più soci ha una eccedenza Ace di 20.000 euro, avrà diritto ad un credito Irap di 4.800 euro determinato applicando il 23% su 15.000 euro (3.450 euro) ed il 27% sul residuo 5.000 (1.350 euro), a prescindere dai scaglioni di reddito dei singoli soci.

In sintesi, quindi, l’eccedenza Ace può essere utilizzata direttamente dalla società o attribuita al socio. Qualora sia attribuita ai soci, questi possono utilizzarla per ridurre i propri redditi di impresa, riportarla nei periodi successivi o tramutarla in credito IRAP; qualora resti alla società, questa potrà tramutarla in credito IRAP utilizzando, per determinare l’ammontare, le aliquote Irpef progressive.

Fonte “Il sole 24 ore”

Fattura elettronica, ok alla copia in pdf

di Benedetto Santacroce

 I contribuenti potranno continuare a portare in conservazione il pdf della fattura e non saranno obbligati a conservare l’xml, questo a condizione ovviamente che il contenuto dei documenti sia identico. Questa è una delle prime risposte dell’agenzia delle Entrate al videoforum dell’Esperto risponde che sarà visibile gratuitamente online da oggi dalle ore 12 sul sito del Sole 24 Ore. L’Agenzia, dando prevalenza alla sostanza e non alla forma consente la conservazione della copia della fattura elettronica che in originale rimarrà custodita presso lo SdI.

La posizione delle Entrate, che va accolta con pieno favore perché risponde alle esigenze operative manifestate da imprese e professionisti, consente di gestire in modo semplificato i due momenti: quello della formazione del documento e della gestione dello stesso presso l’impresa emittente e presso il cliente e quello di trasmissione e gestione del documento presso il sistema d’interscambio.

Più in dettaglio, ad esempio, un’impresa che si avvale di un intermediario potrebbe continuare ad operare all’interno con le proprie modalità e con i formati più consoni al gestionale utilizzato, inviando un flusso informativo all’intermediario. A sua volta l’intermediario potrebbe elaborare il flusso ricevuto, trasformandolo in xml e provvedendo alla trasmissione dello stesso tramite il sistema d’interscambio e inviando in allegato la fattura in formato pdf. Il destinatario potrebbe acquisire sia il formato xml che il pdf e conservare solo quest’ultimo formato.

Ovviamente, per dare esatta corrispondenza tra il primo e secondo file è necessario gestire e conservare gli esiti o le ricevute che vengono inviate dallo SdI al momento della presa in carica del file ovvero al momento della consegna al destinatario. In queste ricevute lo SdI inserisce un codice alfanumerico che caratterizza univocamente il documento (vale a dire l’impronta del documento stesso attraverso un hash calcolato con algoritmo SHA-256) per ogni file fattura elaborato.

L’Agenzia sottolinea che il documento conservato in pdf è una copia informatica dell’originale che resta pur sempre il file xml trasmesso allo SdI.

La conformità normativa della copia è garantita dalle regole imposte dall’art. 23bis del Codice dell’amministrazione digitale (Dlgs 82/2005 e successive modifiche) che al comma 2 prevede espressamente che «le copie e gli estratti informatici del documento informatico, se prodotti in conformità alle vigenti regole tecniche di cui all’art. 71 (dello stesso Cad), hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale da cui sono tratte se la loro conformità all’originale, in tutte le sue componenti , è attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato o se la conformità non è espressamente disconosciuta. Resta ferma, ove previsto, l’obbligo di conservazione dell’originale informatico».

Nel caso della fattura elettronica, per il quale non si evidenziano particolari regole di obbligo di conservazione dell’originale, è chiaro che l’adozione da parte dell’emittente del documento o del ricevente che è in possesso dell’originale di un processo di conservazione a norma della copia di tale originale che rispetti tutte le regole imposte ai fini civilistici dal Dpcm 3 dicembre 2013 e, ai fini fiscali, dal Dm 17 giugno 2014 soddisfa pienamente gli adempimenti di conservazione della fattura nel tempo.

Proprio per questo l’Agenzia conclude affermando che l’operatore potrà decidere di portare in conservazione anche la copia in pdf, formato considerato idoneo dal citato Dpcm 3 dicembre 2013.

Fonte “Il sole 24 ore”

Tassazione dei dividendi, soci qualificati penalizzati dal nuovo regime

di Giorgio Gavelli

In queste settimane le società presentano i bilanci ai soci riuniti in assemblea e, quando i risultati sono positivi, viene spesso assunta la delibera di distribuzione dei dividendi. Quest’anno, tuttavia, alcune questioni di natura fiscale e contabile meritano un approfondimento.

Sul piano tributario, l’attenzione è puntata sulle controverse disposizioni contenute nella legge di Bilancio 2018 e, in particolare, sulla norma transitoria di cui all’articolo 1, comma 1006 della legge n. 205/2017. Se, in linea generale, l’intento delle nuove disposizioni è quello di assimilare il trattamento dei soci (persone fisiche) qualificati e non, prevedendo in entrambi i casi l’applicazione della ritenuta secca del 26%, viene contestualmente statuito che alle distribuzioni di utili derivanti da partecipazioni qualificate in società ed enti soggetti Ires formatesi con utili prodotti fino all’esercizio in corso al 31 dicembre 2017, deliberate dal 1° gennaio 2018 al 31 dicembre 2022, continuano ad applicarsi le regole previgenti.

È facile verificare che, nella stragrande maggioranza dei casi, il socio qualificato è penalizzato dal nuovo regime, anche per il fatto che la ritenuta alla fonte (o l’imposta sostitutiva) non permette di sfruttare deduzioni e detrazioni per abbattere l’imponibile. Ne consegue che, in prima approssimazione, si potrebbe pensare di risolvere subito il problema deliberando in questi giorni la distribuzione di tutte le riserve divisibili ante 2018 presenti in bilancio, lasciando poi alle possibilità finanziarie della società la materiale liquidazione di quanto deliberato.

Tuttavia, a ben vedere, un simile comportamento appare del tutto sconsigliabile, per più di un motivo. In effetti, la scrittura contabile conseguente ad una simile delibera (dare Riserve avere Debiti verso soci per dividendi) ridurrebbe drasticamente il patrimonio netto, con effetti pressoché immediati su rating e rapporti bancari. Inoltre, qualora successivamente la società realizzasse perdite di esercizio, l’assenza di un patrimonio netto capiente indurrebbe i soci a rinunciare al proprio credito per dividendi, innescando così il rischio di vedersi imputare dall’amministrazione finanziaria il cosiddetto incasso giuridico, atteso che il dividendo è un reddito tassato per cassa come il compenso amministratore, il Tfm, gli interessi attivi e via dicendo (risoluzione n. 124/E/2017, circolare n. 73/1994, Cassazione n. 1335/2016 e n. 26842/2014).

Ma gli effetti negativi non finiscono qui, se si pensa che una scrittura quale quella sopra riportata ha anche l’effetto di ridurre per un pari importo la base Ace sin dall’inizio del periodo d’imposta (circolare n. 12/E/2014) e con analogo impatto sui periodi successivi, nonostante la liquidità permanga in società, anche se non più nell’ambito del netto patrimoniale.

Delicate conseguenze potrebbe anche avere la permanenza del debito verso i soci per un lungo periodo. Infatti, da un lato i diritti che derivano dai rapporti sociali si prescrivono in cinque anni (articolo 2949 Cc), dall’altro non si può escludere che, sulla scorta di alcune discutibili sentenze della Cassazione (10030/2009 e 17839/2016), qualche verificatore trasformi questi importi in finanziamenti fruttiferi da socio a società, inventando interessi e (omesse) ritenute.

A ben vedere, considerato anche l’evidente errore commesso nei confronti di chi aveva già deliberato ma non distribuito, alla data di entrata in vigore della legge n. 205/2017, gli utili realizzati (si veda Il Sole 24 Ore del 14 aprile scorso), la norma transitoria andrebbe riscritta completamente, prima che si concretizzino tutte le situazioni negative a cui può portare. Perché appare scontato che l’erario non vedrà applicato il 26% sugli utili ante 2018 dei soci qualificati, tanto vale stabilire sin d’ora che l’assimilazione con la disciplina dei soci non qualificati (ove ritenuta necessaria) entri in vigore direttamente con la distribuzione degli utili realizzati dall’esercizio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2017.

Fonte “Il sole 24 ore”

Patent box, plusvalenza agevolabile con applicazione del «nexus ratio»

di Michele Brusaterra

In caso di cessione di un bene immateriale per cui risulta applicabile il «patent box», la plusvalenza è esclusa da tassazione, per la parte del 50 per cento del valore risultante dall’applicazione alla stessa del «nexus ratio».

Questa, in sintesi, la regola da tenere a mente per sfruttare la detassazione stabilita dalle norme sul patent box e che riguarda la cessione di uno di quegli «Intellectual property» individuati dalle disposizioni stesse.

Viene stabilito, più precisamente, che tale plusvalenza è esclusa dal reddito complessivo, a condizione che almeno il 90 per cento del corrispettivo che deriva da tale cessione venga reinvestito in attività di ricerca e sviluppo che servono per lo «sviluppo, mantenimento e accrescimento di altri beni immateriali», diversi da quelli già posseduti dall’impresa, e con esclusione dell’importo sostenuto per il loro acquisto, come chiarito dalla circolare dell’agenzia delle Entrate n. 11/E/2016 .

Tale somma va reinvestita, prima della chiusura del secondo periodo d’imposta successivo a quello di cessione, nelle attività di ricerca e sviluppo svolte direttamente dal soggetto che beneficia dell’agevolazione, ovvero in contratti di ricerca stipulati con università, enti di ricerca od organismi equiparati, con società, anche start up innovative, sia che esse appartengano o non appartengano al gruppo del beneficiario dell’agevolazione.

Sostiene, inoltre, sempre la citata circolare n. 11/E/2016, che la plusvalenza costituisce reddito agevolabile nei limiti scaturenti dall’adozione della stessa regola valida per la determinazione del reddito agevolabile derivante dallo sfruttamento degli asset, applicando, quindi, il «nexus ratio», ossia il rapporto fra costi qualificati e costi complessivi, sostenuti dall’azienda.

Più precisamente il «nexus ratio» è dato dal rapporto tra i costi sostenuti per le attività di ricerca e sviluppo, sia svolte direttamente dal soggetto beneficiario dell’agevolazione, sia da università o enti di ricerca e organismi equiparati, da società, anche se start up innovative, diverse da quelle che controllano, direttamente o indirettamente, l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa, costi, tutti, che vanno indicati al numeratore del rapporto.
Sempre al numeratore possono anche essere inseriti i costi relativi ad attività di ricerca e sviluppo, che sono addebitati da soggetti facenti parte dello stesso gruppo societario, ma solo per la quota di tali costi che rappresentano «un mero riaddebito di costi sostenuti da tali società del gruppo nei confronti di soggetti terzi per l’effettuazione delle medesime attività di ricerca e sviluppo».

Dopo l’intervento del Dl 3/2015, il numeratore può essere anche aumentato di un importo pari alla differenza tra quanto indicato al denominatore e quanto indicato al numeratore, ma nel limite, comunque, del 30 per cento di quest’ultimo valore.

Al denominatore si devono indicare, invece, tutti i costi indicati al numeratore, a cui vanno sommati il costo di acquisizione, anche tramite licenza di concessione in uso, del bene immateriale e i costi per operazioni intercorse con le società che direttamente o indirettamente controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa.

Una volta determinato il «nexus ratio», esso va applicato alla plusvalenza realizzata, e il risultato costituisce reddito agevolabile nella misura del suo 50 per cento, percentuale stabilita nel 30 per cento per il 2015 e nel 40 per cento nel 2016.

Fonte “Il sole 24 ore”

E-fattura, tax free shopping con visto digitale

di Alessandro Mastromatteo e Benedetto Santacroce

Definite le modalità tecniche e operative per l’attuazione dell’obbligo di emissione di fattura elettronica per il tax free shopping dal 1° settembre 2018: con determinazione direttoriale prot. nr. 54088/RU , diramata ieri, l’agenzia delle Dogane e dei monopoli, di concerto con l’agenzia delle Entrate, ha diramato le disposizioni necessarie sia al rilascio del visto digitale sia alla interoperabilità con il Sistema di interscambio per la trasmissione dei dati delle fatture.

Nel dettaglio, in caso di apposizione del visto in un punto di uscita nazionale, la prova dell’uscita delle merci non è più fornita dal timbro apposto sul documento fiscale da parte della dogana di uscita, ma dal codice di visto digitale univoco generato da Otello 2.0. Mentre in caso di uscita dal territorio doganale dell’Unione europea attraverso un altro Stato membro, la prova di uscita delle merci è fornita dalla dogana estera secondo le modalità vigenti in tale Stato membro.

Di assoluta rilevanza la possibilità di utilizzare, prima della data di avvio dell’obbligo, la procedura che digitalizza l’intero processo e cioè Otello 2.0. – Online Tax Refund at Exit. Le istruzioni operative, contenute nella nota protocollo 54505/2018 pubblicata anch’essa ieri, chiariscono infatti come i relativi servizi informatizzati risultano disponibili già dalla giornata di oggi, assicurando comunque la gestione presso tutti i punti di uscita non solo delle fatture tax free emesse in modalità elettronica, ma anche di quelle cartacee emesse sino al 31 agosto 2018. Le fatture tax free possono infatti essere presentate in Dogana per l’apposizione del visto entro il terzo mese successivo alla data di acquisto. Di conseguenza, le fatture cartacee potranno essere vistate sino al 30 novembre 2018 con la precedente versione di Otello in caso di uscita dagli aeroporti di Malpensa e Fiumicino oppure con le modalità cartacee, mediante apposizione del timbro “conalbi” presso tutti gli altri punti di uscita. Dal 1° dicembre 2018, invece, tali procedure non saranno più accettate in quanto decorsi i tre mesi dall’avvio dell’obbligo: il cedente è infatti tenuto dal prossimo 30 settembre a trasmettere ad Otello 2.0 il messaggio contenente i dati della fattura per il tax free shopping al momento dell’emissione. Al cessionario dovrà essere messo a disposizione il documento, in forma analogica o elettronica, contenente il codice ricevuto in risposta che ne certifica l’avvenuta acquisizione da parte del sistema. Il messaggio contenente i dati dell’eventuale variazione effettuata ai sensi dell’articolo 26 del Dpr 633/1972, è trasmesso inoltre dal cedente al momento dell’effettuazione della variazione. I dati di competenza dell’agenzia delle Entrate trasmessi ad Otello 2.0 sono automaticamente messi a disposizione in apposita area riservata così da consentire al cedente, con un solo invio, di assolvere anche gli adempimenti comunicativi di natura fiscale. All’agenzia delle Entrate sono inoltre trasmesse le informazioni di competenza sullo stato di apposizione del visto digitale sulle fatture per il tax free shopping.

Il provvedimento si occupa di disciplinare anche il caso di impossibilità temporanea di trasmissione dei messaggi, richiedendo al cedente di trasmetterli non appena il sistema ritorna ad essere disponibile. Va infine ricordato che per usufruire del servizio Otello 2.0. occorre accreditarsi utilizzando le credenziali Spid (Sistema pubblico identità digitale) ovvero la Cns (Carta nazionale dei servizi).

Fonte “Il sole 24 ore”

Ecobonus, cessionari solo qualificati

di Luca De Stefani

Per tutte le cessioni possibili (risparmio energetico qualificato, misure antisismiche o incapienti), secondo la norma, i cessionari possono essere sia i fornitori degli interventi, sia «altri soggetti privati». Ma, per l’agenzia delle Entrate, nei casi di cessione di crediti per il risparmio energetico qualificato (quindi, non le cessioni dedicate agli incapienti o per i lavori antisismici) gli «altri soggetti privati» devono intendersi solo quelli «collegati al rapporto che ha dato origine alla detrazione».

Quindi, ad esempio, per gli interventi sulle parti comuni condominiali, il cessionario, classificabile tra gli «altri soggetti privati», può essere un altro soggetto titolare delle detrazioni spettanti per i medesimi interventi condominiali (cioè un altro condòmino che ha sostenuto le stesse spese agevolate). Poi, per i lavori su un’abitazione singola, cointestata tra una Srl e una persona fisica, per i quali sono stati effettuati bonifici pro quota tra i due soggetti, la cessione del credito è possibile tra i due beneficiari.

Infine, se i lavori sono stati effettuati da un fornitore appartenente ad un gruppo societario, il contribuente beneficiario del bonus può cedere il relativo credito anche ad un’altra società del gruppo. In questo caso, però, se il potenziale cessionario appartenente al gruppo del fornitore è una banca, la cessione è possibile solo per i cedenti incapienti. Tra gli esempi (non esaustivi) riportati dalla circolare n. 11/E/2018, non viene detto nulla relativamente ai familiari o ai parenti del contribuente. Quindi, si consiglia di continuare ad utilizzare, se possibile, il metodo del «familiare convivente», facendo fare direttamente a quest’ultimo il bonifico, senza tentare la strada della cessione postuma. La stretta dell’agenzia delle Entrate non riguarda le cessioni dedicate agli incapienti o per i lavori antisismici, ma potrebbe essere introdotta in seguito.

Gli istituti di credito e gli intermediari finanziari possono essere cessionari solo per le cessioni da parte degli incapienti (si veda Il Sole 24 Ore del 19 maggio 2018).

Successiva cessione

Per tutte e tre le possibili cessioni del credito (lavori verdi qualificati e antisismici o degli incapienti), la norma prevede che il primo cessionario abbia la «facoltà di successiva cessione del credito», ma ora l’agenzia delle Entrate la limita «ad una sola eventuale cessione successiva a quella originaria» (quindi, massimo due cessioni).

La stretta riguarda, però, solo la vendita dei bonus per i lavori di risparmio energetico qualificato e quella dedicata ai cedenti incapienti (non per le misure antisismiche).

Limiti temporali

Considerando che le limitazioni sulle cessioni del credito successive al secondo trasferimento e sulla definizione degli «altri soggetti privati» sono delle novità rispetto alla normativa in vigore, l’agenzia delle Entrate ha chiarito che sono fatti salvi i comportamenti tenuti dai contribuenti che, nel rispetto della normativa, abbiano effettuato, prima del 18 maggio 2018 (data della circolare n. 11/E/2018), cessioni del credito ulteriori rispetto alle prime due ovvero abbiano effettuato, sempre prima del 18 maggio 2018, cessioni nei confronti di altri soggetti privati non collegati al rapporto che ha dato origine alla detrazione.

Interventi su parti comuni

Per evitare errori nella fruizione di detrazioni, si segnala che nella tabella riportata nella circolare n. 11/E/2018 vi sono alcune imprecisioni. Non è stato riportato l’incentivo per la riqualificazione energetica generale di edifici esistenti dell’articolo 1, comma 344, legge n. 296/2006, mentre è stato riportato due volte quello per i «generatori ibridi» o i «microcogeneratori».

Poi, per beneficiare della detrazione del 75% sulle parti comuni, con miglioramento della prestazione energetica (articolo 14, comma 2-quater, decreto legge 4 giugno 2013, n. 63), non è necessaria la coibentazione di almeno il 25% della superficie disperdente (come, invece, indicato nella tabella).

Fonte “Il sole 24 ore”

Scambio dati esteso per l’antiriciclaggio

di Valerio Vallefuoco

Scambio di informazioni a raggio più ampio. Il 16 maggio scorso il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto legislativo che recepisce anche in Italia l’attuazione della direttiva Ue 2258 del 2016 di modifica della precedente direttiva 16/2011 sullo scambio di informazioni tra amministrazioni finanziarie, introducendo la facoltà di accesso da parte delle autorità fiscali alle informazioni raccolte da tutti i soggetti obbligati dalla disciplina antiriciclaggio.

Assistiamo quindi anche nel nostro paese al recepimento della normativa dell’Unione europea meglio conosciuta come Dac 5 (acronimo per Directive on adminstrative cooperation). Questa regolamentazione prevede appunto che gli Stati membri Ue, attraverso normative nazionali, consentano l’accesso alle rispettive amministrazioni fiscali anche a tutti i documenti, le informazioni e le procedure effettuate in materia di antiriciclaggio. Quindi, sono coinvolti tutti gli intermediari bancari, finanziari, assicurativi, le fiduciarie, i professionisti e in genere tutti i soggetti obbligati dalla normativa antiriciclaggio.

In particolare, le amministrazioni finanziarie dell’Unione europea possono già dal 2018 avere libero accesso alle informazioni raccolte per adempiere agli obblighi di adeguata verifica della clientela, alle informazioni e ai dati individuati sulla titolarità effettiva di società e altre entità giuridiche, alle informazioni sulla titolarità effettiva dei trust, dei dati individuati e comunicati ai rispettivi Registri centrali sui titolari effettivi ed in generale a tutti i dati e alle informazioni soggetti agli obblighi di conservazione e raccolta dai soggetti obbligati dalla materia antiriciclaggio.

L’intervento normativo è stato effettuato attraverso la modifica del decreto legislativo 29/2014, relativo alla cooperazione amministrativa nel settore fiscale, modificando l’articolo 3 comma 3 e prevendo quindi espressamente che i servizi di collegamento che sono stati nominati dai rispettivi Stati membri (in Italia, l’agenzia delle Entrate), quando devono prestare assistenza ma in generale quando devono raccogliere elementi utili per lo scambio di informazioni, oltre alla consolidata facoltà di accedere alle informazioni ed ai dati contenuti nell’anagrafe tributaria o attraverso i tradizionali poteri di accertamento, potranno liberamente avere accesso anche alle notizie raccolte dai soggetti obbligati alla normativa antiriciclaggio, così come previsto nella direttiva europea Dac 5.

In particolare, l’amministrazione finanziaria italiana potrà accedere al registro centrale dei titolari effettivi (sezione speciale del Registro delle imprese che dovrà essere istituito entro il mese di luglio 2018), dove tutte le società e gli amministratori di enti o trust o fiduciarie dovranno comunicare i rispettivi titolari effettivi. I soggetti individuati per avere accesso a questi dati particolari saranno l’agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza: in particolare, la prima potrà accedere ai dati antiriciclaggio degli intermediari finanziari.

Per soggetti diversi dagli intermediari, come ad esempio i professionisti, l’agenzia delle Entrate potrà avvalersi della Guardia di Finanza ed in questo senso è previsto dal decreto appena approvato che le due amministrazioni stipulino un’apposita convenzione entro trenta giorni dalla pubblicazione della norma sulla Gazzetta ufficiale. Infine, di particolare rilievo la norma di chiusura che prevede che l’accesso ai dati ed alle informazioni antiriciclaggio verrà utilizzato dall’amministrazione finanziaria italiana anche per verificare il corretto adempimento degli obblighi e delle procedure di adeguata verifica ai fini fiscali.

Fonte “Il sole 24 ore”

Carburanti, credito d’imposta agli esercenti solo per i pagamenti tracciabili

di Paola Bonsignore e Pierpaolo Ceroli

La legge di Bilancio 2018 al fine di incentivare e, in un certo qual modo, di risarcire i contribuenti operanti nella distribuzione di carburanti, che dal prossimo primo luglio, a seguito delle novità in tema di fatturazione elettronica e deducibilità del costo e detraibilità dell’Iva, saranno soggetti a maggiori oneri per la riscossione dei pagamenti tramite mezzi tracciabili (carte di credito, bancomat, carte prepagate), ha previsto l’istituzione a regime di un credito d’imposta.

Tale credito, istituito in un’ottica di contrasto alle irregolarità fiscali e condotte fraudolente legate al settore delle cessioni di carburante, da un punto di vista soggettivo è attribuito a tutti gli esercenti impianti di distribuzione che, come chiarito dall’agenzia delle Entrate nella circolare 8/E/2018, sono da intendersi come «chiunque, in base ad un legittimo titolo (proprietà, affitto, eccetera), svolge tale attività e sostiene il costo di commissione».

Da un punto di vista sostanziale, invece, tale beneficio, ai sensi dell’articolo 1, comma 924, della legge 205/2017, è pari al «al 50 per cento del totale delle commissioni addebitate per le transazioni effettuate, a partire dal 1° luglio 2018, tramite sistemi di pagamento elettronico mediante carte di credito, emesse da operatori finanziari soggetti all’obbligo di comunicazione previsto dall’articolo 7, sesto comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 605».

In altri termini, nel caso di compravendita di carburante l’emissione della fattura elettronica non rappresenta un documento necessario e sufficiente affinché l’esercente tale attività possa beneficiare del credito d’imposta in commento, ma a tal fine dovrà esigere il pagamento tramite mezzi tracciabili individuati nel dettaglio dal provvedimento del 4 aprile 2018, come ad esempio carte di credito, bancomat e/o carte prepagate, e dovrà sostenere il costo di commissione della transazione bancaria, rappresentando, quest’ultimo, la base di partenza per la determinazione del credito stesso.

Nel caso in cui siano rispettati tutti i sopra richiamati requisiti, allora il contribuente potrà utilizzare in compensazione il credito maturato, esclusivamente, in compensazione mediante F24, ai sensi dell’articolo 17 del Dlgs 241/97, a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello di maturazione.

Ad ogni modo, dovrà essere assicurato il rispetto del regolamento Ue 1407/2013 relativo al regime de minimis, in base al quale gli aiuti di Stato (tra i quali vi rientrano oltre ai prestiti a fondo perduto, ai finanziamenti agevolati, alle agevolazioni fiscali, anche i crediti d’imposta) concessi a favore di un’unica azienda non devono superare, nell’arco di tre esercizi finanziari, i 200mila euro.

Al fine del suo effettivo riconoscimento, in attesa del decreto attuativo si può ritenere che il credito, essendo utilizzabile dal periodo d’imposta successivo alla maturazione, sia da indicarsi nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo di maturazione e al contempo non sia utilizzabile come compensazione “interna” alla dichiarazione stessa essendo previsto un utilizzo esclusivo tramite F24.

Fonte “Il sole 24 ore”

 

Per i carburanti debutto a doppio regime

di Marco Mobili

Depositati al Senato gli emendamenti al decreto legge Alitalia che introducono il doppio binario per il debutto della fatturazione elettronica dal 1° luglio 2018 per i carburanti. Le due proposte di modifica depositate da Stefano Borghesi della Lega e da Gilberto Pichetto Fratin (Fi-Bp),saranno da oggi all’esame della commissione speciale di Palazzo Madama.

Oltre a prevedere la validità della scheda carburanti fino al termine del 2018 con altre due proposte di modifica viene precisato che il credito d’imposta maturato dagli esercenti dei distributori che accettano i pagamenti con moneta elettronica potrà essere utilizzato solo successivamente al periodo d’imposta della sua maturazione. Nel pacchetto di emendamenti (in tutto sono 17) compaiono anche alcuni correttivi per gestire meglio gli investimenti degli enti locali.

Nella mattinata di oggi si saprà se gli emendamenti, comunque concordati con il Governo uscente e che di fatto recepiscono le richieste delle associazioni di categoria, supereranno lo scoglio delle ammissibilità. Solo in caso di esito positivo saranno messi al voto della commissione e poi dell’Aula del Senato per poi andare in seconda lettura a Montecitorio.

Come anticipato la scorsa settimana su queste pagina (si veda Il Sole 24 Ore del 15 maggio) il debutto della fatturazione elettronica fissato dalla legge di bilancio per il 1° luglio prossimo sarà accompagnato dalla permanenza “in vita” della scheda carburanti almeno fino al 31 dicembre 2018. L’emendamento del bresciano Borghesi, oltre a prevedere che gli acquisti di carburante debbano essere documentati dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali, dalle università, da ospedali ed enti di assistenza e beneficenza (già previsto come obbligo dal 2015), estende l’e-fattura anche agli autotrasportatori che operano in conto terzi o in proprio con apposite licenze.

Con lo stesso emendamento vengono rinviate al 1° gennaio 2019 le abrogazioni della disciplina delle schede carburanti. Un emendamento che nella sostanza è in linea con quello di Pichetto Fratin che prevede espressamente la possibilità fino al 31 dicembre 2018 di documentare la cessione di carburante per autotrazione anche attraverso la scheda carburanti. Entrambe gli emendamenti, ve detto, non modificano l’articolo 1, comma 917, della legge di bilancio che introduce dal 1° luglio 2018 l’obbligo generalizzato dell’e-fattura per i carburanti.

Sia Lega che Forza Italia chiedono, poi, con altri due emendamenti sostanzialmente identici (1.0.9, 1.0.10) che il credito d’imposta riconosciuto agli esercenti dei distributori sulle commissioni per i pagamenti effettuati con moneta elettronica può essere utilizzato dal periodo d’imposta successivo a quello di maturazione. Per gli oneri, stimati in 5 milioni di euro per l’anno 2018, si pesca dai Fondi di riserva speciali.

Negli emendamenti depositati ieri arriva anche un nuovo riparto degli spazi finanziari per investimenti da 500 milioni di euro destinati alle Regioni. La distribuzione dei “bonus”, che servono ad attivare le intese fra gli enti locali di ogni regione, si porta con sé anche la riapertura dei termini fino al 30 settembre, come accaduto lo scorso anno.

Fonte “Il sole 24 ore”

La fattura differita non sposta il momento di esigibilità dell’Iva

di Giuseppe Carucci e Barbara Zanardi

Per chi eroga servizi nei confronti di clienti abituali può risultare operativamente più efficiente emettere una sola fattura differita mensile in luogo di tante fatture immediate quante sono le prestazioni effettuate. È il caso, ad esempio, delle imprese che svolgono attività di car sharing, di noleggio auto con conducente o dei soggetti che effettuano attività di intermediazione. Tale facoltà è prevista dall’articolo 21, comma 4, terzo periodo, lettera a), del Dpr 633/1972.

La facoltà
Per comprendere appieno i benefici di tale facoltà, giova ricordare che le prestazioni di servizi si considerano effettuate, ai fini dell’Iva, all’atto del pagamento del corrispettivo (articolo 6, comma 3, del Dpr 633/1972) e, quindi, in tale momento l’imposta diviene esigibile e scatta il conseguente obbligo di fatturazione. Tuttavia, in alcuni casi, in deroga a tale previsione, è possibile emettere nei confronti del medesimo cliente una fattura riepilogativa in un momento successivo a quello di effettuazione delle operazioni.

In particolare, l’articolo 21 prevede che, in luogo delle singole fatture immediate, si possa emettere, entro il giorno 15 del mese successivo a quello di effettuazione delle operazioni, una sola fattura cumulativa, recante il dettaglio delle operazioni poste in essere nello stesso mese solare nei confronti del medesimo soggetto.

Si consideri, ad esempio, che un’impresa di car sharing abbia erogato e incassato nel mese di maggio dieci prestazioni nei confronti del medesimo cliente. In base alla regola generale, il prestatore dovrebbe emettere dieci fatture immediate al momento dei relativi incassi. Se, invece, l’impresa si avvale della facoltà in esame, in luogo di dieci fatture immediate, l’operatore può emettere e registrare entro il 15 giugno una fattura riepilogativa recante il dettaglio delle operazioni poste in essere a maggio. Inoltre è possibile emettere la fattura differita anche in caso di effettuazione di una sola operazione.

Le condizioni
Tuttavia, per poter ricorrere alla fattura differita e riepilogativa, è necessario che le prestazioni di servizi siano individuabili attraverso «idonea documentazione». La norma, però, non specifica né vincola il tipo di «documentazione» che può considerarsi «idonea» a tale scopo. Al riguardo, secondo quanto chiarito dalla circolare 18/E/2014, il contribuente, al fine di rendere individuabile la prestazione di servizio, può utilizzare la documentazione commerciale prodotta e conservata in base alla peculiarità dell’attività svolta, purché dalla stessa sia possibile individuare con certezza la prestazione eseguita, la data di effettuazione e le parti contraenti. Può trattarsi, ad esempio, del documento attestante l’avvenuto incasso del corrispettivo, del contratto o della lettera d’incarico.

Liquidazione Iva
Tale disciplina rappresenta soltanto una semplificazione operativa, in quanto il differimento concerne il solo termine di fatturazione, e non anche il momento di esigibilità dell’imposta, che continua a coincidere con il momento di effettuazione delle operazioni.
Tornando al precedente esempio, pertanto, l’Iva a debito derivante dalle fatture emesse in modalità differita e riepilogativa è computata nella liquidazione di maggio (e non in quella di giugno in cui la fattura è stata emessa e registrata).

Fonte “Il sole 24 ore”

Nullo l’avviso con firma digitale notificato per raccomandata

di Rosanna Acierno

È nullo l’avviso di accertamento, sottoscritto digitalmente mediante l’indicazione a stampa del nominativo del capo ufficio (o del funzionario delegato), inviato a mezzo posta raccomandata e non tramite Pec. È questa la conclusione cui è giunta la sezione 1 della Ctp di Pescara, con la sentenza 926/01/2017 (presidente Albano, relatore Papa).

La pronuncia trae origine da un avviso di accertamento notificato tramite posta raccomandata a un libero professionista con cui la Direzione provinciale di Pescara-Ufficio controlli rettificava l’omessa fatturazione di alcune pratiche Docfa e Pregeo e, conseguentemente, maggiori compensi per l’anno di imposta 2011.

Impugnato l’atto, il contribuente ne eccepiva in via preliminare l’illegittimità per violazione dell’articolo 42 del Dpr 600/73, perché non solo sottoscritto digitalmente e non mediante firma autografa, ma anche perché inviato in formato cartaceo a mezzo raccomandata e non tramite Pec.

Costituitosi in giudizio, l’ufficio insisteva per l’infondatezza della eccezione preliminare, depositando a tal fine un’autorizzazione conferita al sottoscrittore dell’atto impugnato valido anche per gli atti digitali.

Accogliendo l’eccezione preliminare di nullità dell’avviso di accertamento per mancata sottoscrizione, la Ctp di Pescara ha innanzitutto precisato che «l’invalidità di un atto tributario, essendo quest’ultimo a formazione procedimentale progressiva, può derivare non solo da questioni sostanziali, ma anche da aspetti procedurali la cui mancanza o indeterminabilità può determinare l’illegittimità del provvedimento amministrativo».

Lo stesso collegio ha poi richiamato l’articolo 15, comma 7, Dl 78/2009 secondo cui la firma autografa prevista sugli atti di liquidazione, accertamento e riscossione può essere sostituita dall’indicazione a stampa del nominativo del soggetto responsabile dell’adozione dell’atto, in tutte le ipotesi in cui gli atti medesimi siano prodotti da sistemi informativi automatizzati, individuati dal provvedimento del direttore dell’agenzia delle Entrate approvato il 2 novembre 2010, tra i quali gli atti di accertamento di violazione e irrogazione di sanzioni in materia di tasse automobilistiche.

Pertanto, a parere della Ctp di Pescara, per gli accertamenti ordinari, quale quello sotteso alla odierna controversia, la sottoscrizione necessaria ai fini della validità può essere solo autografa o dal 1° luglio 2017 anche digitale, in vigenza della possibilità per l’ufficio di inviare gli atti via Pec, sempre a condizione che il contribuente riceva documenti informatici a mezzo posta certificata e non cartacei.

Ne consegue che, nel caso di specie, recando soltanto la stampa del nominativo del responsabile e non la firma autografa ed essendo stato notificato in modalità cartacea tramite posta ordinaria, l’atto impugnato è di fatto privo di sottoscrizione e, dunque, nullo, atteso il chiaro tenore della norma di cui all’articolo 42, comma 3 del Dpr 600/73 secondo cui l’accertamento è nullo qualora l’avviso sia privo di firma.

Fonte “Il sole 24 ore”

Gli utili 2016 accantonati cercano spazio in Redditi

di Giorgio Gavelli

Gli utili 2016 troveranno spazio nel nuovo rigo del prospetto contenuto nel quadro RS del modello Redditi SC 2018 , ma con diverse incognite legate alla compilazione. Il «Prospetto del capitale e delle riserve» deve essere utilizzato con lo scopo di monitorare la struttura del patrimonio netto, così come riclassificato agli effetti fiscali, per la corretta applicazione delle norme riguardanti il trattamento, sia in capo ai partecipanti, sia in capo alla società o ente, della distribuzione o dell’utilizzo per altre finalità del capitale e delle riserve.

Ciò trova conferma all’articolo 1, comma 5 del decreto del 26 maggio 2017 (vale a dire del provvedimento che ha modificato la disciplina dei dividendi e delle plusvalenze su partecipazioni societarie), in base al quale, sulla scorta di quanto già previsto dal precedente decreto 2 aprile 2008, l’ammontare complessivo delle riserve formate con utili prodotti dalla società o dall’ente partecipato, nel periodo compreso dall’esercizio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2007 all’esercizio in corso al 31 dicembre 2016 e i decrementi di tale ammontare conseguenti alle delibere di distribuzione, sono indicati nel «Prospetto del capitale e delle riserve» del quadro RS del modello di dichiarazione dei redditi delle società di capitali. Questo adempimento deriva dalla diversa imposizione ai fini Irpef dovuta all’adeguamento delle percentuali di imponibilità per alcune tipologie di dividendi, proventi equiparati e plusvalenze, conseguente alla riduzione dell’aliquota Ires dal 27,5% al 24%, in base all’articolo 1, comma 61, della legge (208/2015).

La tassazione dei dividendi

Per effetto delle modifiche subite nel tempo dall’aliquota Irpeg/Ires, la quota imponibile del dividendo che il socio persona fisica qualificata è chiamata a dichiarare (al di là delle novità della legge di Bilancio 2018 e della relativa norma transitoria, che non hanno effetto sulla compilazione del modello redditi 2017) è in misura pari:

– al 40% per le riserve formate con utili prodotti dalla società o ente partecipato fino all’esercizio in corso al 31dicembre 2007;

– al 49,72% per le riserve formate con utili prodotti successivamente e fino all’esercizio in corso al 31 dicembre 2016;

– al 58,14% per quelli prodotti nell’esercizio successivo.

La criticità

Era, quindi, inevitabile che l’esigenza di monitorare separatamente gli utili prodotti dal 2017 in poi da quelli precedenti portasse alla comparsa di un rigo in più nel prospetto (si veda Il Sole 24 Ore dell’11 settembre 2017). Ciò che, tuttavia, non si poteva immaginare è che questo rigo (RS136) venisse proposto dalla modulistica senza alcuna possibilità di inserire incrementi di riserve ma solo decrementi. È pur vero, infatti, che gli utili prodotti dalle società nel 2017 non vanno confusi con quelli pregressi (e, quindi, troveranno allocazione nel totale delle riserve di utili ma non nei righi specifici in cui si opera la distinzione temporale), ma è altrettanto vero che gli utili 2016, deliberati nel 2017, ove accantonati a riserva, non hanno ancora trovato collocazione tra le riserve di utili riportate dal prospetto, e devono essere rilevate in questo modello, andando a incrementare le riserve prodotte dal 2008 al 2016.

La possibile soluzione

L’assenza della colonna «incrementi» impedisce una compilazione naturale del prospetto, rendendo obbligatoria una forzatura nella casella finale del rigo oppure in quella iniziale. È quest’ultima la via seguita nell’esempio in pagina, nella consapevolezza, peraltro, che in questo modo si creano disallineamenti rispetto al prospetto presentato l’anno precedente e a livello di totali verticali. Ma in attesa di chiarimenti ufficiali si tratta probabilmente della soluzione con meno controindicazioni.

Infatti, inserire tali utili solo a livello di riserve di utili complessive e non nel rigo delle riserve create fino al 2016 creerebbe un problema maggiore, dato che rischierebbe di rendere applicabile ad essi la maggiore imposizione prevista per i soci qualificati dal 2017 rispetto a quella prevista per il 2016.

Se meno problematica è la distribuzione degli utili a soci soggetti Ires (l’esclusione del 95% dei dividendi citati all’articolo 89, comma 2 del Tuir non è, infatti, variata), o a soci persone fisiche non qualificate (anche la ritenuta “secca” del 26% non è mutata), problemi analoghi a quello ora ricordato riguardano i soci costituiti da imprese non Ires e da enti non commerciali.

È evidente, in ogni caso, che sarebbe opportuno confermare la soluzione proposta (o indicarne un’altra) prima dell’invio dei modelli. Il tempo da qui al 31 ottobre non manca. La speranza è non arrivare sul filo di lana.

Fonte “Il sole 24 ore”