Calcoli certi per il bonus ricerca & sviluppo nelle operazioni straordinarie

di Emanuele Reich e Franco Vernassa

Le attese istruzioni sull’applicazione del credito d’imposta sulla Ricerca e sviluppo in presenza di operazioni straordinarie sono arrivate con la circolare n. 10/E del 16 maggio 2018, elaborata congiuntamente dall’agenzia delle Entrate e dal ministero dello Sviluppo economico. Trasformazioni, fusioni, scissioni e conferimenti posseggono ora i criteri di applicazione per la determinazione del credito per le operazioni da realizzare o che trovano compimento d’ora in poi.

Nessuna preoccupazione per il pregresso, cioè gli esercizi 2015, 2016 e 2017, quando esistevano condizioni di incertezza della normativa di riferimento (articolo 3, del Dl 145/2013 e Dm 27 maggio 2015) che non tratta specificatamente le operazioni straordinarie. Infatti, come già avvenuto con la precedente circolare n. 13/2017, l’Agenzia tutelerà le imprese che – avendo applicato criteri interpretativi diversi da quelli ora indicati – hanno ottenuto un beneficio maggiore o minore di quello spettante alla luce della nuova circolare, in quanto:

nessuna sanzione sarà applicata nell’ipotesi in cui una parte del credito sia stato indebitamente utilizzato in compensazione, fatto salvo il versamento del credito e dei relativi interessi;

sarà invece possibile presentare una dichiarazione integrativa a favore per i periodi d’imposta 2015 e 2016, se il credito effettivamente spettante risulterà maggiore di quanto in precedenza calcolato, con conseguente utilizzo in compensazione.

La circolare individua tre principi di carattere generale alla base delle regole di calcolo: l’autonomia della disciplina agevolativa rispetto all’ordinaria disciplina di determinazione del reddito d’impresa (e dell’imposta); l’autonomia dei singoli periodi d’imposta; il ragguaglio alla durata dei periodi di imposta dei parametri rilevanti ai fini del calcolo del bonus (importo minimo degli investimenti; tetto massimo annuale; media storica di riferimento).

Sul primo principio la circolare 10/E distingue tre profili:

individuazione, determinazione ed imputazione temporale dei costi ammissibili, potendo accadere che in un determinato periodo d’imposta i costi ammissibili al credito Ricerca e sviluppo non coincidano con i costi rilevanti per la determinazione del reddito d’impresa, al fine di uniformare il trattamento dei soggetti beneficiari dell’incentivo a prescindere da regole contabili (costo o capitalizzazione), criteri di determinazione del reddito (Ias, Oic adopter, micro-imprese, forfetizzazione);

clausola di territorialità con riferimento al caso della ricerca contrattuale (extra-muros);

ricerca infragruppo con riqualificazione di fatto da ricerca extra-muros a ricerca intra-muros.

Il secondo e terzo principio generale rilevano se vengono a specificarsi periodi di imposta di durata diversa da quella ordinaria di 12 mesi, che è anche il caso tipico delle operazioni straordinarie.

In proposito, premesso che i sei periodi di imposta di durata dell’agevolazione (2015-2020) corrispondono a 72 mesi, si chiarisce che «è necessario adeguare la tempistica per la determinazione del credito spettante in modo da garantire la possibilità di accedere al beneficio per un arco temporale complessivamente non superiore e non inferiore a settantadue mesi». Di conseguenza nel caso di un periodo agevolato di durata inferiore o superiore a quello standard di 12 mesi diventa necessario operare il ragguaglio dei parametri rilevanti per il calcolo del credito (ammontare minimo di investimenti, importo massimo del credito d’imposta riconosciuto annualmente a ciascun beneficiario e media di riferimento).

Fonte “Il sole 24 ore”

Carburanti, più vie per i pagamenti tracciabili

di Pierpaolo Ceroli e Agnese Menghi

Dal 1° luglio 2018, benché sembra preannunciarsi delle proroghe o meglio un doppio binario sino a fine 2018 (si veda Il Quotidiano del Fisco del 15 maggio ), i soggetti passivi Iva che vorranno dedurre le spese per l’acquisto di carburanti, ma anche detrarre la relativa Iva, dovranno regolare gli acquisti esclusivamente mediante strumenti di pagamento tracciabili, a seguito delle modifiche apportate dalla legge di Bilancio 2018 (legge 205/2017) agli articoli 164 Tuir e articolo 19-bis.1 del Dpr Iva. Anche questa volta, le norme introdotte difettano di coordinamento, parzialmente risolto dall’agenzia delle Entrate con il provvedimento 4 aprile 2018 e la circolare 8/E/2018 . In particolare, dal tenore letterale della norma, la deducibilità dei costi per l’acquisto di carburante è ammessa solo se effettuate mediante carte di credito, di debito o prepagate emesse dagli operatori finanziari soggetti all’obbligo di comunicazione all’Anagrafe tributaria all’articolo 7 del Dpr 605/1972. Per quanto riguarda, invece, l’Iva, la sua detrazione è possibile, oltre che nell’ipotesi precedente, anche quando si ricorre agli altri strumenti individuati dal provvedimento dell’agenzia delle Entrate. Pertanto, vi era un disallineamento tra Irpef/Ires e Iva, risolto dal provvedimento del 4 aprile 2018, il quale individuando gli altri mezzi di pagamento ammessi, ha anche chiarito che l’acquisto di carburanti con uno di questi strumenti consente la deducibilità del relativo costo, nelle misure previste per il veicolo associato.

I mezzi di pagamento che si dovranno utilizzare dal prossimo luglio sono:
•le carte di credito, di debito e prepagate emesse da soggetti all’articolo 7 del Dpr 605/72;
•le carte elettroniche emesse da altri operatori, anche non residenti (a differenza della circolare 42/E/2012 relativamente al sistema dei pagamenti tracciati all’articolo 1 del Dpr 444/97);
•gli assegni, bancari e postali, circolari e non, nonché i vaglia cambiari e postali , rispettivamente, al Rd 1736/1933 e al Dpr 144/2001;
•addebito diretto;
•bonifico bancario o postale;
•bollettino postale;
•altri strumenti di pagamento elettronico disponibili, che consentano anche l’addebito in conto corrente, come ad esempio le applicazioni su smartphone (circolare Guardia di Finanza del 13 aprile 2018).

Nel tempo, però, sono stati introdotti particolari metodi di pagamento, quali le carte magnetiche, come nel caso del contratto netting. In queste ipotesi, il costo è deducibile e l’Iva detraibile se i rapporti tra gestore dell’impianto e società petrolifera, nonché tra quest’ultima e l’utente, siano regolati con uno degli strumenti tracciabili. Stesso principio vale per le spese anticipate dal dipendente, cosicché è necessario che il lavoratore abbia pagato con una carta elettronica e sia stato rimborsato con un metodo tracciabile (si ricorda il nuovo obbligo di tracciabilità delle retribuzioni dal 1° luglio 2018) oppure per tutte le ipotesi in cui il pagamento avviene in un momento diverso dalla cessione.

Per quanto riguarda i mezzi di trasporto interessati, occorre rilevare una particolarità relativa alle imbarcazioni e agli aeromobili, per i quali la normativa Iva richiede espressamente l’utilizzo di «moneta elettronica», mentre ai fini delle imposte dirette, l’articolo 164 del Tuir fa riferimento ai veicoli stradali, cosicché i costi relativi agli acquisti di carburanti potrebbero essere dedotti anche se sostenuti in contanti.

I mezzi di pagamento di tracciabili devono essere utilizzati a prescindere dalla fattura elettronica, in quanto si applica a tutti i carburanti per autotrazione, non solo quindi alla benzina e al gasolio. Pertanto, dal 1° luglio 2018 al 31 dicembre 2018, a seguito dei chiarimenti forniti nella circolare 8/E/2018, chi acquista metano e Gpl dovrà ricorrere alle carte elettroniche, ma anche alla scheda carburante (ma sono necessari ulteriori chiarimenti in merito); mentre coloro che acquistano benzina e gasolio riceveranno l’e-fattura (dalla quale dovrebbe risultare anche la targa del (veicolo), ma dovranno utilizzare comunque gli strumenti di pagamento tracciabili. Infine, si segnala che con la citata circolare 42/E/2012 in caso di più acquisti contestuali rispetto al carburante, sarebbe opportuno effettuare il pagamento in due pagamenti diversi.

Fonte “Il sole 24 ore”

Fatture per operazioni inesistenti, la prova grava sul contribuente

di Massimo Romeo

L’onere della prova circa la legittima deduzione dei costi ed il diritto alla detrazione dell’imposta sul valore aggiunto, in relazione ad importi fatturati per operazioni qualificate dal fisco come oggettivamente inesistenti, grava sul contribuente, il quale deve dimostrarne la non fittizietà, non essendo sufficiente la mera esibizione delle fatture, né la sola dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, normalmente utilizzati per far apparire reale un’operazione fittizia. Questo il principio che emerge dalla sentenza della Ctp Milano n. 2081/2018 depositata il 14 maggio.

Il focus della controversia milionaria finita all’attenzione dei giudici tributari milanesi traeva origine dalle risultanze di un’ indagine della Gdf, culminata in un pvc, a cui facevano seguito avvisi di accertamento per la presunta inesistenza oggettiva di prestazioni di servizi rese a favore della ricorrente da imprese operanti nel settore della logistica e dei trasporti, definite dal fisco “fantasma”, cioè prive di personale e di mezzi sufficienti a generare un così alto volume d’affari.

La ricorrente eccepiva la ricostruzione fatta dai verificatori già nella fase di presentazione delle osservazioni al pvc , contestandone l’omessa motivazione nei successivi avvisi di accertamento e ritenendo carente l’impianto probatorio offerto dall’Ufficio che avrebbe determinato a suo carico una grave ingiustizia per essersi tramutata l’infedeltà dei singoli prestatori ( accertata in esito ad un’indagine penale dinanzi al tribunale) in uno strumento per aggredirla attraverso mere «allusioni e illazioni>; a conforto produceva contestazioni da parte dell’Inps, verbali d’infrazione al codice della strada nonché emessi dalla Polizia stradale a carico di automezzi di una delle ditte fornitrici dei servizi, dichiarazioni dei dipendenti che facevano riferimento ad attività espletata in outsourcing, tutti elementi che, a suo parere, dovevano condurre a presupporre l’esistenza di strutture operanti sul territorio.

L’ufficio considerava inconfutabili le situazioni emerse dalle indagini del Nucleo di polizia tributaria ritenendo altresì incontestabile l’esosità dei prezzi esposti nelle fatture, assolutamente fuori mercato e pertanto antieconomici i servizi pretesi dalla ricorrente come espletati; ne faceva quindi discendere il disconoscimento dei costi ai fini delle dirette e la non deducibilità dell’Iva, spostando l’onere della prova sulla contribuente in virtù della rilevanza e gravità degli elementi emersi.

Preliminarmente ed in punto di diritto i giudici ambrosiani rigettano le eccezioni della contribuente richiamando a supporto alcuni principi espressi dai giudici di legittimità:

•sul mancato rispetto dell’articolo 12 comma 7 dello Statuto, in ordine all’omessa motivazione dell’avviso sulle osservazioni prodotte, in quanto le parti si sono contrapposte con articolate argomentazioni e repliche che non consentono di ipotizzare una potenziale limitazione dell’esercizio del diritto di difesa;

•sull’onere della prova, in quanto in presenza di operazioni oggettivamente inesistenti grava sul contribuente ( articolo 1 lettera a Dlgs 74/2000) l’onere di dimostrare che le operazioni fatturate siano state effettivamente eseguite ed all’Ufficio contestarne l’effettività anche sulla base di presunzioni;

•sulla prova, che non può consistere nella mera esibizione delle fatture, né nella sola dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, normalmente utilizzati per far apparire reale un’operazione fittizia ( Cassazione 23550 novembre 2014 – Cassazione 11155 del 21 maggio 2014).

Nel merito il Collegio, a parte rigettare tutte le varie eccezioni sullo “sforzo” compiuto dalla ricorrente di dimostrare l’effettiva operatività delle imprese fornitrici, considera dirimente e decisivo, «per sgombrare il campo da qualsiasi incertezza» e smentire l’asserita diligenza invocata dalla ricorrente nei rapporti con le imprese prestatrici di servizi ( esibizione Durc), l’analisi dei “mastrini contabili”, di cui ne ha appositamente richiesto il deposito con ordinanza, nonché l’assenza assoluta di documentazione di dettaglio in soccorso della laconicità della descrizione delle fatture disconosciute.

In particolare i giudici osservano che l’analisi di congruità dei movimenti riportati nelle sopracitate schede contabili non può prescindere dalle rilevazioni dei verificatori in merito alla consistenza patrimoniale (alquanto modesta) dei prestatori nonché dalla natura delle prestazioni (che richiedono molta manodopera); pertanto, in siffatto contesto, emergeva una sostanziale incongruenza in quanto le varie imprese avrebbero dovuto pagare la forza lavoro al massimo mensilmente, rendendo non possibile la concessione di un credito così ampio e duraturo nel tempo, in considerazione della rilevata modesta inconsistenza patrimoniale delle imprese che avrebbero eseguito i lavori fatturati. Non avendo pertanto assolto l’onere della prova la Ctr decide di respingere i ricorsi riuniti.

Fonte “Il sole 24 ore”

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Promosse le soglie di rilevanza penale per le omissioni Iva

di Giovanni Negri

La Corte di giustizia europea promuove le soglie di rilevanza penale per l’omesso versamento dell’Iva. Anche dopo la riforma che le ha sensibilmente elevate da 50mila a 250mila euro.

Con la sentenza depositata ieri nella causa 574 C-574/15, i giudici europei sottolineano innanzitutto che, sebbene le sanzioni che gli Stati membri approvano per contrastare le violazioni in materia di Iva rientrino nella loro autonomia procedurale e istituzionale, quest’ultima è tuttavia limitata, oltre che dal principio di proporzionalità, da un lato, dal principio di equivalenza, che implica che tali sanzioni siano analoghe a quelle applicabili alle violazioni del diritto nazionale simili per natura e importanza e lesive degli interessi finanziari nazionali e, dall’altro, dal principio di effettività, il quale impone che dette sanzioni siano effettive e dissuasive.

Così, la sentenza precisa che la legislazione italiana prevede, per l’omesso versamento dell’Iva (sotto i 250mila euro), una sanzione amministrativa pari al 30 % dell’imposta dovuta, che sono previsti degli interessi di mora da versare all’amministrazione fiscale, che il contribuente può beneficiare di una riduzione della sanzione in funzione del momento in cui regolarizza la propria situazione: tutti elementi che portano a ritenere che il principio di effettività appare rispettato. Conclusione valida anche se le sanzioni sono inflitte soltanto alla persona giuridica (società) e non ai suoi amministratori o dirigenti.

Quanto al principio di equivalenza, la Corte osserva che il reato di omesso versamento Iva (reato lesivo degli interessi dell’Unione) non è paragonabile all’omesso versamento delle ritenute da parte del sostituto d’imposta (reato lesivo degli interessi dell’Italia). Infatti, il sostituto d’imposta può rilasciare a favore del contribuente una certificazione di avvenuto pagamento dell’imposta alla fonte, consentendogli di farla valere davanti all’amministrazione fiscale. Il contribuente è liberato dall’obbligo di pagamento anche se la certificazione non risponde al vero (e cioè persino se il sostituto d’imposta non ha in realtà versato le ritenute all’Erario).

In queste condizioni, è evidente ai giudici che l’omesso versamento dell’imposta sui redditi, reato commesso dal sostituto d’imposta è più difficile da accertare rispetto all’omesso versamento dell’Iva, reato commesso direttamente dal contribuente. Pertanto, il principio di equivalenza non è di ostacolo a una normativa, come quella italiana, che fissa soglie di punibilità diverse per l’omesso versamento Iva (250mila euro) e per l’omesso versamento delle ritenute (150mila euro).

I giudici hanno considerato superata l’altra questione posta, a sua volta centrata sulla legittimità dell’estinzione del procedimento penale in caso di pagamento tardivo, sanzioni comprese.

Fonte “Il sole 24 ore”

Precompilata, la tessera sanitaria consente le correzioni

di Marcello Tarabusi e Giovanni Trombetta

Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 110 del 14 maggio scorso il Dm 27 aprile 2018, che integra le regole per la compilazione agevolata delle spese sanitarie e veterinarie nella precompilata. Già per i dati dell’anno d’imposta 2017 sarà possibile interagire con il sistema della tessera sanitaria per consultare e rettificare i dati delle spese sanitarie, anche per familiari a carico, e dei relativi rimborsi, nonché delle spese veterinarie e relativi rimborsi.

Per accedere alle nuove funzioni di interrogazione e modifica dei dati della tessera sanitaria il cittadino deve attivare le funzionalità di compilazione agevolata; dopodiché il sistema rende disponibili all’agenzia delle Entrate una serie di funzionalità in cooperazione applicativa.

In particolare, il contribuente può (si veda il punto 4.3 il Disciplinare tecnico allegato B al Dm 31 luglio 2015, come modificato dal Dm 27 aprile 2018):

• richiedere la lista dei documenti di spesa e di rimborso acquisiti dal Sistema Ts, riferiti per sé e per eventuali familiari a carico (escluse le spese per cui è stata esercitata la facoltà di opposizione all’utilizzo);

• integrare la lista dei documenti risultanti al Sistema TS con ulteriori documenti di spesa o di rimborso non presenti nell’elenco;

• eliminare i documenti di spesa o di rimborso precedentemente inseriti dal contribuente;

• apportare modifiche ai documenti di spesa o di rimborso proposti nell’elenco, variando l’importo o la percentuale di sostenimento delle spese per familiari a carico, oppure escludendo del tutto il documento;

• richiedere il calcolo dell’importo complessivamente detraibile;

• ripristinare la situazione iniziale dei documenti di spesa e di rimborso proposti in elenco al contribuente.

Se il contribuente dichiarante desidera inserire un nuovo documento fiscale o un rimborso, deve indicare la data di pagamento (o di rimborso), il soggetto che ha emesso il documento fiscale e l’importo della spesa (o del rimborso). È facoltativa l’indicazione della partita Iva dell’emittente e del numero del documento fiscale. Se la spesa sanitaria è riferita a un familiare a carico, il contribuente deve inserire la relativa percentuale di sostenimento della spesa.

L’esito dell’elaborazione dopo le rettifiche inserite dal contribuente viene memorizzato in una base dati apposita e reso disponibile alle Entrate.

Per prevenire abusi si prevede espressamente che le informazioni di dettaglio rettificate dal contribuente siano consultabili dai dipendenti dell’Agenzia esclusivamente se autorizzati ed attraverso l’applicativo dedicato ai controlli formali della dichiarazione (articolo 36-ter, Dpr 600/73). Per tale finalità il Sistema Ts mette a disposizione delle Entrate un servizio di consultazione dei dati integrati o rettificati dal contribuente nell’ambito della Compilazione agevolata, tenendo traccia dell’operazione effettuata.

In corso d’anno, e sino al 31 gennaio dell’anno successivo, il contribuente può segnalare eventuali errori al Sistema Ts, il quale informa il soggetto che ha trasmesso i dati per consentire la correzione.

Fonte “Il sole 24 ore”

Falso in bilancio, serve il dolo

di Giovanni Negri

Per contestare il reato di falso in bilancio non è sufficiente che la violazione di norme contabili sia stata rilevante. Serve il dolo. E poi, l’omissione di dati contabili imposti dalla legge e suscettibili di incidere sulla consistenza del patrimonio dell’impresa può dare luogo a singoli reati istantanei di falso in bilancio, con ripercussioni sui termini prescrizione. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 21672 della Quinta sezione penale depositata ieri. La Corte ha così respinto il ricorso presentato contro la condanna ai soli effetti del risarcimento delle parti civili emessa nei confronti del legale rappresentante di una società di costruzioni dalla Corte d’appello, in relazione alla mancata rappresentazione dell’importo del ricavato della vendita di una serie di unità immobiliari.

Rispetto al motivo di ricorso che si concentrava sul riconoscimento della prescrizione e sul fatto che il falso in bilancio, nell’ipotesi contravvenzionale prevista dall’articolo 2621 del Codice civile, sia un reato istantaneo suscettibile di essere consumato in relazione a ciascun esercizio al momento del deposito del bilancio, senza trascinamento nel tempo, la Cassazione prende una linea diversa. Mette in evidenza cioè come una violazione, anche di natura contravvenzionale, che ha la capacità di incidere sulla consistenza del patrimonio dell’impresa nel tempo, e quindi anche negli esercizi successivi rispetto all’esercizio in cui i valori economici sono venuti ad esistenza, può andare a realizzare singoli reati istantanei di falso in bilancio riferiti a ciascun anno di esercizio, fino al momento in cui la condotta non viene a cessare.

Quanto all’elemento psicologico, poi, la Cassazione, avverte che la prova del dolo non può essere individuata nella rilevanza dell’importo contabile oggetto dell’omissione. Il dolo non può essere ritenuto provato nella sola violazione di norme contabili sulla esposizione delle voci in bilancio e non può neppure essere individuato nello scopo di fare vivere artificiosamente la società; l’accusa deve invece trovare elementi specifici e incontestabili in grado di mettere in evidenza nel redattore del bilancio la consapevolezza della sua azione irragionevole attraverso la realizzazione di artifizi contabili.

 Fonte “Il sole 24 ore”

GDPR- Raccolta dati clienti in negozio: Privacy

Cosa inserire nei moduli cartacei per la raccolta dati clienti in negozio?

Cosa fare per l’iscrizione alla newsletter tramite il sito? Perché per legge bisogna usare uno strumento d’invio newsletter professionale e non mandarle semplicemente da gmail o servizi gratuiti? La normativa sui cookie cosa diavolo è?

Se ti stai ponendo queste domande, troverai una risposta in questa lezione.

Iniziamo con il toglierti immediatamente un dubbio:

#1 Il consenso cartaceo per inviare materiale promozionale

Se vuoi inviare materiale promozionale ad un cliente devi avere il consenso scritto e firmato.

Non basta chiederlo a voce.

Se un cliente, ad esempio, ti lascia il numero per essere avvisato dell’arrivo di un prodotto, non puoi usare il suo numero per inviare promozioni o avvisi. Questo perché “lui” non ti ha lasciato l’autorizzazione scritta.

La raccolta dati va fatta usando dei moduli che i clienti devono compilare e che tu devi conservare.

Ma cosa bisogna inserire nei moduli per fare una raccolta dati dei clienti in negozio che rispetti le regole?!

Iniziamo:

  1. a) Per i semplici moduli di raccolta dati dovrai inserire:

I campi da far compilare con i dati che occorrono e-mail, sms, data di nascita etc…

L’Informativa sulla Privacy, dove spieghi come verranno usati esattamente i dati e che NON verranno ceduti a terzi.

Una frase per l’Accettazione al trattamento dei dati personali, con sotto due caselle da spuntare (checkbox) con scritto “Do il consenso” e “ Nego il consenso”.

Una frase come Acconsento al trattamento dei dati personali, per finalità legate ad attività di marketing diretto (invio di materiale formativo e promozionale specificando anche i vari strumenti)” con sotto altre due caselle da spuntare (checkbox) con scritto “Do il consenso” e “ Nego il consenso”.

Lo spazio per la firma del cliente.

La maggior parte dei moduli che si vedono in giro hanno solo riportato la dicitura riguardante la privacy, ma con la riforma è obbligatorio mettere le checkbox ed è assolutamente vietato farle trovare già flaggate, questo mi sembra ovvio ma lo scrivo perché ogni tanto lo vedo fare.

Cosa importante è scrivere il testo in modo che sia facilmente comprensibile, senza usare termini complessi. Inoltre bisogna scrivere esattamente cosa farai nello specifico con i dati richiesti.

  1. B) Per l’iscrizione alla Fidelity Card in negozio:

Dovrai inserire anche:

Il regolamento completo sull’utilizzo della fidelity card.

Le Fidelity Card sono comunque sempre accompagnate da un foglio, con tanto di regolamento e con la nota sulla privacy.

I programmi di fidelizzazione rientrano nelle “manifestazioni a premio”, e dal punto di vista legale si chiamano proprio “operazioni a premio”. Informati bene per sapere quando sono da considerarsi operazioni a premio escluse, perché queste ultime si possono realizzare in maniera più semplice.

Scopri concorsi e operazioni, in modo più specifico, di manifestazioni a premio >>

Leggi tutti i dettagli per fare le operazioni a premio nel tuo negozio >>

Inoltre i moduli vanno conservati ed è vietato raccogliere i dati dei minorenni.

#2 Regole per il Sito Web

  1. a) Per l’iscrizione alla newsletter o sms marketing dal Sito Internet

Se la raccolta dati dei clienti di un negozio avviene dal tuo sito, allora sotto i campi da compilare (email, sms, ecc…)  dovrai inserire:

Un chekbox da flaggare, con la frase che deve portare (linkare) alla pagina completa della tua Policy Privacy.

Potrebbe essere necessario anche un chekbox da flaggare, con a fianco il consenso per ricevere il materiale promozionale.

Molto spesso vediamo negozianti che, per inviare newsletter, non usano strumenti professionali a pagamento come MailChimp, ma le inviano direttamente da gmail, libero, yahoo o altri servizi inadatti.

Questo è un errore grave.

Non solo dal punto di vista marketing ma anche dal punto di vista legge.

Infatti per legge se un cliente si iscrive alla tua newsletter deve:

  • Deve potersi cancellare dalla tua newsletter con un click. Quindi in ogni newsletter deve esserci il bottone o la scritta di cancellazione.
  • Deve poter modificare i suoi dati nel suo pannello personale.
  • Nel footer di ogni email deve esserci un link che porta al documento esteso della tua privacy.
  • Sarebbe meglio far Confermare la sua iscrizione. Quindi una volta che lascia la sua email deve ricevere una prima email del tipo: “Sei stato tu ad iscriverti?” E deve dare il suo assenso cliccando su un bottone di “Conferma”. (termine tecnico ->Double Optin).
  • Ecco qui un esempio di cosa deve ricevere, in automatico, il lettore subito dopo aver effettuato la sua iscrizione alla tua newsletter.
    1. B) Legge sui Cookie e cosa fare.

    Questa legge vale solo se hai un sito Internet. Iniziamo con il capire cosa sono questi Cookie:

    I Cookie sono piccoli file di testo che vengono creati in automatico, che servono per tracciare le sessioni di navigazione e per memorizzare informazioni specifiche riguardanti gli utenti che accedono al server.

     Ad esempio, se ti arrivano i reports sull’andamento del tuo sito (come quelli di Google Analytics), puoi leggere una serie di statistiche dettagliate che vengono rilevate anche grazie ai cookie. Questo senza che nemmeno tu te ne accorga.

    Non ti serve sapere ulteriori tecnicismi, ma se vuoi saperne di più riguardo alla legge ecco un link di approfondimento del Garante della Privacy >>.

    Accertati che il tuo “sitologo” o la società a cui ti sei appoggiato per la creazione del sito, ti aiutino a sistemare tutto.

    In linea di massima per rispettare questa normativa è necessario:

    Inserire un banner “BEN VISIBILE” che compaia appena l’utente arriva sul sito in modo che, l’utente, possa dare il suo consenso al rilascio dei vari cookie e registrarne l’accettazione.

    Che questo banner sia linkato al documento esteso della “Cookie Policy”.

    Che questo link appaia anche nel footer sotto la dicitura “Cookie Policy”, riportando alla versione completa (come per la Policy Privacy) dove viene spiegato cosa bisogna fare se si vuole negare il rilascio dei cookie.

    Inserire una dicitura sull’utilizzo dei Cookie anche a fondo newsletter.

    Visto che parliamo di siti web vediamo anche…

    Ringrazio Marco dalla UP Informatica, per averci suggerito di aggiungere questi obblighi legali che sono importanti per tutti i titolari di un sito web:

    Partita IVA: Va inserita in home page, o nel footer del sito, per qualsiasi soggetto in possesso di partita IVA. Attenzione perché in caso di omissione, la sanzione varia da € 258,00 fino a 2.065,00. L’obbligo d’indicazione della Partita Iva vale anche per i siti che si limitano a pubblicizzare servizi o prodotti, senza svolgere commercio elettronico. Quindi per te che hai un Negozio è certamente importante inserirla.

    Denominazione della società.

    Indirizzo completo della sede legale della società.

    Iscrizione al registro delle imprese: Sede ufficio e relativo numero d’iscrizione con l’indicazione di eventuale stato di liquidazione in seguito a scioglimento.

    Capitale sociale. (non sempre necessario)

    Il link alla Policy Privacy (politica sulla privacy) deve essere visibile in TUTTE le pagine del sito. Quindi scrivi questa frase “Informativa sulla Privacy” nel footer (ossia a piè di pagina) del sito, e fai in modo che abbia un collegamento tramite link alla pagina completa della tua Policy Privacy.

    Il link alla Cookie Policy sempre nel footer.

    Se hai un e-commerce dovrai aggiungere nel footer anche il link alle condizioni di vendita.

    C) Ulteriori obblighi legali da inserire in ogni Sito Web.

GDPR, a quanto ammontano le sanzioni

di Studio Legale Associato Fioriglio-Croari 4 Aprile 2018, 14:00

Le sanzioni amministrative pecuniarie previste dal GDPR dovranno essere disposte in modo tale da poter dare un’adeguata risposta in base alla natura, alla gravità e alle conseguenze della violazione che è stata realizzata.

Volendo scendere nel merito delle singole sanzioni pecuniarie previste dal GDPR, emerge anzitutto il fatto che il Regolamento, indicando due diversi massimali (€ 10.000.000 e € 20.000.000), riconosce il fatto che la violazione di alcune disposizioni sarà nettamente più grave rispetto alla violazione di altre.

In particolare, come previsto dall’art. 83, paragrafo 4, sarà soggetta all’applicazione di sanzioni amministrative pecuniarie fino ad un massimo di € 10.000.000 oppure, per le imprese, fino al 2% del fatturato mondiale totale annuo riferito all’esercizio precedente (se si tratta di un importo superiore ai 10 milioni di euro) la violazione, anzitutto, di una serie di obblighi che il Regolamento pone in capo al titolare e al responsabile del trattamento dei dati, tra cui, ad esempio:

Gli obblighi sanciti per il trattamento dei dati personali riguardanti soggetti minori di 16 anni (art. 8);

Gli obblighi previsti per il trattamento di dati senza necessaria identificazione dell’interessato (art. 11);

Gli obblighi relativi alla protezione dei dati personali fin dalla progettazione e per impostazione predefinita (ovvero il rispetto dei principi di privacy by design e privacy by default), alla tenuta dei registri delle attività di trattamento, alla cooperazione con l’autorità di controllo, nonché quelli previsti in materia di sicurezza del trattamento dei dati, di notifica delle violazioni dei dati all’autorità di controllo e all’interessato, così come gli obblighi riguardanti la valutazione d’impatto sulla protezione dei dati e la designazione del responsabile della protezione dei dati (artt. da 25 a 39);

Gli obblighi relativi ai meccanismi di certificazione della protezione dei dati (artt. 42 e 43).

Questa stessa sanzione potrà essere applicata poi, come previsto dall’art. 83, paragrafo 4, lett. b) e c), anche nel caso di violazione degli obblighi sanciti in capo all’organismo di certificazione della protezione dei dati dagli artt. 42 e 43 e degli obblighi dell’organismo di controllo per quanto concerne il monitoraggio della conformità dei codici di condotta approvati, di cui all’art. 41, paragrafo 4.

Darà luogo, invece, all’applicazione di una sanzione pecuniaria fino ad un massimo di € 20.000.000 oppure, per le imprese, fino al 4% del fatturato mondiale totale annuo riferito all’esercizio precedente (se si tratta di un importo superiore a 20 milioni di euro) la violazione di:

Principi fondamentali che stanno alla base di un legittimo trattamento dei dati personali, ossia:

In base all’art. 5, i principi di correttezza, liceità e trasparenza del trattamento, il principio di limitazione della finalità del trattamento, il principio di minimizzazione, di esattezza, di limitazione della conservazione, di integrità e riservatezza dei dati personali e, infine, di responsabilizzazione del titolare del trattamento;

Il principio di liceità del trattamento dei dati espresso dall’art. 6, in forza del quale un trattamento sarà lecito se fondato sul consenso dell’interessato, se necessario per l’esecuzione di un contratto o di misure precontrattuali di cui l’interessato sia parte, o ancora per adempiere ad un obbligo di legge da parte del titolare del trattamento o per la tutela di interessi vitali dell’interessato o di un soggetto terzo, come per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento, oppure per il perseguimento del legittimo interesse del titolare del trattamento o di terzi;

I principi che, in base all’art. 7, assicurano che la prestazione del consenso, da parte dell’interessato, al trattamento dei dati personali possa essere considerato legittimo; e infine

I principi a fondamento del legittimo trattamento di categorie particolari di dati personali, quali dati sensibili e dati relativi a condanne penali, come previsto dall’art. 9.

Diritti sanciti in capo ai soggetti interessati a norma degli artt. da 12 a 22 del GDPR, quali:

Il diritto di ricevere adeguate informazioni in ordine al trattamento dei propri dati personali (artt. da 12 a 14);

Il diritto di accesso (art. 15);

Il diritto di rettifica (art. 16);

Il diritto all’oblio (art. 17);

Il diritto alla limitazione del trattamento dei dati (art. 18);

Il diritto alla portabilità dei dati (art. 20);

Il diritto di opposizione al trattamento (art. 21); e, infine

Il diritto di non essere sottoposto a una decisione fondata unicamente su di un trattamento automatizzato, compresa la profilazione, e produttiva di effetti giuridici a suo carico (art. 22).

Disposizioni riguardanti il trasferimento di dati personali a un destinatario situato in un paese terzo o un’organizzazione internazionale (in base agli artt. da 44 a 49);

Obblighi sanciti dagli ordinamenti giuridici dei singoli stati membri e aventi ad oggetto specifiche situazioni di trattamento dei dati, come previsto ai sensi degli artt. da 85 a 91; e infine

Ordini o limitazioni provvisorie o definitive di trattamento stabilite dall’autorità di controllo, come previsto dall’art. 58, paragrafo 2.

Da quanto riportato emerge che, a differenza di quanto previsto dall’attuale normativa interna, il GDPR introduce delle sanzioni effettive e particolarmente elevate per far fronte alla violazione dei principi fondamentali in materia di protezione dei dati personali. Per quanto sia vero che la concreta determinazione delle sanzioni andrà stabilita in stretto rapporto al contesto ed alla gravità della violazione, non può lasciare indifferenti il fatto che da un’informativa inadeguata resa agli interessati possano derivare sanzioni di un valore pari a 2 milioni di euro. È evidente che nell’ottica del GDPR al rispetto dei principi essenziali è riconosciuta un’importanza estrema; è altrettanto evidente, però, l’enorme portata potenziale di simili previsioni normative e la massima attenzione che i titolari dovranno porre per garantirne il rispetto.

GDPR, quali sono i rischi per chi non si mette a norma

di Studio Legale Associato Fioriglio-Croari 23 Febbraio 2018, 14:00

 I rischi cui si va incontro in caso di violazione del Regolamento sono alquanto rilevanti e sottovalutare gli obblighi previsti dal GDPR potrebbe costare ben caro alle imprese inadempienti.

Eventuali violazioni delle disposizioni del Regolamento, così come una sua applicazione inesatta o parziale, comportano infatti rilevanti conseguenze, sia sul piano economico sia su quello delle attività effettuate.

Intanto, si deve partire dal presupposto che il Regolamento rafforza i diritti degli interessati e cerca di rendere più efficace gli strumenti a loro disposizione per la tutela di tali diritti nella realtà quotidiana. I titolari, da questo punto di vista, devono attenersi a principi di trasparenza e di semplificazione e rendere ogni informazione attinente ai dati personali oggetto di trattamento disponibile agli interessati, anche agevolando loro l’accesso a tali informazioni (in primo luogo, ponendo la massima attenzione ad una corretta informativa e alla corretta gestione dei dati).

Dalle maggiori garanzie e dalla efficace tutela che il GDPR vuole riconoscere ai diritti degli interessati, consegue, sul piano dei rischi concreti per i titolari, in caso di violazioni del Regolamento, innanzitutto, la possibilità che gli interessati, che ritengano di aver subito una lesione del proprio diritto alla protezione dei dati personali, facciano valere il diritto ad ottenere il risarcimento integrale dei danni subiti (ai sensi dell’art. 82 GDPR). Ciascun titolare infatti è direttamente responsabile civilmente per i pregiudizi, materiali e immateriali, causati agli interessati da un trattamento illecito o scorretto di dati personali dallo stesso effettuato.

In secondo luogo, viene in rilievo l’attività di controllo del Garante per la protezione dei dati personali e i poteri sanzionatori ad essi attribuiti. Tale Autorità, singolarmente e in sinergia con le altre Autorità interne di ciascuno Stato membro, è incaricata di vigilare sulla corretta applicazione del Regolamento e di assicurarne la piena attuazione. Per svolgere correttamente e con efficacia tali compiti, il Garante può intervenire nei confronti dei titolari e dei responsabili dei trattamenti ogni qualvolta sospetti la presenza o riscontri delle concrete violazioni della normativa. A tal fine, l’Autorità Garante è dotata, in forza del Regolamento, del potere di effettuare indagini e di quello di infliggere sanzioni, di tipo inibitorio, correttivo e pecuniario nei confronti dei titolari che abbiano posto in essere violazioni delle disposizioni del GDPR o ne abbiano applicato parzialmente o in modo inesatto la disciplina.

Si tratta di sanzioni che il GDPR pretende debbano essere sempre effettive, proporzionate e dissuasive, richiedendo pertanto a ciascuno Stato membro di valutare le soluzioni più efficaci per assicurare e garantire concretamente tale risultato.

Vero è che le sanzioni applicabili dai Garanti possono variare enormemente, passando da semplici ammonimenti, a ordini di sospensione di flussi di dati o di attività di trattamento, fino all’inflizione di sanzioni pecuniarie del valore anche di 20.000.000 di euro e pari al 4% del fatturato mondiale totale annuo dell’esercizio precedente.

La scelta delle misure appropriate da applicare caso per caso è rimessa alle Autorità di controllo con lo scopo primario di garantire, appunto, una reazione effettiva, dissuasiva e proporzionata alle violazioni effettuate dai titolari. Dovranno sicuramente avere rilevanza la natura, la gravità e la durata delle violazioni, nonché la quantità dei dati personali coinvolti, le finalità di utilizzo dei dati, il carattere intenzionale o colposo della condotta, e così via. Inoltre, ciascuno di tali elementi andrà rapportato con il particolare ambito di riferimento, ad esempio, al numero di utenti di un servizio o alla popolazione di uno Stato, oppure, ancora alla tipologia di dati trattati. È evidente, però, che alcuni interventi chiarificatori al riguardo, da parte dei legislatori interni e delle stesse Autorità Garanti, sono indispensabili per determinare come verranno realmente gestiti tali poteri sanzionatori a seconda di ciascuno specifico contesto di riferimento.

A prescindere dalle indicazioni pratiche che saranno fornite, peraltro, va considerato che su questi aspetti il GDPR prevede una disciplina molto più stringenti rispetto a quella del Codice della Privacy e che non potrà essere trascurata o elusa dalla regolamentazione di dettaglio. Si pensi, a titolo esemplificativo (approfondiremo poi in apposita sede tali aspetti), che la sanzione massima pecuniaria sopra citata può essere applicata anche in caso di violazione dei principi base del trattamento, tra cui quelli di liceità, correttezza, trasparenza, limitazione delle finalità, e quelli relativi alle condizioni per il rilascio del consenso.

GDPR, quali responsabilità hanno il titolare e il responsabile del trattamento

di Studio Legale Associato Fioriglio-Croari 14 Marzo 2018, 14:00

Come stabilito dall’art. 82, comma 1 del GDPR: “Chiunque subisca un danno materiale o immateriale causato da una violazione del presente regolamento ha il diritto di ottenere il risarcimento del danno dal titolare del trattamento o dal responsabile del trattamento”.

È previsto quindi il diritto dell’interessato (in quanto danneggiato) di ottenere il risarcimento del danno, sia patrimoniale sia non patrimoniale, nel caso in cui sia stata posta in essere una condotta, attiva o omissiva, che integri una violazione del Regolamento. E sono tenuti al risarcimento del danno sia il titolare che il responsabile del trattamento.

In particolare, il titolare del trattamento risponderà per il danno cagionato dal trattamento dei dati personali realizzato in violazione del regolamento.

Il responsabile del trattamento risponderà, invece, per il danno causato dal trattamento solo se non ha adempiuto correttamente agli obblighi sanciti nel GDPR in capo ai responsabili del trattamento, oppure se ha agito in modo difforme o contrario rispetto alle legittime istruzioni del titolare del trattamento.

È stato osservato che questa norma sembra configurare profili di responsabilità molto ristretti in capo al titolare ed al responsabile del trattamento. Questa considerazione non è tuttavia corretta se si pensa che deve essere interpretata anche alla luce del Considerando n. 146, per quanto riguarda la figura del titolare del trattamento e dell’art. 28, comma 3, per quanto riguarda invece il responsabile del trattamento.

In sostanza, in questo modo si stabilisce che il titolare sarà responsabile non solo in caso di violazione delle disposizioni del GDPR, ma anche nel caso di inosservanza delle altre disposizioni previste dalle norme attuative, dagli atti delegati, dagli atti di esecuzione del Regolamento e dalle altre disposizioni dei singoli stati membri.

Quanto al responsabile del trattamento, la sua responsabilità sembrerebbe essere circoscritta alle sole azioni od omissioni in relazione all’osservanza delle disposizioni del GDPR, nonché al rispetto delle indicazioni e delle direttive del titolare del trattamento. In realtà, il responsabile del trattamento ha anche un dovere generale, nel senso che è suo compito anche quello di avvisare il titolare del trattamento delle eventuali condotte che risultano non correttamente disciplinate dallo stesso titolare. Sarà quindi possibile configurare a suo carico una responsabilità per omessa informazione nei confronti del titolare del trattamento.

Il titolare del trattamento o il responsabile del trattamento saranno, però, esonerati dalla responsabilità se riescono a dimostrare che l’evento dannoso non è in alcun modo imputabile alla loro condotta, e quindi che il danno è scaturito da una fonte “estranea” al loro raggio d’azione, oppure se dimostrano di aver adottato tutte le misure idonee al fine di evitare il danno stesso.

Qualora più titolari o responsabili del trattamento siano coinvolti nello stesso trattamento e siano responsabili dell’eventuale danno causato per effetto del trattamento, ogni titolare o responsabile sarà responsabile in solido per l’intero ammontare del danno, al fine di garantire il risarcimento integrale del danno subito dall’interessato. L’art. 82, comma 4 prevede, a questo proposito, che “Qualora più titolari del trattamento o responsabili del trattamento oppure entrambi il titolare del trattamento e il responsabile del trattamento siano coinvolti nello stesso trattamento e siano, ai sensi dei paragrafi 2 e 3, responsabili dell’eventuale danno causato dal trattamento, ogni titolare del trattamento o responsabile del trattamento è responsabile in solido per l’intero ammontare del danno, al fine di garantire il risarcimento effettivo dell’interessato”.

Nel caso in cui, poi, un titolare o un responsabile abbia pagato l’intero risarcimento del danno, avrà il diritto di reclamare dagli altri titolari o responsabili -coinvolti nello stesso trattamento- la parte del risarcimento corrispondente alla loro parte di responsabilità.

La norma è interessante in quanto disciplina le conseguenze patrimoniali derivanti dal danno, nei rapporti interni tra titolare/i e responsabile/i del trattamento dei dati: una responsabilità che si configura “per quote”, ossia sulla base delle diverse “porzioni” di responsabilità che possono essere delineate in capo alle diverse figure coinvolte.

Questo è quanto è stabilito dall’art. 82, comma 5 che dispone: “Qualora un titolare del trattamento o un responsabile del trattamento abbia pagato, conformemente al paragrafo 4, l’intero risarcimento del danno, tale titolare del trattamento o responsabile del trattamento ha il diritto di reclamare dagli altri titolari del trattamento o responsabili del trattamento coinvolti nello stesso trattamento la parte del risarcimento corrispondente alla loro parte di responsabilità per il danno conformemente alle condizioni di cui al paragrafo 2”.

GDPR, chi è il Responsabile del trattamento

di Studio Legale Associato Fioriglio-Croari 13 Marzo 2018, 14:00

Come nel caso del titolare del trattamento, anche la figura del responsabile del trattamento -sotto il profilo delle sue caratteristiche soggettive e delle sue responsabilità- è definito dal GDPR negli stessi termini già previsti dalla Direttiva 95/46/CE e dal Codice Privacy.

In particolare, con il termine “responsabile del trattamento” il GDPR si riferisce alla “persona fisica o giuridica, l’autorità pubblica, il servizio o altro organismo che tratta dati personali per conto del titolare del trattamento” (art. 4, paragrafo 1, n. 8). Si tratta quindi di quel soggetto che è preposto e al quale viene affidato, da parte del titolare, il trattamento dei dati personali.

Per quanto riguarda i requisiti soggettivi che il responsabile del trattamento deve possedere, il GDPR prevede che si tratti di una figura in grado di fornire garanzie al fine di assicurare il pieno rispetto delle disposizioni in materia di trattamento dei dati personali, nonché di garantire la tutela dei diritti dell’interessato.

A questo proposito, come specificato dal Considerando 81, le garanzie che il responsabile del trattamento deve essere in grado di fornire si sostanziano in: una conoscenza specialistica della materia, affidabilità e possesso di risorse che permettano di attuare misure tecniche e organizzative in grado di soddisfare tutti i requisiti stabiliti dal Regolamento per il trattamento dei dati personali, anche sotto il profilo della sicurezza.

Il Responsabile del trattamento dovrà quindi avere una competenza qualificata, che potrà essere comprovata da apposita documentazione (rilasciata, ad esempio, in seguito alla frequentazione di corsi qualificati, benché non esistano attualmente particolari abilitazioni o il possesso di specifiche certificazioni). Per quanto riguarda invece il profilo dell’affidabilità, questo requisito dovrà essere fondato su aspetti etico-deontologici, che potrebbero essere dimostrati, ad esempio, con semplici autocertificazioni, anche per escludere eventuali condanne che possano essere rilevanti al riguardo.

A questo proposito, si ricorda che già il Codice della Privacy prevede, all’art. 29, comma 2, che “Se designato, il responsabile è individuato tra soggetti che per esperienza, capacità ed affidabilità forniscano idonea garanzia del pieno rispetto delle vigenti disposizioni in materia di trattamento, ivi compreso il profilo relativo alla sicurezza”.

Non si ravvisano quindi particolari novità nel GDPR, se non per il fatto che il Responsabile deve disporre di sufficienti risorse per mettere in atto le misure tecniche ed organizzative che soddisfino quanto richiesto dal Regolamento. Il Responsabile deve, pertanto, avere a disposizione sufficienti disponibilità sia economiche, sia di personale, e più in generale deve poter disporre di tutti i mezzi necessari allo svolgimento dei compiti affidati dal Titolare. Nel caso in cui il Responsabile del trattamento dei dati sia un soggetto interno all’organizzazione, sarà lo stesso Titolare del trattamento a dover fornire tali risorse; se invece il servizio viene affidato all’esterno, sarà autonomamente il Responsabile nominato a prevedere adeguate risorse per lo svolgimento dell’incarico nel rispetto del GDPR.

Il Responsabile del trattamento dei dati potrebbe, come anticipato, essere tanto una figura interna all’azienda, quanto esterna. A questo proposito, il Garante della Privacy, alla luce della disciplina interna aveva precisato che: “è necessario precisare chi svolgerà l’eventuale ruolo di “responsabile del trattamento”. Conseguentemente, l’Amministrazione deve decidere se prevedere tale figura ed attribuirne la responsabilità o alla struttura esterna cui è affidata l’attività in concessione, oppure ad un dipendente di quest’ultima, o a un proprio ufficio o dipendente dell’Amministrazione stessa (quest’ultima opzione presuppone che l’ufficio o il funzionario pubblico abbiano poteri effettivi di ingerenza sulle attività e sull’organizzazione dell’impresa concessionaria: cosa, in realtà, poco frequente). In concreto, la nomina del responsabile, che deve essere effettuata in forma scritta, potrebbe essere inserita in un apposito articolo della convenzione, oppure essere oggetto di un distinto provvedimento amministrativo o atto di diritto privato”.

In realtà, altri Stati membri hanno sempre individuato questo ruolo come spettante a soggetti esterni rispetto al titolare del trattamento e l’assenza di specificazioni all’interno del GDPR sta dando luogo ad alcune divergenti interpretazioni al riguardo. D’altra parte, in assenza di ulteriori precisazioni, è opportuno ritenere che rimanga valida la facoltà di scelta, come fino ad oggi prevista dal nostro ordinamento.

Il Responsabile del trattamento è obbligato, in forza del contratto stipulato con il titolare, a:

  1. trattare i dati personali solo sulla base di un’istruzione documentata del titolare del trattamento, anche nel caso di trasferimento di dati personali verso un paese terzo o un’organizzazione internazionale a meno che lo richieda il diritto dell’Unione Europea o nazionale cui è soggetto il responsabile del trattamento. In quest’ultimo caso, il responsabile del trattamento dovrà informare il titolare dell’esistenza di un tale obbligo giuridico prima del trattamento, a meno che ciò sia giuridicamente vietato per rilevanti motivi di interesse pubblico;
  2. garantire che le persone autorizzate al trattamento dei dati personali si siano impegnate alla riservatezza o abbiano un adeguato obbligo legale di riservatezza;
  3. adottare tutte le misure richieste dall’art. 32 GDPR, ovvero le misure tecniche e organizzative necessarie al fine di garantire un livello di sicurezza adeguato al rischio (ad esempio, la pseudomizzazione dei dati o la cifratura)
  4. rispettare tutte le condizioni previste per l’eventuale nomina di un sub-responsabile;
  5. assistere il titolare del trattamento con misure tecniche e organizzative adeguate, e tenuto conto della natura del trattamento, al fine di soddisfare l’obbligo di dare seguito alle richieste per l’esercizio dei diritti dell’interessato (quali il diritto di accesso ai dati personali, il diritto di rettifica, il diritto all’oblio, il diritto alla limitazione del trattamento, il diritto alla portabilità dei dati, il diritto di opposizione);
  6. assistere il titolare del trattamento nel garantire il rispetto degli obblighi in materia di tutela della sicurezza dei dati, tenendo conto della natura del trattamento e delle informazioni a disposizione del responsabile del trattamento;
  7. cancellare o restituire tutti i dati personali dopo che è terminata la prestazione dei servizi relativi al trattamento (su indicazione del titolare del trattamento), nonché cancellarne le eventuali copie esistenti; e infine
  8. mettere a disposizione del titolare del trattamento tutte le informazioni necessarie per dimostrare il rispetto dei suoi obblighi, nonché contribuire alle attività di revisione, comprese le ispezioni, realizzate dal titolare del trattamento o da un altro soggetto da lui incaricato. Il responsabile deve, inoltre, informare immediatamente il titolare del trattamento ritenga che un’istruzione violi il Regolamento o altre disposizioni nazionali o di diritto europeo relative alla protezione dei dati.

Anche in capo al Responsabile del trattamento il GDPR pone l’obbligo di tenere il registro dei trattamenti svolti per conto del titolare del trattamento, nel quale vanno riportate dettagliatamente una serie di indicazioni relative ai trattamenti di dati effettuati.

Chi deve nominare il Responsabile del trattamento e quando

Il Responsabile del trattamento è nominato, come previsto dall’art. 28, comma 3 del GDPR, dal Titolare del trattamento attraverso un contratto di nomina (o altro atto giuridico idoneo a norma del diritto dell’Unione Europea o degli Stati membri) che dovrà essere redatto in forma scritta, anche in formato elettronico, e dovrà disciplinare i seguenti elementi:

  1. oggetto, durata, natura e finalità del trattamento;
  2. le categorie di soggetti interessati e il tipo di dati personali oggetto del trattamento;
  3. gli obblighi e i diritti del titolare del trattamento.

Come precisato nel Parere n. 01/2010 del “Gruppo di lavoro ex art. 29”, la nomina di un Responsabile del trattamento dei dati dipende da una decisione presa direttamente dal Titolare del trattamento. Questi può infatti decidere di trattare i dati all’interno della propria organizzazione, oppure delegare tutte o una parte delle attività di trattamento a un soggetto esterno.

Per poter agire come Responsabile del trattamento occorrono quindi due requisiti: da un lato, essere un soggetto distinto dal Titolare del trattamento e, dall’altro lato, la capacità di elaborare i dati personali per conto di quest’ultimo. Questa attività di trattamento può essere limitata a un compito o a un contesto molto specifico, oppure può lasciare al responsabile un certo margine di discrezionalità sul modo di servire gli interessi del Titolare del trattamento, permettendogli, ad esempio, di scegliere autonomamente i mezzi tecnici e organizzativi più adeguati.

Si ricorda, inoltre, che, come previsto per il titolare (sul punto si veda l’articolo dedicato all’argomento) anche il responsabile non stabilito nell’Unione Europea dovrà designare un suo rappresentante all’interno di uno degli Stati membri. L’art. 27, paragrafo 3 del GDPR si applica infatti nel caso in cui il Titolare o il Responsabile del trattamento siano stabiliti in territorio extraeuropeo.

Anche per il responsabile, peraltro, l’individuazione di un rappresentante situato nel territorio europeo viene meno in alcune ipotesi particolari, che non richiedono livelli così elevati di tutela. In particolare, ciò si verifica quando: il trattamento è occasionale, non coinvolge dati “sensibili” (ad esempio dati personali che rivelano l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale, dati genetici, biometrici o relativi allo stato di salute o all’orientamento sessuale della persona), o dati personali relativi a condanne penali o a reati consistenti nell’illiceità del trattamento dei dati, ed è improbabile che comporti un rischio per i diritti e le libertà delle persone in considerazione della natura, del contesto, dell’ambito di applicazione e delle finalità del trattamento stesso; oppure quando il titolare del trattamento è un’autorità pubblica o comunque un organismo pubblico.

Se presente, comunque, il rappresentante del Responsabile del trattamento stabilito in un paese extra-europeo dovrà essere stabilito in uno degli Stati membri in cui si trovano i soggetti interessati i cui dati personali sono trattati nel contesto di un’offerta di beni o servizi o il cui comportamento è monitorato.

Per agevolare la comunicazione con i soggetti interessati e con le autorità è poi previsto che il rappresentante possa porsi quale interlocutore nei rapporti con le autorità di controllo nazionali e anche con gli interessati per tutte le questioni relative al trattamento dei dati personali.

Una novità importante rispetto alla disciplina del Codice della Privacy è quella che riguarda la possibilità per il Responsabile di nominare dei sub-responsabili del trattamento per l’esecuzione di specifiche attività di trattamento per conto del titolare.

A questo proposito, è previsto che il Responsabile del trattamento possa ricorrere ad un altro responsabile solo previa autorizzazione scritta (che può essere, però, sia specifica che generale) del Titolare del trattamento. L’eventuale nomina di uno o più sub-responsabili del trattamento (attraverso un contratto o altro atto giuridico previsto a norma del diritto dell’Unione europea o dei singoli stati membri) dovrà avvenire nel rispetto degli stessi obblighi in materia di protezione dei dati sanciti in capo al Responsabile “primario” del trattamento. In particolare, dovranno essere previste sufficienti garanzie che consentano di attuare le misure tecniche e organizzative più adeguate al fine di soddisfare i requisiti previsti dal Regolamento.

Il Responsabile del trattamento, nel caso in cui vi sia un’autorizzazione scritta generale da parte del titolare, dovrà sempre informare quest’ultimo di eventuali modifiche relative all’aggiunta o alla sostituzione degli eventuali sub-responsabili, dandogli in questo modo l’opportunità di opporsi alle modifiche. Tale comunicazione è importante per lo stesso responsabile che intende nominare altri soggetti, in quanto è sempre il Responsabile “primario” che risponde dinanzi al Titolare dell’eventuale inadempimento del sub-responsabile, anche ai fini del risarcimento di eventuali danni causati dal trattamento, a meno che riesca a dimostrare che l’evento dannoso “non gli è in alcun modo imputabile”.

GDPR, procedure obbligatorie e quando applicare i nuovi istituti

di Studio Legale Associato Fioriglio-Croari 26 Marzo 2018, 14:00

 Il GDPR introduce una serie di obblighi, che derivano essenzialmente dal più generale principio di responsabilizzazione (accountability) posto a fondamento della struttura del Regolamento europeo.

In particolare, come si è avuto modo di precisare in più occasioni in questo Speciale di approfondimento, il titolare e il responsabile del trattamento sono sotto diversi aspetti incentivati ad adottare una serie di provvedimenti finalizzati a dare concreta ottemperanza alle disposizioni del GDPR.

Si ricorda infatti che l’approccio che viene incoraggiato dal nuovo Regolamento europeo è focalizzato principalmente sulla concreta protezione dei dati ed è fondato su una valutazione preliminare del rischio (si parla per questo di sistema risk-based) a una volta basata su un’opportuna considerazione della natura, della portata, del contesto e delle finalità del trattamento, sulla probabilità e sulla gravità dei rischi per i diritti e libertà degli utenti. In relazione a tale complessa e globale valutazione si determinerà poi la misura della eventuale responsabilità del titolare e del responsabile del trattamento.

Un approccio incentrato sul rischio ha sicuramente, da un lato, il vantaggio di pretendere l’ottemperanza di una serie di obblighi più generali che possono andare al di là di una mera e superficiale conformità al dettato normativo.

Dall’altro lato, si tratta sicuramente di un sistema che si presta ad una maggiore flessibilità ed elasticità, essendo in grado di adattarsi al mutamento delle esigenze e degli strumenti tecnologici. Infine, non di può ignorare che il fatto che un simile approccio deleghi sostanzialmente ai titolari ogni valutazione, si presenta come un’arma a doppio taglio: maggiore libertà di scelta, ma maggiore impegno da parte dei titolari e più difficile contestare eventuali provvedimenti sanzionatori da parte del Garante.

In conseguenza di ciò, per poter essere in linea con le prescrizioni e gli obblighi sanciti dal GDPR, è necessario che le aziende realizzino una revisione completa dei dati e delle informazioni che raccolgono e che gestiscono, verificando anche quelle che sono le basi normative a giustificazione di tali trattamenti nonché le conseguenze che il trattamento dei dati effettuato può comportare per gli interessati.

Tra gli adempimenti che dovranno quindi essere realizzati troviamo:

la verifica dei dati che saranno oggetto di trattamento, con identificazione delle varie tipologie di dati e delle categorie di appartenenza e la verifica della finalità di ogni trattamento e della base giuridica sul quale ciascuno di essi si fonda, anche al fine di rendere adeguata informativa ai soggetti interessati, come previsto dagli artt. 13 e 14 del GDPR;

la predisposizione dell’informativa (o il suo aggiornamento) che deve essere fornita agli interessati nel rispetto di tutti gli elementi indicati agli artt. 13 e 14 del GDPR, in particolare gli interessati dovranno essere messi a conoscenza dei diritti che il Regolamento riconosce loro (diritto di accesso, diritto all’oblio, diritto di rettifica, diritto di limitazione e di opposizione al trattamento, diritto alla portabilità dei dati – sul punto si vedano le apposite sezioni dedicate dello Speciale);

la predisposizione del registro delle attività di trattamento dei dati personali, qualora esso risulti necessario in base al disposto dell’art. 30 del GDPR, ossia nel caso in cui l’impresa o l’organizzazione che effettua il trattamento dei dati abbia più di 250 dipendenti. Tale registro dovrà, del resto, essere redatto anche nel caso in cui l’impresa od organizzazione abbia meno di 250 dipendenti, ma ponga in essere un trattamento dei dati che presenta un potenziale rischio per i diritti e libertà degli interessati;

l’instaurazione di una procedura da adottare in caso di eventuali violazioni dei dati (c.d. Data Breach), ad esempio al verificarsi di una divulgazione (intenzionale o meno), della distruzione, della perdita, della modifica o dell’accesso non autorizzato ai dati personali oggetto di trattamento. Il GDPR prevede infatti degli specifici adempimenti nel caso in cui si verifichi una violazione di tal genere, a causa di un attacco informatico, di un accesso abusivo o di un incidente. In questi casi il GDPR impone, come previsto dall’art. 33, in capo al titolare del trattamento l’obbligo di comunicare all’autorità di controllo l’avvenuta violazione entro 72 ore (o comunque senza ritardo). Nel caso in cui la violazione verificatasi faccia presumere che vi sia anche un elevato e attuale pericolo per i diritti e le libertà degli interessati, anche questi ultimi dovranno essere direttamente informati senza ritardo di quanto successo.

inoltre, come previsto poi dall’art. 35 del GDPR, si configura, in capo al titolare del trattamento (e con la possibilità di consultare il Responsabile della protezione dei dati se presente), l’obbligo di procedere ad una valutazione d’impatto sulla protezione dei dati nel caso in cui un tipo di trattamento, anche in considerazione della natura, dell’oggetto, del contesto e delle finalità del trattamento stesso, presenti un rischio elevato per i diritti e le libertà delle persone fisiche. Del resto, il GDPR non sancisce un vero e proprio obbligo di svolgimento della valutazione d’impatto, ma si ricorda che il regolamento prevede un generale obbligo, in capo al titolare del trattamento, di attuare le misure idonee al fine di gestire adeguatamente i rischi per i diritti e le libertà degli interessati che possono derivare dal trattamento dei loro dati. Sarà quindi opportuno procedere all’effettuazione della valutazione d’impatto anche quando sul titolare non incombe l’obbligo normativo in tale senso.

un altro adempimento che viene richiesto al titolare del trattamento consiste nella designazione del Responsabile della protezione dei dati (per un approfondimento su tale sfigura vi invitiamo a leggere l’articolo ad esso dedicato del presente Speciale). Tale nomina è, come previsto dall’art. 37 del GDPR, obbligatoria soltanto in una serie di ipotesi, in particolare, nel caso in cui il trattamento dei dati sia effettuato da un’autorità pubblica o da un organismo pubblico (ad eccezione per le autorità giurisdizionali quando esercitano le loro funzioni); quando le attività principali svolte del titolare o del responsabile del trattamento consistono in operazioni che, per la loro natura, l’ambito di applicazione o le finalità, richiedono un monitoraggio regolare e sistematico degli interessati su larga scala; e infine nel caso in cui le attività principali effettuate consistano nel trattamento, su larga scala, di dati sensibili o di dati relativi a condanne penali e a reati consistenti nell’illecito trattamento dei dati personali.

In tutti i restanti casi, quando il regolamento non impone specificamente la nomina di un DPO, questa figura potrà comunque essere designata dal titolare o dal responsabile del trattamento su base volontaria.

GDPR, come mettersi a norma e scadenze

di Studio Legale Associato Fioriglio-Croari 22 Febbraio 2018, 14:00

 La tutela offerta dal Regolamento riguarda tutte le informazioni relative alle persone fisiche identificate o identificabili che si trovano nel territorio europeo, mentre non tocca i trattamenti di informazioni relative alle persone decedute né alle persone giuridiche.

Restano, inoltre, esclusi dalla disciplina prevista dal Regolamento i trattamenti di dati effettuati in forma anonima, anche se svolti per scopi statistici o di ricerca.

A tale riguardo, il GDPR precisa che i principi di protezione dei dati personali così introdotti non riguardano nemmeno quei “dati personali resi sufficientemente anonimi da impedire o da non consentire più l’identificazione dell’interessato” (Considerando n. 26). In tal senso, va quindi attribuito particolare rilievo alla pseudo minimizzazione dei dati, alla quale i titolari vengono invitati a fare ricorso ove possibile, quale generale forma precauzionale.

Tale procedura (elencata tra le misure di sicurezza dall’art. 32 del GDPR) è definita dal Regolamento come quella modalità di trattamento con la quale “i dati personali non possano più essere attribuiti a un interessato specifico senza l’utilizzo di informazioni aggiuntive, a condizione che tali informazioni aggiuntive siano conservate separatamente e soggette a misure tecniche e organizzative intese a garantire che tali dati personali non siano attribuiti a una persona fisica identificata o identificabile”. Essa permette quindi di ridurre il rischio di pregiudizi per i diritti degli interessati e, al tempo stesso, di favorire il rispetto della normativa limitandolo a quelle attività aziendali che riguardano informazioni relative a persone fisiche identificate o identificabili.

D’altra parte, non può essere sottovalutata la portata del concetto di “identificabilità” di una persona fisica: in tal senso, infatti, vanno considerati tutti i mezzi di cui i terzi potrebbero avvalersi per identificare, anche indirettamente, una persona, valutando complessivamente una serie di elementi oggettivi, come i costi, il tempo e le tecnologie disponibili per l’identificazione. Ciò, oltre alla puntualizzazione che il Regolamento afferma espressamente che l’utilizzo della pseudo minimizzazione non può escludere a priori la necessità di adottare particolari misure di sicurezza. Nemmeno va tralasciata l’importanza dei numerosi rimandi che il GDPR fa alla legislazione nazionale e alla introduzione da parte dei singoli Stati di regole di dettaglio. È esemplificativa, al riguardo, la formulazione delle disposizioni di cui alla Sezione IX, dedicata a specifiche situazioni di trattamento: per disciplinare alcune circostanze particolari, infatti, si fa esplicitamente rinvio a quanto verrà previsto dagli Stati membri, in rapporto, tra gli altri, a trattamenti effettuati a scopi giornalistici o di espressione accademica, artistica o letteraria (art. 85 GDPR) oppure all’utilizzo di dati personali dei dipendenti nell’ambito dei rapporti di lavoro, ad esempio, per finalità di assunzione (art. 88 GDPR).

Peraltro, nonostante l’autonomia riconosciuta ai legislatori nazionali in queste ipotesi, nell’ottica di uniformità di disciplina che contraddistingue il GDPR, i singoli Stati saranno tenuti sempre a coordinarsi tra loro. Al riguardo, per il momento, non resta che attendere gli interventi dei legislatori nazionali e le eventuali indicazioni delle Autorità Garanti.

In generale, poi, si deve partire dall’idea che l’approccio corretto alla nuova disciplina è di tipo preventivo. Vale a dire che, prima di porre in essere qualsiasi attività di trattamento di dati personali, i titolari devono:

  • analizzare le singole operazioni che andranno ad effettuare;
  • valutare i rischi specifici che esse comportano per la privacy;
  • eseguire tutti gli adempimenti richiesti dalla normativa europea e nazionale;
  • predisporre tutte le misure di tutela necessarie per garantire un livello di sicurezza adeguato al rischio.

La protezione dei dati personali deve, quindi, essere attuata in via anticipata rispetto ad ogni attività di trattamento che sarà o che potrebbe essere svolta. Il GDPR richiede, infatti, ai titolari del trattamento un’attenta analisi progettuale che dovrà tenere conto, complessivamente, di tutti gli elementi coinvolti e che dovrà fondarsi, necessariamente, su una conoscenza specifica del settore di competenza.

 

Non sarà possibile, in altre parole, applicare correttamente la disciplina normativa in oggetto, se non si sarà in grado di distinguere e descrivere analiticamente tutte le caratteristiche dei trattamenti effettuati e dei dati che ne sono oggetto in riferimento ad ogni specifica attività.

Per tale motivo, i titolari dovranno sforzarsi di procedere con ordine e in stretto rapporto al contesto di riferimento, non fermandosi all’applicazione aprioristica delle più comuni misure di sicurezza (che potrebbero risultare inadeguate e/o inappropriate rispetto ai reali trattamenti effettuati).

GDPR: cosa cambia per gli hotel e le strutture ricettive (seconda parte)

GDPR: cosa fare se gestisci un hotel o una struttura ricettiva

Cosa cambia per un hotel o un qualsiasi tipo di struttura ricettiva con il GDPR 2018? Ecco 4 cose da fare subito per adeguarti al nuovo regolamento ed evitare sanzioni. Gli interventi da adottare cambiano a seconda del tipo e della quantità di dati che raccogli. Per farti un esempio: non tutte le strutture ricettive hanno un sistema di videosorveglianza. Più informazioni e tecnologie utilizzi, più sarà complessa la loro gestione.

 

  1. Dai al cliente il modo di esprimere il suo consenso

Ogni cliente che ti invia i dati personali deve avere la possibilità di darti il consenso esplicitamente, deve capire come verranno usati i suoi dati ed essere attivo nel darti il consenso. Ad esempio, nel caso del form di iscrizione alla newsletter della tua struttura ricettiva deve poter spuntare la casella appositamente, non trovarla già selezionata. È una tua responsabilità utilizzare un linguaggio chiaro e comprensibile a tutti.

 

  1. Richiedi l’autorizzazione all’uso dei cookie

Informa l’utente che utilizzi cookie che raccolgono dati non in forma anonima ma personale (come le e-mail, i numeri di telefono, etc.) Probabilmente sul tuo sito già compare la barra sui cookie. In caso contrario, inseriscila.

 

  1. Scrivi un’informativa dettagliata sulla privacy

Sul tuo sito deve essere presente un’informativa dettagliata sulla privacy. Spiega bene nel documento quali dati raccogli, perché e come. Includi tutte queste informazioni: quelle che l’utente invia spontaneamente, quelle memorizzate dai cookie e quelle raccolte da altre tecnologie utilizzate. Devi indicare il periodo di conservazione dei dati e i criteri in base ai quali hai stabilito questo periodo di tempo.

 

  1. Identifica il data controller e il data processor

Per ogni dato raccolto deve essere chiaro chi è il data controller e il data processor. Per quanto riguarda il DPO (Data Protection Officer) non deve essere necessariamente interno (come per enti pubblici, attività che trattano dati giudiziari o operano su larga scala). Nel caso degli hotel e delle strutture ricettive, può essere una professionista esterno, un’associazione, un ufficio. Il DPO deve avere competenze informatiche, sulla sicurezza e la normativa europea per la protezione dei dati. Inoltre deve conoscere il settore e il modo in cui opera il titolare del trattamento.

 

Infine, un suggerimento. Se gestisci una piccola struttura ricettiva, questi 4 semplici accorgimenti dovrebbero bastare a proteggerti da eventuali sanzioni. Ma se hai un hotel o sei un property manager con decine di case vacanza, richiedi una consulenza a un professionista specializzato in privacy.

 

Dal 25 maggio la comunicazione di aziende e professionisti in Italia e in Europa cambierà totalmente con l’entrata in vigore del GDPR – General Data Protection Regulation, cioè l’aggiornamento della normativa sulla Privacy che prevede multe salate per chi non la rispetterà.

 

Il cambiamento riguarda sia le aziende sia i professionisti che si promuovono online, ma anche il consumatore finale che lascia i propri dati per ricevere un servizio.

 

Premetto di non essere un “tecnico” tanto meno un legale e non è mia intenzione dispensare consigli, visto che la normativa per certi aspetti è ancora poco chiara. Tuttavia, di seguito ho raccolto alcune informazioni sul Regolamento che credo aiutino a chiarire cos’è e come muovere i primi passi per mettersi in regola.

 

 COS’È LA GDPR E CHI RIGUARDA

Il Regolamento Privacy Europeo è un aggiornamento dell’attuale vigente decreto legislativo 196/2003 “Il Codice Privacy”, redatto prima dell’avvento di Internet e quindi obsoleto.

 

Riguarda i dati sensibili delle persone come nome, cognome, età, sesso ma anche email, numero di telefono e simili, che in ambito digitale hanno un valore altissimo, in quanto considerati “moneta di scambio” per accedere a prodotti e servizi.

Il Regolamento si integra con la norma Cookie law introdotta alcuni anni fa.

 

Il GDPR riguarda le persone fisiche e non le aziende, ma non c’è distinzione tra B2B e B2C. Nel momento in cui la nostra attività richiede di raccogliere una o più di queste informazioni ne diventiamo titolari e quindi responsabili.

 

GDPR PRINCIPI FONDAMENTALI INTRODOTTI

privacy by design, cioè il sistema di trattamento dei dati deve essere concepito sia a livello strutturale sia a livello concettuale alla base (by default) del progetto che si vuole mettere online. Dovrà quindi essere strutturato per prevenire e non per correggere eventuali falle nella riservatezza e protezione dei dati, potendo adottare liberamente le misure tecnologiche per farlo.

accountability, indica che l’intera responsabilità del dato ricade su chi lo richiede che pertanto dovrà progettare il sistema di trattamento in modo da garantire la conservazione dei dati, evitandone perdite, furti e altro.

 

GDPR FIGURE PRINCIPALI INTRODOTTE:

titolare del dato, colui che richiede i dati

DPO – Data Protection Officer, colui che sovraintende il trattamento nel rispetto delle normative

incaricato, colui o coloro che “metteranno le mani” sul database.

 

TRATTAMENTO DEL CONSENSO

Rispetto ad oggi, quando andiamo a chiedere questi dati concernenti la privacy delle persone tramite form online, dobbiamo fornire:

  • consenso informato
  • specifico
  • libero
  • revocabile
  • documentato per iscritto.
  • Vediamo uno alla volta questi aspetti.

 

La richiesta del consenso è obbligatoria per poter trattare i dati e deve essere espressa, dichiarata e non sottintesa. Quindi non solo andranno chiariti gli scopi della raccolta, consenso informato appunto, ma non saranno validi check box già spuntati nel caso in cui ci fossero più finalità.

In effetti, il consenso deve essere anche specifico, cioè non allargato ad altri consensi ma presentare una finalità alla volta.

 

Specifico che l’invio di DEM, quindi di comunicazione di marketing diretto è già legiferata dalle norme antispam per cui non è possibile inviare messaggi pubblicitari a chi non ne ha fatto richiesta.

 

Il consenso deve essere revocabile quindi l’iscritto non solo deve essere in grado di potersi cancellare ma, addirittura, di poter cancellare i propri dati in modo definitivo ricorrendo al diritto all’oblio in presenza di motivazioni “forti”. Anche se per motivi di legge, ad esempio amministrativi, sarà possibile continuare a gestire il dato fino all’estinzione dell’obbligo che ne vietava la cancellazione.

 

Il GDPR prevede che l’utente possa procedere alla consultazione e/o alla cancellazione del dato. Non è previsto però un obbligo di accesso diretto a queste informazioni. Tuttavia, il titolare non dovrà disattendere la richiesta dell’interessato e quindi dovrà munirsi di strumenti atti ad accoglierla.

 

Il consenso deve essere documentato, cioè il titolare deve essere in grado di provare che ha raccolto il consenso attraverso la tecnologia quindi, ove possibile, fornendo tramite un supporto digitale la chiamata al server con il consenso. In ogni caso, deve essere fornito in una forma leggibile e organizzata.

 

CHI È ESONERATO DAL CHIEDERE IL CONSENSO

Sono esonerati da queste procedure i titolari che trattano i dati ai fini del “legittimo interesse“. Ad esempio, per il normale svolgimento di attività di lavoro per cui devo comunicare con dipendenti, clienti e fornitori o nel caso in cui si debba emettere fatturazione o stipulare un contratto. In questo caso, i titolari sono esonerati dalla richiesta del consenso esplicito.

Ovviamente le comunicazioni commerciali, anche se saltuarie, non rientrano mai nel legittimo interesse. Di conseguenza è necessario ottenere il consenso per inviarle.

 

DIRITTI DEL TITOLARE

La modifica alla Privacy prevede il diritto di portabilità quindi se cambiamo piattaforma siamo autorizzati a trasferire i dati da un gestore a un altro e continuarne l’uso.

 

Il GDPR consente, ad esempio alle aziende, di assegnare il ruolo del responsabile (DPO – Data Protection Officer) anche a una persona fisica o giuridica. La scelta non è vincolante e può ricadere anche su un individuo esterno all’azienda.

 

ONERI IN BREVE

in tutti i casi di raccolta dati va chiesto il consenso, il consenso va documentato indipendentemente dai fini del trattamento dei dati, non vanno bene caselle precompilate, non vanno bene consensi poco chiari, non si devono chiedere più dati del necessario.

Tra i vari oneri, rientra il dovere di dichiarare eventuali fughe di dati. La notifica va fatta entro le 72 ore dalla violazione del database.

 

 DA DOVE PARTIRE

Un buon punto per iniziare a mettersi in regola con il GDPR è rediggere il documento di attestato di rischio del proprio sistema. Il Risk Assessment dovrà definire che tipo di dati trattiamo, per quanto tempo, con quale finalità, con quali mezzi (elettronici o cartacei) e altro. In base a quanto raccolto, si stabiliscono le misure di sicurezza da adottare.

 

LINEE GUIDA DEL GDPR PER ESSERE COMPLIANT

Posso dimostrare di essere in grado di gestire la privacy in modo adeguato utilizzando i dati anonimi e tramite la criptografia del database con la possibilità di risalire al dato, in modo da non essere soggetto a eventuali fughe di dati o furti. Inoltre, l’uso della criptografia eviterebbe l’obbligo di notifica di violazione.

 

Un altro modo è tenere il Registro delle attività del trattamento, obbligatorio per realtà aziendali superiori ai duecentocinquanta dipendenti e gli enti pubblici, ma anche per professionisti e PMI che trattano i dati in modo continuativo.

 

Ovvero, se conservi i dati dei tuoi clienti per analisi statistiche e/o per fatturare, sei tenuto ad avere un Registro del Trattamento, cioè un giornale fisico o virtuale dove annotare il tipo di dati raccolti, le finalità e, se comunicati a terzi parti, la loro destinazione.

 

 

 

GDPR SE SEI UN BLOGGER

Se fai blogging e tramite il tuo blog o sito fai raccolta di email per la newsletter il regolamento prevede che tu rispetti le stesse norme delle aziende anche se probabilmente non avrai bisogno di eleggere un DPO, che è facoltativo, né di iscriverti al registro del trattamento. Ma dovrai fornire la possibilità alle persone di accedere ai dati e cancellarsi secondo i punti descritti nel Trattamento del consenso.

 

GDPR SE SEI UN’AGENZIA WEB

Nel caso di una web agency o professionista che gestisce il sito di un cliente, l’ente esterno è quello che tratta i dati. Quindi anche in questo caso il cliente resta il titolare del trattamento ma dovrà formalizzare tramite un contratto la modalità del trattamento dei dati. Il contratto di fornitura incarica il responsabile esterno, cioè l’agenzia web, del trattamento delimitando i confini di responsabilità e/o inserendo delle manleve.

 

CONCLUSIONI

In generale, credo che la GDPR sarà un’occasione per fare pulizia dei database e per rendere più chiari i messaggi sulle finalità del trattamento dei dati. Immagino che ulteriori chiarimenti sulla corretta gestione e le responsabilità dei diversi ruoli arriveranno nelle prossime settimane.

 

Tuttavia, molte piattaforme di email marketing hanno già iniziato a rilasciare il “pacchetto GDPR“, utile per mettersi in regola in tempo, come ad esempio MailChimp una delle prime a dare indicazioni precise su cosa fare.

 

E’ chiaro che per ottenere la fiducia e le preziose informazioni dai consumatori, le aziende e i professionisti devono mostrarsi generosi e disponibili. Offrire supporto, risposte in tempo reale e un’esperienza piacevole. Ed in questo rientra anche la possibilità di conoscere, modificare e cancellare i dati in modo agevole da parte degli utenti.

 

Ho parlato di come recuperare il consenso di parte dei nostri contatti in questo articolo mentre in questo video spiego come ripulire quelli non più attivi nel caso in cui usi MailChimp come piattaforma di email marketing.

 

GDPR: cosa cambia per gli hotel e le strutture ricettive (prima parte)

GDPR: cosa cambia per gli hotel e le strutture ricettive dal 25 maggio 2018? Non passare oltre e leggi l’articolo, perché questa novità abbastanza noiosa coinvolge anche te, certamente più a tuo agio a occuparti di camere, colazioni e prenotazioni alberghiere.

Affinché ti riguardi, basta che tu abbia archiviato i dati anagrafici anche di un solo cliente, attraverso un qualsiasi software. Non spaventarti! Ma dovrai intervenire sulla tecnologia che utilizzi ed eventualmente fare delle modifiche legali e organizzative.

Continua a leggere per capire meglio cosa significa GDPR. A fine articolo trovi 4 cose da fare subito per adeguarti alla novità ed evitare le sanzioni.

GDPR significa General Data Protection Regulation, di cui è l’acronimo. Il GDPR è il regolamento europeo sulla privacy e stabilisce in che modo gli enti pubblici e le attività commerciali, compresi hotel e strutture ricettive, devono utilizzare:

  1. i dati sensibili delle persone (nome, cognome, indirizzo, ecc.)
  2. gli indirizzi IP
  3. i cookie

Perché abbiamo pubblicato proprio ora questa news su un argomento così impegnativo, soprattutto per chi non ama il linguaggio giuridico? Perché il GDPR, esattamente il Regolamento UE 679/2016 (puoi scaricare qua il pdf in italiano del GDPR), entrerà in vigore il 25 maggio 2018. Entro questa data la tua attività dovrà essere in regola con le nuove norme. Con una complicazione: il regolamento riguarda anche i dati raccolti ed elaborati prima di maggio 2018.

GDPR cosa cambia

Fino ad oggi la tutela della privacy e il trattamento dei dati degli italiani erano regolamentati dal D.lgs 196/2003. Dal 25 maggio 2018 il regolamento europeo sulla privacy prevarrà sul codice italiano in materia di protezione dei dati personali. Come sempre accade in ambito giuridico, sicuramente il legislatore italiano e gli organi competenti dovranno intervenire nei prossimi mesi per fornire dei chiarimenti. Dubbi e incompatibilità sono inevitabili nel passaggio da una legge italiana a una europea.

Novità e principi del GDPR 2018

Vediamo le novità più importanti del regolamento europeo sulla privacy, senza entrare nel dettaglio dei tecnicismi giuridici. Se può consolarti: non cambierà proprio tutto. Alcune norme sono invariate, altre sono state modificate. Ma ci sono anche delle novità assolute e quindi degli obblighi che non puoi ignorare per evitare le sanzioni.

Diritto all’oblio

La persona interessata avrà il diritto di chiedere all’attività commerciale la cancellazione dei dati personali. L’attività dovrà eliminarli se esiste almeno uno dei seguenti motivi, come si legge nell’art. 17:

“i dati personali non sono più necessari rispetto alle finalità per le quali sono stati raccolti o altrimenti trattati;

l’interessato revoca il consenso e se non sussiste altro fondamento giuridico per il trattamento;

l’interessato si oppone al trattamento e non sussiste alcun motivo legittimo prevalente per procedere al trattamento;

i dati personali sono stati trattati illecitamente;

le informazioni personali devono essere cancellate per adempiere un obbligo legale previsto dal diritto dell’Unione o dello Stato membro cui è soggetto il titolare del trattamento;

i dati personali sono stati raccolti relativamente all’offerta di servizi della società dell’informazione.”

Data controller e data processor

 

Il GDPR 2018 introduce due figure, Data Controller e Data Processor, che in realtà esistono già nel Codice della Privacy italiano:

il Data Controller è il titolare del trattamento dei dati, ovvero qualunque organizzazione in possesso dei dai personali dei cittadini europei;

il Data Processor è il responsabile del trattamento dei dati, ovvero l’organizzazione che tratta i dati per conto del titolare.

A questi bisogna aggiungere il DPO, data protection officer, il responsabile della protezione dei dati.

La notifica della violazione dei dati

Il regolamento europeo stabilisce che in caso di violazione nella procedura di sicurezza che comporti un pericolo per la libertà o i diritti dei cittadini, il titolare del trattamento ha 72 ore per avvisare l’Autorità di Controllo.

Il registro dei trattamenti

Il registro non è sempre obbligatorio, ma è preferibile adottarlo. Al suo interno devono essere descritti i trattamenti effettuati e le procedure di sicurezza messe in atto.

I principi del GDPR privacy

Il regolamento europeo sulla privacy si basa su alcuni principi. Conoscerne i principali, può aiutarti a capire meglio come gestire i dati dei tuoi clienti.

Responsabilizzazione. La nuova norma europea responsabilizza le attività in materia di trattamento dei dati. Abbiamo appena visto che il GDPR introduce due figure. Entrambe devono seguire le norme e sono soggette a sanzioni. Pertanto non puoi scaricare la responsabilità sul titolare del tuo booking engine.

Extraterritorialità. Il GDPR protegge la privacy dei cittadini europei e vincola qualsiasi attività che tratta o gestisce queste informazioni. Spostare i dati fuori dall’UE non è quindi una soluzione.

Protezione dei dati fin dalla progettazione. Con le nuove norme sulla privacy, vale il principio per cui non devi correggere ma prevenire. Ovvero organizzare il trattamento dei dati in modo che non ci siano violazioni prima che queste si verifichino. Il processo di gestione deve essere sicuro dall’inizio alla fine. In termini tecnici si dice privacy by design.

Privacy by default. La privacy e l’utente sono al centro del regolamento. I dati vanno trattati solo secondo modi e tempi sufficienti al raggiungimento dello scopo dell’attività che li raccoglie.

 

Le nuove norme sulla privacy introducono delle sanzioni amministrative più salate. Le multe possono arrivare a 20 milioni di euro o al 4 % del fatturato annuo globale. Tuttavia, gli addetti ai lavori pensano sia quasi impossibile che una piccola struttura ricettiva sia costretta a pagare cifre simili. Non pensare che per questo non sia necessario adeguarti al nuovo regolamento. Potresti rovinare l’immagine del tuo hotel e avere una perdita di clienti altrettanto costosa in termini di ricavi. Se vuoi approfondire, leggi questo articolo sulle sanzioni previste dal GDPR 2018.

 

Termini ridotti sui crediti inesistenti in dichiarazione

Per i crediti non spettanti e per quelli inesistenti indicati in dichiarazione termini ridotti per accertamento. È quanto sembra emergere dallarisoluzione 36/2018 dell’agenzia delle Entrate (si veda il Sole 24 Ore di ieri). Il documento, che individua la corretta sanzione applicabile per l’ipotesi di recupero di un credito considerato inesistente, ove sia già stato oggetto di specifico avviso di accertamento, fornisce chiarimenti anche sulla procedura che gli uffici devono osservare per tali contestazioni.

L’articolo 27 del Dl 185/2008, al fine di contrastare l’utilizzo di crediti inesistenti, ha introdotto un più ampio termine di decadenza del potere di accertamento (8 anni), inoltre il suddetto termine decorre non dalla data di presentazione della dichiarazione relativa all’anno in cui il credito inesistente è sorto, ma dalla data dell’illegittima compensazione.

Con la riforma del sistema sanzionatorio è stato poi previsto che il credito è inesistente qualora tale violazione non sia riscontrabile mediante controlli automatizzati e formali.

Nonostante il trattamento particolarmente gravoso riguardasse, fin dall’origine, solo i crediti inesistenti, gli Uffici hanno sempre utilizzato il maggior termine di 8 anni anche per indebite compensazioni di crediti non spettanti.

In proposito la risoluzione n. 36/2018 ha ora precisato che solo quando il credito fruito non può essere “intercettato” mediante controlli automatizzati, la violazione può essere sanzionata più gravemente. Ne consegue che in tutte le ipotesi di crediti non spettanti (e non inesistenti), gli Uffici non possono beneficiare del più ampio termine di decadenza dovendo notificare gli atti entro gli ordinari termini.

Nel documento sono inoltre individuate due tipologie di credito inesistente da cui scaturiscono differenti tempi di decadenza e di tipologia di atti impositivi:

• derivante da «eccedenze di imposta», che transitano in dichiarazione, per il quale è necessaria la notifica di un avviso di accertamento entro gli ordinari termini di decadenza;

• derivante da «agevolazioni», per il quale occorre l’atto di recupero, che può beneficiare degli 8 anni.

Il «credito derivante da eccedenza di imposta» transita in dichiarazione e pertanto è verosimile che si possa classificare inesistente se discendente da imponibili presumibilmente falsi (ad esempio, il credito Iva derivante dall’indicazione di operazioni passive contenenti fatture false o simili).

Il credito da “agevolazioni”, transita nel quadro RU della dichiarazione, ma rappresenta un valore indicato dal contribuente senza alcuna indicazione sulla sua formazione, con la conseguenza che l’Ufficio non potrebbe scoprirne la falsità attraverso un controllo automatizzato.

Secondo quanto emerge dalla risoluzione solo nel primo caso si applicherebbero gli ordinari termini di decadenza. Tuttavia sostenendo, come ad un certo punto evidenzia la risoluzione, che il termine ordinario si applica a tutti i crediti che transitano in dichiarazione, si potrebbe concludere che anche per i crediti da agevolazione non troverebbe applicazione la decadenza lunga proprio perché anch’essi transitano in dichiarazione (quadro RU). Attesa la delicatezza della questione, sarebbe auspicabile un intervento chiarificatore.

 Fonte “Il sole 24 ore”

Quote di partecipazioni con doppio binario fiscale

di Gianluca Cristofori e Andrea Vasapolli

Il 29 dicembre 2017 l’Oic ha emendato il principio contabile Oic 21 (Partecipazioni), prevedendo tra l’altro che, nel caso in cui il pagamento sia differito a condizioni diverse rispetto a quelle normalmente praticate sul mercato per operazioni similari o equiparabili, anche le partecipazioni vengono iscritte in bilancio a un valore corrispondente al debito determinato ai sensi dell’Oic 19, ovverosia in applicazione del criterio del costo ammortizzato e dell’attualizzazione, cui vanno aggiunti gli eventuali oneri accessori. Tale modalità di rilevazione contabile impone di rilevare la partecipazione tenendo conto del valore di iscrizione del debito con il metodo del costo ammortizzato e attualizzato. Nel caso di specie le rilevazioni contabili non avvengono, quindi, al prezzo contrattualmente pattuito, dovendosi bensì rilevare sia il costo di acquisto della partecipazione, sia il provento per la cessione della stessa, tenendo conto dell’attualizzazione/ammortamento del debito/credito e assumendo la differenza natura di onere/provento finanziario da rilevare a conto economico lungo la durata della dilazione concessa.

In linea di principio, la succitata rappresentazione contabile, in applicazione del criterio del costo ammortizzato e dell’attualizzazione, troverebbe pieno riconoscimento fiscale per i soggetti Ias e Oic adopter – ad eccezione delle cosiddette micro-imprese – in ragione del principio di derivazione rafforzata previsto dall’articolo 83 del Tuir; tuttavia, in virtù dell’articolo 2 del Dm 3 agosto 2017, trova applicazione quanto previsto dall’articolo 3, comma 3, del Dm n. 48/2009, che impone invece di individuare il regime fiscale avendo riguardo alla natura giuridica dell’operazione – e quindi non agli effetti sostanziali, così come rilevati in bilancio – quando oggetto dell’operazione siano strumenti finanziari partecipativi (di cui all’articolo 85, comma 1, lettere c e d, del Tuir), «anche costituenti immobilizzazioni finanziarie, con esclusione delle azioni proprie e degli altri strumenti rappresentativi del patrimonio proprio».

Ne consegue che, anche per i soggetti Oic adopter, a fronte della rilevazione contabile di cui sopra, sul piano fiscale:

• il costo di acquisto della partecipazione (così come il corrispettivo fiscalmente rilevante per il venditore) è pari al prezzo contrattualmente pattuito;

• l’onere finanziario (o il provento, per il venditore) rilevato in contabilità lungo la durata della dilazione non assume rilevanza fiscale, dovendo essere “sterilizzato” nella dichiarazione dei redditi, mediante apposita variazione in aumento (o in diminuzione, per il venditore).

Fonte “Il sole 24 ore”

Rottamazione-bis, adesione revocabile entro il 15 maggio

La scadenza del 15 maggio prossimo non riguarda solo la facoltà di presentare l’istanza di rottamazione ma anche la possibilità di revocare o modificare la stessa, senza subire pregiudizi di sorta. Come confermato infatti da agenzia Entrate-Riscossione (Ader) nelle risposte a Telefisco 2018, anche nella seconda versione della definizione agevolata degli affidamenti all’agente della riscossione è possibile correggere o ripensare integralmente alla scelta fatta.

Secondo i chiarimenti offerti da Equitalia in occasione della prima “tornata” di domande di sanatoria, l’accesso alla disciplina agevolata si verifica con la mera presentazione dell’istanza, senza che rilevi a tale scopo il pagamento della prima rata. A parziale rimedio di tale rigida interpretazione, tuttavia, è espressamente consentito che il debitore possa liberamente intervenire sulle istanze già presentate, purché entro la scadenza di legge (15 maggio prossimo). Poiché non è previsto un modulo particolare per comunicare la revoca di una domanda già presentata, si ritiene che sia sufficiente allo scopo una Pec contenente gli estremi del modello trasmesso e la volontà di porre nel nulla la scelta di aderire al condono. Allo stesso modo, sarà possibile sostituire o integrare liberamente le istanze presentate, purchè tale decisione sia chiaramente desumibile dal contenuto documentale dei moduli. Così, ad esempio, se i nuovi modelli riportano cartelle o avvisi diversi da quelli indicati nel modulo precedente è evidente che vi è stata una integrazione da parte del debitore. Se invece il nuovo modello riporta la precedente elencazione di partite affidate, depurata di alcune di esse, vi sarà stata una sostituzione di istanze, che tuttavia è bene sia evidenziata quantomeno nella pec di trasmissione.

A tale riguardo, si ricorda che il debitore ben può decidere di compilare più modelli, con riferimento ad affidamenti distinti. Tanto, qualora si avesse il dubbio sulla complessiva sostenibilità della pretesa. In tale eventualità, infatti, si potrà far decadere la procedura riferita ad una o più istanze, lasciando in vita le altre. L’eventuale omesso o insufficiente pagamento di una rata, infatti, potrebbe determinare la caducazione dell’intera definizione agevolata. Se invece si parcellizzano gli affidamenti in una pluralità di domande, si potrà decidere per quale comunicazione dell’Ader effettuare tempestivamente i pagamenti dovuti.

Al contrario, è possibile utilizzare un unico modulo per rottamare carichi ante e post primo gennaio 2017. In questa ipotesi, se si sceglie la massima dilazione possibile, l’agente della riscossione procede d’ufficio a ripartire in tre ovvero cinque rate i pagamenti, a seconda dei carichi cui essi di riferiscono.

Adeguata attenzione va posta sulla scelta del numero delle rate della rottamazione. Nel modulo DA 2000/17 è per la prima volta riportato che in caso di omessa indicazione da parte del debitore l’intero importo sarà dovuto in una unica soluzione. Nel corso di Telefisco 2018 è stato chiesto se fosse possibile rimediare ad una eventuale dimenticanza da parte del contribuente dopo aver ricevuto la comunicazione dell’agente della riscossione contenente la liquidazione delle somme dovute. L’Ader ha risposto che scaduto il termine del 15 maggio non è più possibile apportare nessuna correzione al modello, anche con riferimento al numero delle rate.

Fonte “Il sole 24 ore”

L’estratto di ruolo basta a provare entità e natura dei debiti

L’estratto di ruolo è da solo idoneo a provare sia l’entità che la natura dei crediti vantati dall’Agente della Riscossione, essendo in esso elencati, in maniera dettagliata e non discrezionale, tutti i debiti del contribuente nei confronti dei diversi Enti impositori. Come tale, esso inoltre consente agevolmente l’individuazione, ad opera del contribuente, del Giudice fornito di giurisdizione in caso di ricorso contro la cartella di pagamento che si assume non notificata.
Sono queste le principali conclusioni cui è giunta la Sesta Sezione Civile della Corte di Cassazione, con la ordinanza n. 11028 del 9 maggio 2018 .
La pronuncia trae origine da una opposizione da parte di una società in accomandita semplice alla procedura di pignoramento mobiliare che l’allora Equitalia aveva avviato a seguito del mancato pagamento di 28 cartelle esattoriali a causa della loro presunta irregolare notifica. A fronte della predetta doglianza di irregolare notifica, rilevando tra gli atti prodotti da Equitalia (che a sua volta si era costituita in giudizio) soltanto l’estratto di ruolo e non anche gli originali delle cartelle originali, il Tribunale di Taranto che con sentenza n. 2103 del 2016 accoglieva l’opposizione della società e, conseguentemente, annullava il pignoramento mobiliare e tutti gli atti presupposti, ritenendo l’estratto di ruolo non idoneo a provare il credito dell’Agente della Riscossione.

Trattandosi di opposizione a ruoli ormai esecutivi, Equitalia impugnava direttamente la sentenza di primo grado dinanzi alla Corte di Cassazione, eccependo peraltro la violazione e falsa applicazione degli articoli 26 e 57 del DPR 602/73 per aver il Tribunale di Taranto negato l’idoneità probatoria degli estratti di ruolo. La società non presentava alcuna difesa.
Nell’accogliere il ricorso e rinviando al Tribunale di Taranto in nuova composizione, i Giudici della Corte Suprema hanno precisato innanzitutto che nell’estratto di ruolo, rilasciato dal funzionario dell’Agente della riscossione su richiesta del contribuente, sono fedelmente indicati i dati risultanti dal ruolo, che sono stati poi trasfusi nella cartella di pagamento.

In particolare, secondo la Corte Suprema, la cartella esattoriale non è altro che la stampa del ruolo in unico originale notificata alla parte, e, al contrario di quanto affermato dal Tribunale di Taranto, l’estratto di ruolo è una riproduzione fedele ed integrale degli elementi essenziali contenuti nella cartella esattoriale: esso, infatti, riporta tutti i dati essenziali per consentire al contribuente di identificare a quale pretesa dell’Amministrazione esso si riferisca, oltreché tutti i dati necessari ad identificare in modo inequivoco il contribuente, ovvero nominativo, codice fiscale, data di nascita e domicilio fiscale.

L’estratto di ruolo riporta, inoltre, tutti i dati indispensabili necessari per individuare la natura e l’entità delle pretese iscritte a ruolo, ovvero il numero della cartella, l’importo dovuto, l’importo già riscosso e l’importo residuo, l’aggio, la descrizione del tributo, il codice e l’anno di riferimento del tributo, l’anno di iscrizione a ruolo, la data di esecutività del ruolo, gli estremi della notifica della cartella di pagamento, l’ente creditore (indicazioni obbligatoriamente previste dall’art. 25 del DPR n. 602 del 1973, oltre che dagli artt. 1 e 6 del DM n. 321 del 1999). L’estratto del ruolo non è quindi una sintesi del ruolo, operata a discrezione dell’Agente della Riscossione, ma è la riproduzione fedele dei ruoli che si riferiscono alle pretese impositive che si fanno valere nei confronti di quel singolo contribuente.

Fonte “Il sole 24 ore”

Il mutuo alza la soglia detassabile

Chiarire subito il quadro normativo in materia di privacy, tirando fuori dai cassetti il decreto legislativo varato in prima lettura lo scorso 21 marzo e, poi, uscito dai radar. E tradurre in un impegno formale le parole con le quali il Garante ha aperto la strada a un approccio «equilibrato e pragmatico» nella fase di transizione dei primi mesi.

Sono le due richieste chiave contenute nelle missive con le quali il mondo produttivo italiano, a pochi giorni dall’entrata in vigore (il prossimo 25 maggio) delle nuove regole in materia di trattamento dei dati personali, ieri mattina ha fatto blocco per rappresentare la sua preoccupazione. Confindustria, Abi, Ania, Assonime e Confcommercio hanno così indirizzato due lettere al Garante per la protezione dei dati personali e al Governo (destinatari: Dipartimento affari legislativi di Palazzo Chigi e ministero della Giustizia), con l’obiettivo di ottenere a beneficio delle imprese «le necessarie certezze applicative». Qualche prima risposta, in attesa di indicazioni compiute, potrebbe arrivare già oggi, nel corso del convegno che proprio Confindustria ospiterà a Roma per parlare della «Gdpr ai nastri di partenza».

Le missive esordiscono entrambe sottolineando un dato, relativo al Regolamento Ue sulla protezione dei dati personali: «La preoccupazione del mondo produttivo». Nonostante la sua «imminente operatività» (l’entrata in vigore è fissata il 25 maggio), infatti, il quadro normativo al quale le imprese dovranno fare riferimento è ancora caratterizzato da «incertezze». Soprattutto, pesa il «notevole ritardo registrato nell’attuazione della delega per l’adeguamento della disciplina nazionale». Il termine per approvare il decreto che dovrà integrare le regole europee nel sistema italiano è, infatti, il 21 maggio. Nonostante manchino solo dieci giorni alla scadenza, il testo non è ancora stato ufficializzato.

La sostanza, cioè, è che gli operatori si trovano davanti un perimetro di regole ancora in via di assestamento. E le difficoltà vengono accentuate «dall’ampiezza dell’intervento del Regolamento, che modifica radicalmente l’approccio richiesto ai titolari di trattamenti di dati personali». I dubbi rallentano le attività di compliance, già parecchio articolate, «con il rischio molto concreto di arrivare al prossimo 25 maggio senza averle ultimate o, comunque, senza avere le necessarie certezze applicative». Quindi, anche se c’è soddisfazione «per le attività di sensibilizzazione e di indirizzo che gli uffici» del Garante stanno portando avanti «per informare e orientare» gli operatori, serve uno sforzo ulteriore.

Le lettere esplicitano, allora, due richieste. La prima è diretta al Governo, pur «consapevoli delle difficoltà dovute alla particolare situazione politica del nostro paese». Considerando la prossima scadenza del 25 maggio, è necessario che «l’iter di attuazione della citata delega sia il più rapido possibile in modo da consentire a tutti gli operatori di adeguarsi pienamente alla nuova disciplina».

La seconda richiesta è diretta, invece, al Garante. E parte dalle dichiarazioni rilasciate proprio da Antonello Soro il 3 maggio scorso al Sole 24 Ore in merito «all’approccio equilibrato e pragmatico che l’Autorità intende adottare nell’accompagnare le imprese italiane in questa fase di transizione». Quelle parole, molto apprezzate, vanno tradotte in un atto più concreto: le associazioni auspicano, infatti, «un impegno formale, volto a improntare a criteri di gradualità e progressività l’esercizio del potere sanzionatorio e i controlli che l’Autorità svolgerà sull’osservanza di nuovi adempimenti».

Fonte “Il sole 24 ore”

In arrivo una nuova riduzione degli interessi di mora per chi paga in ritardo le cartelle di pagamento. La misura del 3,50% fissata lo scorso anno, con effetto dal 15 maggio 2017, sarà infatti ridotta al 3,01% con effetto dal 15 maggio 2018. La nuova misura è stata fissata da un provvedimento di ieri del direttore dell’agenzia delle Entrate , Ernesto Maria Ruffini. Dopo l’altalena degli anni precedenti, con gli interessi di mora, un anno ridotti, un altro anno aumentati, è dal 1° ottobre 2013, con la misura fissata al 5,2233% annuo, che gli interessi sono stati sempre ridotti, passando al 5,14% dal primo maggio 2014, al 4,88% dal 15 maggio 2015, al 4,13% dal 15 maggio 2016, al 3,50% dal 15 maggio 2017, per ridursi al 3,01% a partire dal 15 maggio 2018. Il nuovo tasso è dovuto da chi paga in ritardo le somme chieste con le cartelle di pagamento, che, così, diventeranno più “leggere”. Il provvedimento è previsto dall’articolo 30 del decreto sulla riscossione (Dpr 602/1973). Esso stabilisce che, decorso inutilmente il termine di 60 giorni dalla notifica della cartella, sulle somme iscritte a ruolo si applicano, a partire dalla data della notifica della cartella e fino alla data del pagamento, gli interessi di mora al tasso determinato annualmente con riguardo alla media dei tassi bancari attivi.

Va segnalato però che, in materia di interessi, non è stata mai fissata una misura unica per i versamenti e per i rimborsi. Infatti, nonostante i vari annunci, si è ancora in attesa di un allineamento per evitare che gli interessi applicati dal Fisco su quanto gli è dovuto siano più alti di quelli riconosciuti al contribuente in caso di rimborso. In verità, si sarebbe dovuto mettere la parola “fine” su queste disparità. Infatti, se il contribuente deve avere il rimborso, l’interesse riconosciuto dal Fisco per il ritardo è, di norma, il 2% annuo, mentre se il contribuente versa dopo la scadenza, l’interesse che deve pagare è il doppio.

Inoltre, scatta pure la sanzione del 30%, riducibile al 15% se il contribuente paga entro 90 giorni, mentre nessuna sanzione è prevista a carico del Fisco, anche se esegue i rimborsi in ritardo. La disparità doveva essere eliminata da un decreto che si sarebbe dovuto approvare nel mese di gennaio del 2016. Si tratta del decreto previsto dall’articolo 13 del decreto legislativo 159/2015 (uno dei decreti attuativi della delega fiscale), in vigore dal 22 ottobre 2015. Il decreto di competenza del ministero dell’Economia che doveva fissare una misura unica di interessi per versamenti, riscossione e rimborsi di ogni tributo, doveva essere emanato entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo 159/2015. Considerato che questo decreto è entrato in vigore il 22 ottobre 2015, il provvedimento doveva essere emanato entro il 20 gennaio 2016.

Per il momento, visto che il decreto è rimasto solo una promessa, si devono applicare le misure vigenti, che sono di diversa misura e, di norma, favoriscono il Fisco, penalizzando i contribuenti. Ad esempio, per i contribuenti che pagano a rate le imposte risultanti dalle dichiarazioni annuali dei redditi, dell’Iva e dell’Irap, gli interessi sono dovuti nella misura dello 0,33% mensile, cioè pari al 4% annuo.

Fonte “Il sole 24 ore”

di Benedetto Santacroce Rosario Farina

 I provvedimenti dell’agenzia delle Entrate del 30 aprile sono andati nella direzione della semplificazione del processo che però al momento riguarda solo la fatturazione elettronica obbligatoria tra privati e non quella emessa nei confronti delle pubbliche amministrazioni; per questa restano valide le disposizioni di cui al decreto ministeriale 3 aprile 2013, n. 55. In attesa di un’armonizzazione tra le due discipline, è importante evidenziare le differenze ad oggi esistenti che comportano diverse modalità di gestione del ciclo attivo da parte dell’impresa.

Nella fatturazione verso la pubblica amministrazione vengono mantenute, a differenza dei privati, le “notifiche d’esito committente”. Infatti per ogni fattura elettronica ricevuta la Pa, entro il termine di 15 giorni dalla ricezione, può inviare una notifica di accettazione/rifiuto. Se entro questi 15 giorni lo Sdi (sistema di interscambio) non riceve alcuna comunicazione, provvede ad inoltrare la notifica di decorrenza dei termini sia al soggetto trasmittente sia al soggetto ricevente. Tali notifiche devono essere gestite e conservate dal soggetto emittente in quanto una fattura rifiutata entro 15 giorni deve essere corretta e rinviata alla Pa sempre tramite lo Sdi.

Relativamente all’indirizzamento, la trasmissione della fattura elettronica nei confronti della Pa è vincolata dalla presenza del codice identificativo univoco dell’ufficio destinatario della fattura riportato nell’indice delle pubbliche amministrazioni, mentre per i privati la trasmissione è possibile anche in assenza del codice destinatario in quanto il provvedimento consente al soggetto passivo Iva attraverso la funzione di registrazione di scegliere la modalità di ricezione delle fatture elettroniche.

Nei confronti dei clienti privati che non si sono registrati e non hanno fornito nessun dato per l’indirizzamento (Pec o codice destinatario) il cedente/prestatore può utilizzare il solo codice convenzionale “0000000” e in questo caso la fattura viene messa a disposizione dallo Sdi nella loro area riservata del sito web dell’agenzia delle Entrate con necessità dell’emittente di comunicare che l’originale del documento è a disposizione in tale area.

A differenza della fattura elettronica verso privati, nei confronti della Pa l’analogo codice fittizio “999999” può essere utilizzato solo se a fronte del codice fiscale del destinatario non esiste alcun codice destinatario nell’indice della pubblica amministrazione. Da quanto sopra si evince che devono essere gestite nell’anagrafica cliente dei soggetti emittenti anche due codici destinatario di lunghezza diversa (6 caratteri per la Pa e 7 per i privati).

Diverso è anche il comportamento in caso di impossibilità di recapito da parte dello Sdi. Nel caso di privati il documento viene messo a disposizione del cessionario/committente nella sua area riservata del sito web dell’agenzia delle Entrate e il cedente/prestatore, a cui è notificato dallo Sdi un file XML firmato quale ricevuta di impossibilità di recapito, è tenuto a comunicare al suo cliente che l’originale della fattura è disponibile in tale area. Nel caso in cui il cliente è la Pa, trascorsi dieci giorni dall’ invio della notifica di mancata consegna, lo Sdi invece invia al mittente un’attestazione di avvenuta trasmissione della fattura con impossibilità di recapito. L’attestazione è composta da un file zippato contenente la fattura originale e un file XML di notifica sottoscritto elettronicamente che deve essere inoltrato telematicamente dal cedente all’amministrazione destinataria utilizzando altri canali (ad esempio e-mail o Pec). Si ricorda che le fatture verso le Pa devono riportare sempre il Cig e/o Cup mentre nel caso dei privati sono obbligatori solo nel caso di quelle emesse dai sub-contraenti e sub-appaltatori di un contratto stipulato con un Pa, limitatamente al primo passaggio e non a quelli successivi (come da circolare 8/E del 30 Aprile) .

Fonte “Il sole 24 ore”

Sì a deduzione del costo e detrazione dell’Iva sugli acquisti di carburante effettuati dal 1° luglio 2018 dal lavoratore dipendente con la propria carta di credito e successivamente rimborsati dalla società, a condizione che il rimborso avvenga con i mezzi di pagamento tracciabili (provvedimento delle Entrate 4 aprile 2018). È quanto emerge dalla circolare 8/E/2018.

La precedente modifica
Ma facciamo un passo indietro. In occasione delle modifiche apportate dal Dl 70/2011 all’articolo 1, comma 3-bis, del Dpr 444/1997, che avevano permesso la deroga all’obbligo di tenuta della scheda carburante a quei soggetti Iva che garantivano i pagamenti delle spese per carburante esclusivamente mediante carte di credito, carte di debito o carte prepagate, la circolare 42/E/2012 aveva precisato che tali modifiche «non possono far venire meno, in toto, l’esigenza di disporre di una serie di elementi, necessari a consentire la verifica dell’esistenza del diritto alla detrazione Iva e della deducibilità del costo nella misura spettante, in capo al soggetto acquirente. Detti elementi, in particolare, sono indispensabili per ricollegare l’acquisto effettuato al soggetto, persona fisica o giuridica, che esercita un’attività d’impresa o un’arte o una professione. Si ritiene, pertanto, necessario che il mezzo di pagamento sia intestato al soggetto che esercita l’attività economica, l’arte o la professione e che dall’estratto conto rilasciato dall’emittente della carta emergano tutti gli elementi necessari per l’individuazione dell’acquisto, quali, ad esempio, la data ed il soggetto presso il quale è effettuato il rifornimento, nonché l’ammontare del relativo corrispettivo».

L’interpretazione di prassi si poteva considerare coerente proprio in virtù del fatto che l’utilizzo della moneta elettronica, permettendo una sorta di documentazione insita consistente nelle risultanze degli estratti conto, rendeva inutile le annotazioni mediante compilazione della scheda carburante.

Oggi, invece, la legge di Bilancio 2018 ha introdotto la fatturazione elettronica obbligatoria nel settore dei carburanti dal 1° luglio, eliminando la vecchia scheda carburante, mediante l’abrogazione in toto del Dpr 444/1997. La circolare 8/E/2018 rende validi i pagamenti effettuati dal soggetto passivo d’imposta in via mediata, come nel caso di rifornimento di benzina di un’autovettura aziendale che il dipendente effettua presso un distributore stradale durante una trasferta di lavoro. L’Agenzia spiega che se «il pagamento avviene con carta di credito/debito/prepagata del dipendente (o altro strumento individuato nel provvedimento direttoriale del 4 aprile 2018 allo stesso riconducibile) ed il relativo ammontare gli sia rimborsato, secondo la legislazione vigente, avvalendosi di una delle modalità individuate dalla legge di bilancio (ad esempio, tramite bonifico bancario unitamente alla retribuzione), non vi è dubbio che la riferibilità della spesa al datore di lavoro ne consentirà la deducibilità (nel rispetto, come ovvio, degli ulteriori criteri previsti dal Tuir)».

Il confronto tra le due interpretazioni
Il meccanismo del rimborso della spesa per carburante anticipata dal dipendente per l’azienda, di fatto, rischia di costringere il dipendente stesso a richiedere la fattura elettronica per documentare un acquisto fatto per conto di un soggetto Iva, la società, obbligato alla ricezione della fattura elettronica in base all’articolo 1, comma 920, della legge 205/2017.

Tale circostanza si sarebbe potuta evitare se fosse rimasta in piedi la “precedente” semplificazione che la moneta elettronica aveva permesso di raggiungere e che ora si perdebbe con l’abrogazione del regolamento. La circolare, richiamando implicitamente il comma 910 dell’articolo 1 della legge 205/2017, rende infatti indifferente l’utilizzo dell’assegno o del bonifico piuttosto che della carta di credito.

Fonte “il sole 24 ore”

Il quadro RS non «decide» il tipo di rettifica sui forfettari

I contribuenti che applicano il regime forfettario devono procedere a indicare nel modello Redditi 2018 specifiche informazioni relative alle attività agevolate, richieste sia per gli esercenti attività d’impresa (da RS374 a RS378) che per i lavoratori autonomi (da RS379 a RS381).

Ora, in quanto nella determinazione del reddito ci si deve preoccupare solo dell’incasso dei componenti attivi ed è possibile disinteressarsi dei costi, mentre uno dei principali vantaggi del regime forfettario è la semplificazione degli adempimenti, risulta particolarmente fastidiosa per questi contribuenti la necessità di raccogliere ed indicare in dichiarazione, oltre che le fatture emesse, anche i dati dei documenti ricevuti, adempimento che fa residuare sul contribuente un indesiderato onere di tenuta e conservazione documentale.

Di conseguenza, in quanto per il forfettario non vi è alcun beneficio (che non sia quello civico) a ricevere documentazione fiscale dei propri costi sostenuti (del tutto irrilevanti nel contesto di una deduzione non analitica dal reddito di costi già predeterminati a forfait) non sono pochi i contribuenti che non dichiarano in RS l’effettività dei costi realmente sostenuti nell’esercizio dell’attività, o che spesso confondono acquisti di beni o servizi effettuati nella propria sfera lavorativa con quella privata, ricevendo per gli stessi ricevute fiscali alternative alle fatture passive per operazioni pur effettuate nell’esercizio dell’attività. Molti clienti, peraltro, neanche consegnano i documenti al professionista che cura gli adempimenti dichiarativi, cosicché la compilazione di questi righi risulta spesso incompleta o approssimativa.

L’omessa od infedele compilazione dei righi RS è sanzionabile ai sensi dell’articolo 8, comma 1, del Dlgs 471/1997, in base al quale, fuori dai casi di dichiarazione omessa o infedele, è applicabile la sanzione da 250 a 2mila euro qualora nella dichiarazione «(…) non è indicato in maniera esatta e completa ogni altro elemento prescritto per il compimento dei controlli». In alcuni casi, però, l’agenzia delle Entrate, in ragione della mancata tenuta delle scritture contabili da parte di questi contribuenti semmai rafforzata da una inattendibile compilazione del quadro RS, potrebbe ritenere di accertare il reddito di impresa/lavoro autonomo dei forfettari tramite un accertamento induttivo puro, ovvero secondo i presupposti e le modalità contenute nell’articolo 39, comma 2 del Dpr 600/1973 ed avvalendosi, quindi, anche di presunzioni semplici sfornite di gravità, precisione e concordanza. Questa, però, non solo sarebbe una iniqua parificazione tra chi, pur obbligato, non ha istituito la contabilità violando obblighi e chi, invece, lo ha fatto legalmente, ma ciò sarebbe anche illegittimo, atteso il fatto che l’articolo 39 consente di accertare esclusivamente redditi determinati in base alle scritture contabili.

Da ciò ne deriva che l’accertamento nei confronti di un forfettario è esperibile, quale persona fisica ed ex articolo 38 del Dpr 600/73, sia con metodo analitico che con quello induttivo, ma, in quest’ultimo caso, mediante ricorso alle presunzioni qualificate, ai sensi del comma 3.

La fedeltà compilativa del quadro RS rimane, allora, importante per evitare sanzioni formali, ma non decide il metodo di accertamento.

Fonte “Il sole 24 ore”

Fattura elettronica con invio in due tempi

di Alessandro Mastromatteo e Benedetto Santacroce

La trasmissione e l’indirizzamento della fattura elettronica impongono, alla luce dei provvedimenti dell’agenzia delle Entrate del 30 aprile (circolare 8/E e provvedimento 89757 ), delle scelte immediate sia da parte dell’emittente che del destinatario. Questi due momenti vanno distinti, perché l’invio della fattura elettronica da parte dell’emittente è indipendente dal canale di ricezione scelto dal destinatario, mentre il recapito è fortemente influenzato dalle scelte del cessionario/committente, anche se è sempre possibile attraverso un codice convenzionale semplificare le procedure.

Trasmissione

In fase di invio della fattura elettronica al Sistema di interscambio (Sdi), attori del processo sono emittente o trasmittente, se diverso dal primo, ed il sistema stesso. Una volta predisposta la fattura elettronica, il file generato può essere trasmesso a Sdi utilizzando, in alternativa, una casella di Pec, i servizi informatici messi a disposizione e cioè una procedura web, un’applicazione utilizzabile da dispositivi mobili o un software da installare su personal computer.

Questi canali non necessitano di alcun accreditamento preventivo a Sdi, a differenza del caso in cui l’emittente intenda avvalersi di un sistema di cooperazione applicativa (Sdicoop) o di sistemi di trasmissione dati tra terminali remoti basati su protocollo ftp. Per questi due canali l’accreditamento permette di impostare le regole tecniche di colloquio tra le infrastrutture informatiche dell’emittente e quelle di Sdi.

Recapito

Il recapito al cessionario/committente avviene con le modalità già descritte per la trasmissione da parte dell’emittente. L’unico canale non utilizzabile in ricezione, ma previsto al contrario per l’invio, è quello che si avvale dei servizi informatici, e quindi la procedura web o l’app da mobile. Mentre anche per la ricezione tramite sistemi di cooperazione applicativa o su protocollo ftp è necessario il preventivo accreditamento a Sdi da parte del destinatario delle fatture.

Indirizzamento

Per individuare su quale canale indirizzare la fattura, il Sistema di interscambio verifica innanzitutto se il ricevente ha provveduto alla preregistrazione, indicando le modalità con cui intende ricevere i documenti. In questo caso, il ricevente elegge di fatto un indirizzo telematico, e cioè una casella di Pec o il codice destinatario attribuitogli a seguito dell’accreditamento derivante dall’utilizzo di servizi di cooperazione o di protocolli ftp.

In caso di utilizzo del servizio di registrazione, il sistema indirizzerà sempre fatture e note di variazione all’indirizzo telematico registrato, prescindendo da quanto indicato nel campo «codice destinatario» dall’emittente. Se la fattura non è recapitabile per cause tecniche non imputabili a Sdi, ad esempio in caso di casella Pec piena o non attiva o di canale telematico non attivo, il documento viene messo a disposizione del cessionario/committente nella sua area riservata del sito web dell’agenzia delle Entrate.

In questa ipotesi, il cedente/prestatore è tenuto a comunicare al suo cliente, per vie diverse da Sdi, che l’originale della fattura è disponibile in tale area. Se al contrario il destinatario non ha utilizzato il servizio di registrazione, l’emittente è tenuto a compilare il campo «codice destinatario» indicando il codice comunicato dal cessionario/committente quando ha accreditato un canale a Sdi oppure il codice convenzionale a sette zeri e compilando il campo Pec destinatario comunicatogli dal destinatario.

Se la Pec non è stata comunicata o la fattura è destinata a contribuenti in regime di vantaggio, forfettari o produttori agricoli va compilato il codice convenzionale a sette zeri e la fattura viene messa a disposizione nella loro area riservata con necessità dell’emittente di comunicare che l’originale del documento è a disposizione in tale area. Se destinatario è invece il consumatore finale, oltre al codice convenzionale l’emittente deve compilare il codice fiscale del cessionario/committente. Il cedente/prestatore dovrà consegnare direttamente al cliente una copia informatica o analogica della fattura, comunicando inoltre la disponibilità della stessa nell’area riservata del sito web dell’agenzia delle Entrate, dove il sistema gli metterà a disposizione un duplicato informatico.

Fonte “Il sole 24 ore”

E-fattura, la lunga strada per arrivare a una vera semplificazione

di Raffaele, Rizzardi

La firma del provvedimento dell’agenzia delle Entrate, che declina le modalità operative di tutti i tipi di fattura elettronica, e della circolare n. 8, relativa alla decorrenza anticipata al 1° luglio della fatturazione dei carburanti, è stata apposta il 30 aprile, allo scopo di rispettare il lasso di 60 giorni previsto dallo statuto dei diritti del contribuente per l’introduzione di nuovi adempimenti. Peccato che i mesi di maggio e giugno non sono i più tranquilli per gli studi professionali: oltre agli adempimenti erariali non dimentichiamo le scadenze per i tributi locali, con i regolamenti Imu e Tasi che sono sempre diversi tra un comune e l’altro e talora da un anno all’altro per lo stesso comune.

Il provvedimento ci fa sapere che esiste una gamma di fatture elettroniche: il documento che merita in assoluto questa definizione è il B2B, quando sia l’emittente della fattura che il destinatario trasmettono e ricevono le fatture nel formato xml, essendo dotati del “codice destinatario” nel sistema di interscambio o di una Pec destinata a ricevere il file. Le procedure informatiche automatizzate generano il tracciato xml al momento di emissione della fattura, così come chi riceve questo file lo prende in carico nella contabilità fornitori, senza fare la consueta “caccia al tesoro” per capire dove i documenti cartacei indicano i dati essenziali della fattura. Ovvio che questa funzionalità sarà tipica delle imprese e degli studi professionali stabili e organizzati e non certo in fase di avvio del mezzo milione di soggetti che ogni anno aprono una nuova partita Iva.

Il provvedimento pone in evidenza che non solo i privati, ma anche i forfetari sono destinatari di una modalità particolare di emissione della fattura: il fornitore inserisce nel file un codice di sette zeri, e il flusso si deve moltiplicare per tre: lo Sdi comunica al cedente o prestatore che la fattura è stata accettata dal sistema; il cliente riceve il file nella sua area riservata dell’Agenzia (ma, soprattutto per i privati, quanti sono registrati nel relativo internet?); il fornitore deve comunque mandare una fattura tradizionale al cliente (oppure verso i forfetari un mero avviso relativo alla disponibilità della fattura nella sua area riservata dell’agenzia delle Entrate).

La sostanziale assimilazione dei forfetari ai privati discende dall’impegno preso con la Commissione europea, secondo cui i soggetti minori devono rimanere estranei a questi obblighi: la legge lo dice solo per l’emissione, giustamente il provvedimento delle Entrate ha dovuto dirlo anche in ricezione. Ma – punto 3.3 del provvedimento – anche nel caso di utilizzo “perfetto” del sistema di interscambio tra due soggetti di imposta iscritti nel sistema, esiste il rischio che la fattura non vada a buon fine (ad esempio perché la casella Pec del cliente è piena), nel qual caso il fornitore viene messo in allarme dal sistema, che lo obbliga ad avvertire il cliente che la fattura è stata collocata nella sua area riservata del sito web dell’Agenzia delle entrate. Questa comunicazione può essere anche fatta mandando una fattura cartacea o in Pdf al cliente.

C’è poi un tracciato per le fatture da e verso l’estero.

Per il momento non si può certo parlare di semplificazione. O, in estrema sintesi, la fatturazione elettronica è soprattutto uno spesometro giornaliero.

Fonte “Il sole 24 ore”

Rottamazione per le sole sanzioni

di Luigi Lovecchio

È possibile rottamare anche le pretese esclusivamente sanzionatorie, a condizione che rientrino tra quelle tributarie o contributive. In tale eventualità, la definizione potrebbe anche perfezionarsi a costo zero. È inoltre ammessa la scelta del carico da condonare, in presenza di una pluralità di debiti. Non è tuttavia possibile scindere la singola partita di ruolo, poiché essa rappresenta una unità indivisibile.

Nell’individuare le entrate definibili con la presentazione dell’istanza entro il prossimo 15 maggio, occorre ricordare che la regola è che tutto è condonabile con le sole eccezioni tassativamente previste nell’articolo 6, comma 10, del Dl 193/16. Ad esse si aggiungono le entrate appartenenti ad altri Stati Ue affidate all’agente della riscossione in forza degli accordi internazionali sul recupero coattivo dei tributi. Una delle eccezioni di maggior rilievo riguarda le sanzioni di natura diversa da quella tributaria e contributiva. Le multe stradali sono un caso a sé. Per esse la definizione comporta l’azzeramento degli interessi moratori e delle maggiorazioni di legge, mentre resta dovuta la sorte capitale.

Per distinguere le sanzioni tributarie da quelle aventi diversa qualificazione, la circolare n. 2 del 2017 dell’agenzia delle Entrate utilizza il criterio della giurisdizione. Si afferma pertanto che se si è in presenza di entrata devoluta alla cognizione delle Commissioni tributarie allora la sanzione è definibile. Si tratta di un criterio sostanzialmente condivisibile, poiché la Corte di cassazione (sentenza 8870/2016) ha più volte affermato la generalità della giurisdizione delle Commissioni tributarie in materia fiscale. Ne consegue che, ad esempio, saranno senz’altro rottamabili i diritti camerali, il contributo unificato per le spese di giustizia e i contributi ai consorzi obbligatori. Non possono tuttavia escludersi casi dubbi, in ragione della complessità della nozione di tributo. Si pensi ad esempio ai contributi dovuti all’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Secondo un recente intervento della Corte costituzionale (sentenza 269/2017) non è implausibile ipotizzarne la natura tributaria, nonostante un isolato arresto apparentemente contrario delle Sezioni unite della Cassazione (sentenza 19678/2016). O ancora agli oneri di urbanizzazione, tradizionalmente in bilico tra la qualifica tributaria e quella patrimoniale (con prevalenza di quest’ultima).

Non possono invece senz’altro definirsi, ad esempio, le sanzioni per utilizzo di lavoro nero o irregolare, né quelle per omesso deposito di atti al Registro delle imprese. Per quanto riguarda le sanzioni comminate agli intermediari abilitati per la trasmissione delle dichiarazioni, a partire dal 1° gennaio 2007 le stesse sono state ricondotte all’ambito tributario e possono dunque essere sanate.

È peraltro possibile scegliere il carico da rottamare, in presenza di una pluralità di debiti. A tale riguardo, va però ricordato che secondo la citata circolare n. 2 delle Entrate la singola partita (e non il codice tributo) affidata all’agente della riscossione costituisce una unità indivisibile. Tale è di regola quella scaturente da ciascun procedimento di accertamento, liquidazione e riscossione. Ne consegue che, secondo l’interpretazione ufficiale, non è possibile decidere di definire, ad esempio, i rilievi Irpef e non quelli Iva del medesimo avviso di accertamento. O si definisce tutto o non si definisce nulla. Lo stesso dicasi con riferimento ad una cartella di pagamento emessa per la liquidazione o il controllo formale della dichiarazione.

Fonte “Il sole 24 ore”

Rimanenze, l’elenco blocca i ricavi induttivi

Accertamento e contenzioso
di Fabio Mazzoleni

Non è legittima la ricostruzione induttiva pura del reddito di una società di persone che, non avendo tenuto la contabilità di magazzino (in quanto esonerata), aveva regolarmente predisposto il prospetto di dettaglio delle rimanenze. È quanto affermato dalla Ctp di Vicenza con la sentenza 678/2/2017 (presidente Block, relatore Spadaro).

L’agenzia delle Entrate, sulla scorta di una segnalazione della Guardia di finanza che evidenziava una serie di irregolarità contabili, procede alla ricostruzione induttiva dei ricavi dichiarati dalla società per l’anno 2012. In particolare, l’ufficio ritiene che il presupposto per l’accertamento condotto con il metodo induttivo puro (articolo 39, comma 2 del Dpr 600/1973) sia da individuarsi nell’assenza della tenuta della contabilità di magazzino.

Il contribuente – presumibilmente in contabilità semplificata – impugna l’avviso di accertamento lamentando che non aveva alcun obbligo di tenere le scritture di magazzino ex articolo 18 del Dpr 600/1973. Inoltre, precisa il contribuente, l’ufficio non ha tenuto conto della documentazione prodotta in sede di verifica, dalla quale risultava il dettaglio delle rimanenze.

I giudici vicentini hanno in primo luogo ribadito il principio di diritto secondo il quale il discrimine tra l’accertamento condotto con il metodo analitico-induttivo (articolo 39, comma 1 lettera d) e l’accertamento induttivo puro (articolo 39, comma 2) risiede, rispettivamente, nella “parziale o assoluta” inattendibilità dei dati risultanti dalle scritture contabili. Nel primo caso, poiché le violazioni non sono tali da sconfessare la contabilità nel suo complesso, l’ufficio può soltanto colmare le lacune riscontrate accertando specifici ricavi non dichiarati o costi non deducibili; nel secondo caso, invece, poiché le omissioni sono talmente gravi da rendere inattendibile la contabilità, l’ufficio procede alla quantificazione del reddito in base a dati e notizie comunque raccolti.

In secondo luogo, nel comportamento della società, si legge nella sentenza, non si ravvisa alcuno degli elementi che giustificano il legittimo ricorso alla ricostruzione induttiva del reddito. Ed infatti, affermano i giudici, la società – che non aveva alcun obbligo di tenuta della contabilità – ha regolarmente redatto l’inventario e fornito le schede contabili e il dettaglio delle rimanenze di magazzino (rispettando dunque il disposto normativo di cui all’articolo 9, Dl 69/1989 e articolo 2, Dm 2 maggio 1989).

La pronuncia si inserisce nel consolidato solco della giurisprudenza di legittimità che ritiene applicabile il metodo induttivo nei confronti delle imprese in contabilità semplificata – esonerate dalle registrazioni di magazzino – solamente allorquando tali soggetti non siano in grado di fornire prospetti di dettaglio delle rimanenze tali da consentire all’amministrazione finanziaria di effettuare i dovuti controlli (Cassazione 15863/2001, 9912/1996, 7763/1990).

Rimane da chiarire se nel nuovo regime di contabilità semplificata improntato al criterio di cassa – con irrilevanza delle rimanenze ai fini della determinazione del reddito – il prospetto di dettaglio delle rimanenze richiesto dal citato articolo 9 (peraltro non espressamente abrogato) sia ancora obbligatorio anche alla luce della compilazione degli indici sintetici di affidabilità fiscale.

Fonte “Il sole 24 ore”

Controlli mirati per le modifiche ai bonus nel 730 precompilato

di Marco Mobili e Giovanni Parente

E adesso si entra nel vivo. Da mercoledì 2 maggio sarà possibile accettare, modificare o integrare e poi trasmettere all’agenzia delle Entrate il modello 730 precompilato. La fase 2 sta per iniziare e i contribuenti si trovano di fronte al bivio se fare tutto da soli oppure andare al Caf, sobbarcandosi i costi dell’assistenza fiscale. Una scelta che comporta conseguenze diverse in termini di eventuali ricadute su omissioni o errori. Già, perché il Caf che appone il “bollino blu” sulla dichiarazione (il visto di conformità), si assume la responsabilità per i dati indicati e per i quali sono stati acquisiti i documenti giustificativi. E spetta a questi ultimi esibire la documentazione successiva al posto dei loro assistiti in caso di eventuale richiesta degli uffici dell’Agenzia. In ogni caso seguendo le istruzioni della circolare 7/E del 27 aprile 2018 dedicata a deduzioni e detrazioni (si veda Il Sole 24 Ore del 28 aprile).

Ma è proprio sui controlli che si consumerà una delle principali novità della precompilata 2018. Nei primi 15 giorni, infatti, i contribuenti hanno potuto verificare quali voci fossero presenti o meno, quali fossero solo “parcheggiate” nel foglio informativo (è il caso della prima rata per i bonus sui lavori in casa, sugli arredi e sul risparmio energetico) e quali invece fossero da rettificare. Ora, invece, bisogna decidere se accettare o integrare. E, come dimostrano anche le schermate pubblicate in alto, si potrà intervenire anche con la modalità di compilazione assistita – ovvero la nuova procedura “guidata” dal software – che dal 7 maggio consentirà di andare ad aggiungere singoli documenti di spesa o intervenire in maniera più chirurgica sulle singole voci già inserite. Naturalmente la modalità di intervento cambierà anche il quadro successivo. Vediamo proprio che cosa cambia per chi procede con il «fai-da-te».

Accettazione integrale

È l’ipotesi più semplice. Chi accetta integralmente il conto dell’Agenzia o apporta modifiche che non incidono né sul calcolo dell’imponibile o dell’imposta si garantisce uno “scudo” dai controlli formali sui documenti relativi alle voci di spesa che danno diritto ai bonus, trasmessi da quelli che si chiamano soggetti «terzi» (dietro questa dizione ci sono banche, enti di previdenza, farmacie e altre strutture sanitarie obbligate alla trasmissione, assicurazioni e così via). Si tratta degli oltre 860 milioni di informazioni con cui è stata costruita la precompilata 2018 (a cui si sommano anche i quasi 59 milioni di informazioni relative ai redditi). Detto in altri termini, il Fisco non chiede più a chi accetta la precompilata scontrini, fatture, bonifici, contratti relativi agli sconti già precaricati. Resta fermo, però, che sui requisiti soggettivi per aver diritto allo sconto fiscale (ad esempio, l’effettiva destinazione nei termini previsti ad abitazione principale dell’immobile acquistato, necessaria per la detrazione degli interessi passivi del mutuo) l’amministrazione finanziaria può sempre accendere un faro e fare controlli.

La modifica tradizionale

La modalità tradizionale di modifica consente di intervenire sui totali delle singole spese. In questo caso, quindi, il focus dei controlli documentali si concentrerà solo sulla tipologia di spesa su cui il contribuente è intervenuto. Proviamo a fare un esempio: se l’integrazione o la correzione riguarda le spese sanitarie (rigo E1 del 730), il diretto interessato dovrà conservare ed eventualmente esibire al Fisco solo gli scontrini e le ricevute relative a farmaci, visite e altri oneri contenuti nel rigo E1. Si potrà, tra l’altro, fare a meno di conservare le carte sugli interessi delle rate del mutuo o sui contributi alla colf se non vengono toccati.

La «compilazione assistita»

Con la compilazione assistita si restringe ancora di più l’area dei documenti da tenere nei cassetti o nei faldoni e dei potenziali controlli. Si potrà, infatti – sotto la guida del sistema – modificare una singola spesa all’interno delle macrovoci presenti nelle sezioni I e II del quadro E del modello (tanto per intenderci sono esclusi i bonus sui lavori in casa). E i controlli documentali potranno riguardare solo quella singola spesa modificata. Se tutto il resto rimane intatto rispetto al dato precaricato, non sarà più necessario conservare ricevute e scontrini. Con un vantaggio tangibile anche in termine di semplificazione.

La seconda chance

Per chi poi trasmettesse subito con il «fai-da-te» il 730 precompilato e poi ci ripensasse, ci sarà la possibilità (a partire dal 28 maggio e fino al 20 giugno) di annullare direttamente il precedente invio e procedere a uno nuovo. L’annullamento sarà possibile una sola volta.

Fonte “Il sole 24 ore”

Bilanci, il creditore iscrive il pagamento differito a valore attualizzato

di Paolo Meneghetti

Nelle politiche commerciali per incentivare le vendite si fa sempre più strada il pagamento differito: consegna immediata a fronte di un pagamento fortemente dilatato nel tempo senza addebito di interessi passivi. Questo ha ricadute in tema di valutazione e iscrizione del debito/credito.

La contabilizzazione della posta bilancistica influenza le scelte del debitore ma anche del creditore. Infatti l’articolo 2426, punto 8, del Codice civile dispone che non solo il debito, ma anche il credito va iscritto in bilancio al costo ammortizzato, tenendo conto del fattore-tempo. Di seguito si analizza la posizione del creditore alla luce del documento Oic 15 e delle conseguenze fiscali della sua adozione al posto del criterio ordinario (importo realizzabile del credito). L’Oic 15, paragrafo 44, stabilisce che se il credito commerciale è stato concesso con pagamento oltre i 12 mesi, senza addebito di interessi, o con addebito di interessi molto inferiori a quelli di mercato, va determinato e iscritto in bilancio al valore attualizzato, imputando la differenza tra valore nominale e valore attuale del credito tra i proventi finanziari, in base alla durata del pagamento convenuto.

L’esempio
Supponiamo che una società di capitali venda un bene per un valore di 100.000 € (per semplicità non si considera l’aspetto Iva, ipotesi che peraltro si verifica realmente ove l’acquirente si qualifichi, ad esempio, come esportatore abituale). Il pagamento avverrà entro 3 anni dalla consegna e il tasso di mercato sarebbe stato il 3 per cento. Il valore attuale del credito risulta determinato in 91.743 €, quindi con un differenziale di 8.259 € da qualificare quale provento finanziario nei tre anni.

A questo punto alla luce dell’Oic 15 possiamo rilevare il ricavo derivante dalla vendita che è pari a 91.743 €, da imputare alla voce A 1 del conto economico. In ipotesi di valutazione ordinaria del credito, invece, il ricavo contabilizzato sarebbe l’intero valore di 100.000 €. La società cedente al 31 dicembre del primo anno deve rilevare anche gli interessi attivi calcolandoli al tasso di mercato del 3% , quindi un dato da collocare alla voce C 16 del conto economico per 2.752 €. Alla fine del triennio si avrà l’intera imputazione della vendita a conto economico ma essa in parte sarà collocata tra i ricavi (91.743) e in parte collocata nell’area finanziaria (8.257).

Le ricadute
Ora si pone il problema del riconoscimento ai fini fiscali di questa impostazione contabile. A Telefisco 2018 l’agenzia delle Entrate ha confermato che vi sono uguali ricadute fiscali sia che il criterio del costo ammortizzato sia assunto per obbligo (società tenute a redigere il bilancio in forma ordinaria) sia per scelta facoltativa (società che possono redigere il bilancio in forma abbreviata). A questo punto entra in gioco il principio di derivazione rafforzata secondo cui i criteri civilistici in tema di qualificazione, classificazione e imputazione temporale prevalgono sulle diverse regole del Tuir. Ma rilevare il credito nel primo esercizio in misura ridotta significa svalutarlo (ipotesi per cui la derivazione rafforzata non avrebbe significato) oppure qualificarlo?

La circolare
La circolare 7/E/2011 , paragrafo 4.1 (relativa ai soggetti Ias ma il problema è il medesimo) afferma che l’iscrizione ridotta del credito deriva da una qualificazione e non da una svalutazione, quindi pienamente riconosciuta fiscalmente. Pertanto, il ricavo tassabile è effettivamente quello ridotto a seguito della attualizzazione, e il differenziale va imputato pro rata temporis quale interesse attivo. Ciò, tra l’altro, significa incrementare il tetto di deducibilità degli interessi passivi per un importo pari a quelli attivi imputati, come affermato dalla circolare 19/09, paragrafo 2.2.1. La disciplina sopra descritta presenta dunque aspetti interessanti anche sotto il profilo fiscale che potranno riguardare tutte le società di capitali fatta eccezione per le micro imprese ex articolo 2435 ter del Codice civile.

Fonte “Il sole 24 ore”

Novanta giorni di tempo per la dichiarazione omessa

di Michele Brusaterra

Dichiarazioni e adempimenti

Per la dichiarazione Iva annuale non presentata entro oggi, presentazione entro 90 giorni con sanzioni ridotte.

La dichiarazione annuale Iva 2018, relativa al 2017, va presentata entro oggi in via telematica all’agenzia delle Entrate, in base a quanto disposto dall’articolo 8 del Dpr 322/1998 . Una volta spirato tale termine, senza che la dichiarazione sia stata inviata, si rendono applicabili le sanzioni di cui all’articolo 5 del Dlgs 471/1997 che prescrive innanzitutto che «Nel caso di omessa presentazione della dichiarazione annuale dell’imposta sul valore aggiunto si applica la sanzione amministrativa dal centoventi al duecentoquaranta per cento dell’ammontare del tributo dovuto per il periodo d’imposta o per le operazioni che avrebbero dovuto formare oggetto di dichiarazione».

In ogni caso la sanzione non può essere inferiore a 250 euro e nel caso di presentazione della dichiarazione entro il termine di presentazione della dichiarazione relativo al periodo d’imposta successivo ma, comunque, prima che siano iniziate attività amministrative di accertamento «di cui il soggetto passivo abbia avuto formale conoscenza», la sanzione amministrativa applicabile va dal 60 al 120 per cento dell’ammontare del tributo dovuto per il periodo d’imposta ovvero per le operazioni che avrebbero dovuto formare oggetto di dichiarazione. In questo caso la sanzione minima è di 200 euro.

In tema di omessa presentazione della dichiarazione, si deve altresì tenere conto che nel caso di presentazione della stessa nei novanta giorni successivi alla scadenza, la sanzione di cui si è detto, ossia di 250 euro, è ridotta a un decimo, in base a quanto previsto dalla lettera c, del primo comma dell’articolo 13 del Dlgs 472/1997 , che dispone in merito al ravvedimento operoso. Il termine ultimo per la presentazione della dichiarazione tardiva è fissato al 29 luglio 2018.

Se, naturalmente, oltre alla tardiva presentazione della dichiarazione, vi fossero anche tardivi versamenti, allora per tale violazione trova applicazione la sanzione del 30 per cento di cui all’articolo 13 del Dlgs 471/1997 , sanzione ravvedibile a seconda del momento di eventuale effettuazione del versamento. Più precisamente in caso di ritardo non superiore a 14 giorni dalla scadenza, per ogni giorno di ritardo si applica la sanzione dello 0,1 per cento – c.d. ravvedimento sprint – mentre per i versamenti effettuati entro 30 giorni dalla scadenza si applica la sanzione dell’1,5 per cento, per quelli effettuati entro 90 giorni, la sanzione dell’1,67 per cento e poi la sanzione del 3,75, 4,29 e 5 per cento a seconda che, rispettivamente, il versamento venga effettuato entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa all’anno nel corso del quale la violazione è commessa, entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa all’anno successivo a quello nel corso del quale la violazione è stata commessa ovvero oltre il termine di presentazione della dichiarazione relativa all’anno successivo a quello nel corso del quale la violazione è stata commessa.

È il caso infine di evidenziare che, ove la dichiarazione annuale Iva sia presentata entro i termini previsti, ossia entro oggi, in caso di presentazione di successiva dichiarazione integrativa entro i 90 giorni successivi, ferme restando comunque le sanzioni appena indicate in caso di ritardato versamento dell’imposta, si applica la sanzione minima di 250 euro ridotta a un nono, ossia a euro 27,78, in base a quanto disposto questa volta dalla lettera a-bis, sempre dell’articolo 13 del Dlgs 472/1997.

Fonte “Il sole 24 ore”

La rottamazione al test di convenienza

di Rosanna Acierno

Si avvicina la scadenza del 15 maggio entro cui si dovrà resentare la domanda per l’istanza di adesione alla rottamazione-bis. Pertanto, calcolatori alla mano, i contribuenti che hanno carichi affidati ad agenzia Entrate Riscossione dal 1° gennaio 2000 al 30 settembre 2017 sono chiamati a valutare non solo l’opportunità in termini di convenienza ma, soprattutto, la “possibilità” di aderire alla definizione agevolata.

Ovviamente, la convenienza in termini di risparmio su sanzioni e interessi di mora potrebbe essere più ampia sui carichi affidati alla riscossione in periodi antecedenti al 2016 perché, in tal caso, sia le sanzioni che gli interessi di mora hanno importi più elevati. Si ricorda, infatti, che fino al 31 dicembre 2015 le sanzioni irrogate dall’Ufficio per le violazioni di infedele dichiarazione ai fini delle imposte dirette e Iva (articoli 1 e 5, Dlgs 471/1997) oscillavano dal 100% al 200% della maggiore imposta dovuta, mentre dal 2016 (con l’entrata in vigore del Dlgs 158/2015) oscillano dal 90% al 180% della maggiore imposta dovuta e, in caso di lievi infedeltà contenute nel limite del 3% e comunque di 30mila euro, tra il 60 e il 120 per cento.

Inoltre, il conteggio degli interessi di mora, applicati direttamente dall’agente della riscossione (ex articolo 30 del Dpr 602/73), decorre dal primo giorno di notifica della cartella fino al giorno di effettivo pagamento. Pertanto, è evidente che laddove i debiti siano molto “datati”, gli interessi di mora sono più alti. Allo stesso modo, in caso di sanzioni e interessi di mora più alti, anche l’aggio della riscossione cresce, essendo commisurato a queste due poste oltreché all’imposta e agli interessi da ritardata iscrizione a ruolo.

Nonostante, nel caso di carichi affidati prima del 2016 il risparmio sia davvero allettante, la scelta di presentare l’istanza di rottamazione non è però così scontata.

Occorre, infatti, fare i conti con i rigorosi termini di rateazione introdotti dal legislatore: per le nuove istanze di rottamazione dei carichi affidati all’agente della riscossione dal 2000 al 2016 presentate entro il 15 maggio 2018, sarà possibile effettuare il pagamento delle somme dovute in un massimo di tre rate, peraltro molto ravvicinate tra loro. In particolare, per i carichi dal 2000 al 2016, la scelta di massima rateazione effettuata nel modello di istanza consentirà al contribuente di versare gli importi complessivamente dovuti entro:
• il 31 ottobre 2018 per il 40%;
• il 30 novembre 2018 per l’ulteriore 40%;
il 28 febbraio 2019 per il restante 20 per cento.

Pertanto bisognerà disporre della liquidità sufficiente anche perché, qualora il contribuente non dovesse pagare tempestivamente una rata o dovesse versarla in maniera insufficiente, decadrà immediatamente dal beneficio, non essendo prevista l’applicazione del ravvedimento operoso o alcuna tolleranza anche per «lievi tardività». Inoltre, non sarà più possibile chiedere la dilazione del debito ad agenzia Entrate Riscossione ai sensi dell’articolo 19 del Dpr 602/73.

Va detto, comunque, che, al fine di non perdere l’opportunità di questa nuova rottamazione e di trarne i massimi benefici, il contribuente potrà comunque compiere una scelta in merito a quali carichi definire, anche in relazione alla singola cartella di pagamento. Pertanto se, ad esempio, una cartella porta a riscossione ruoli Inps e dell’agenzia delle Entrate, è possibile sanare i soli ruoli Inps. Del pari, se il contribuente ha ricevuto due cartelle di pagamento, ne potrà sanare solo una, presentando solo per questa l’apposita istanza di definizione agevolata.

Fonte “Il sole 24 ore”

Gerico 2018 «distingue» il regime per cassa

di Lorenzo Pegorin

Gerico 2018 al debutto. Quella rilasciata nel primo pomeriggio di ieri è una prima versione del software per gli studi di settore riferiti all’anno d’imposta 2017, peraltro già definitiva, anche se, come accaduto nel recente passato non sono esclusi ulteriori aggiornamenti in corsa dell’applicativo. Questo perché, a maggior ragione, allo stato attuale manca ancora, non solo l’ufficialità del decreto sui correttivi crisi, non essendo lo stesso ancora stato pubblicato in «Gazzetta Ufficiale» (a differenza dei correttivi cassa, si veda il Dm Economia del 23 marzo 2018), ma pure la versione definitiva delle istruzioni e dei modelli studi di settore con riferimento al reddito d’impresa.

Il modello ufficiale ad oggi approvato non riporta, infatti, all’interno del reddito d’impresa, i righi da F41 a F44 destinati ad ospitare i dati relativi ai contribuenti esercenti contabilità d’impresa in regime semplificato; righi che viceversa sono presenti nel modello simulato all’interno di Gerico 2018. Stessa sorte per il quadro Z, destinato quest’anno ad ospitare i dati che serviranno per aggiornare i futuri modelli Isa che risultano presenti solo all’interno dell’applicativo, ma non nel modello ad oggi in vigore e pubblicato nel sito dell’Agenzia delle entrate.

Passando alle prime simulazioni pratiche, i risultati che sono stati elaborati sui primi prototipi tenderebbero a testimoniare, a parità di valori, un innalzamento dei ricavi stimati dal software per effetto dei correttivi cassa, per i contribuenti in contabilità d’impresa.

In buona sostanza i correttivi strutturali di cassa e quelli settoriali che trovano maggiore diffusione pratica fra le imprese, tenderebbero a produrre un generale effetto innalzamento sul ricavo (puntuale e minimo) atteso dalla procedura. Tuttavia, si segnala che non mancano le situazioni contrarie, dove l’effetto cassa, in effetti riduce la stima.

Viceversa è possibile notare, come del resto già annunciato nel decreto di approvazione del 23 marzo scorso, che i correttivi per cassa non operano per i soggetti che hanno optato per il regime del registrato ai fini iva (articolo 18, comma 5, del Dpr 600/1973).

Per costoro a parità di dati contabili, il risultato, al netto dei correttivi crisi, coincide in buona sostanza con la stima dello scorso anno.

Per questa tipologia di contribuenti si fa tuttavia notare che, nonostante per essi non operino i correttivi per cassa, sarà importante compilare ugualmente il dato delle rimanenze finali poiché esso contribuisce a calmierare il risultato stimato dall’applicativo.

Infatti, nonostante il dato delle rimanenze finali, per i contribuenti in contabilità semplificata (siano essi in regime di «cassa pura» o con quello del «registrato ai fini Iva») non abbia, alcuna influenza sul reddito imponibile, quest’ultimo viene comunque elaborato da Gerico e questo come se le giacenze finali effettivamente facessero parte dei dati contabili.

Tale metodologia di trattamento dei dati opera per tutti i semplificati senza distinzione alcuna.

In conclusione, nell’attesa che anche i modelli ufficiali vengano aggiornati, si focalizza l’attenzione sull’importanza di compilare correttamente i righi da F41 a F44 destinati ai contribuenti in semplificata ed in particolar modo del rigo F41 per coloro che hanno optato per il regime del registrato ai fini Iva. Le prime simulazioni effettuate sul nuovo Gerico 2018 sembrerebbero infatti testimoniare come la loro compilazione possa influenzare in maniera significativa il risultato stimato dall’applicativo.

Fonte “Il sole 24 ore”

Fattura elettronica, obbligo da luglio solo sui carburanti per autotrazione

di Benedetto Santacroce

Dal 1° luglio 2018 le fatture elettroniche per la cessione di carburanti riguarderanno solo la benzina e il gasolio per autotrazione, con esclusione di altri motori o altri usi. Inoltre per gli appalti pubblici la fattura elettronica sarà limitata ai rapporti diretti del titolare del contratto con la Pa e nei rapporti con coloro di cui lo stesso si avvale e non nei rapporti successivi. Queste sono due delle novità contenute nella circolare 8/E di ieri.

E-fattura e carburanti

L’obbligo di documentare la cessione di carburanti con fattura elettronica si inserisce nel complesso di provvedimenti adottati con la legge di Bilancio 2018 (estrazione da depositi fiscali e stoccaggio nei depositi commerciali) per combattere i fenomeni di frode ed evasione Iva sugli oli minerali. L’Agenzia specifica che l’obbligo di fatturazione elettronica, che scatterà dal 1° luglio prossimo, riguarderà solo la benzina e il gasolio destinati a essere utilizzati come carburanti per motori di autotrazione. Quindi tale nuovo obbligo non riguarderà le cessioni di benzina per motori che fanno parte di gruppi elettrogeni, impianti di riscaldamento, attrezzi vari, utensili da giardinaggio.

La fattura per la cessione dei carburanti dovrà contenere obbligatoriamente i dati indicati dall’articolo 21 del Dpr 633/72. Da ciò si evince che dalla fattura elettronica non dovrà comparire il numero di targa o il modello dell’autovettura rifornita. Tali elementi rimarranno facoltativi. Se con la fattura, oltre alla cessione di carburanti si documenteranno gli acquisti di altri beni, la fattura dovrà essere emessa necessariamente in elettronico.

Anche per la cessione di carburanti sarà possibile fare ricorso alla fatturazione differita, a condizione che al momento della cessione del carburante venga consegnato all’acquirente un documento analogico o elettronico che contenga la data della cessione, le generalità del cedente, del cessionario e dell’eventuale trasportatore, nonché la descrizione della natura, quantità e qualità dei beni ceduti. A questo proposito la circolare richiama le istruzioni fornite con la circolare 205/98 per i distributori automatici.

Per la conservazione delle fatture elettroniche sia il cedente che il cessionario dovranno conservare le fatture in elettronico. Per la conservazione potranno aderire al servizio messo a disposizione dallo SdI.

Per quanto riguarda la deducibilità ai fini delle imposte dirette e la detraibilità Iva l’acquisto deve esser regolato con strumenti di pagamento tracciabili. La circolare riprendendo il provvedimento del 4 aprile 2018 specifica che tutti i mezzi di pagamento indicati sono idonei ad entrambi gli scopi, nonostante il dettato della norma.

Sulle forme di pagamento la circolare fornisce degli importanti chiarimenti per quanto riguarda i sistemi di fatturazione con il netting o con i buoni benzina anticipando l’applicazione della direttiva sui voucher.

E-fattura e appalti pubblici

La circolare, rinviando a un ulteriore documento di prassi che dovrebbe essere emesso, chiarisce che l’obbligo di fatturazione elettronica nell’ambito degli appalti pubblici troverà applicazione per i soli rapporti (appalti e/o contratti) diretti tra il soggetto titolare del contratto e la pubblica amministrazione nonché tra il primo e coloro di cui egli si avvale, con esclusione degli ulteriori passaggi successivi.

Fonte “Il sole 24 ore”

E-fattura, la data di emissione coincide con la consegna

Dichiarazioni e adempimenti
di Benedetto Santacroce

 Con la pubblicazione del provvedimento di attuazione , delle specifiche tecniche e di una prima circolare l’operazione fattura elettronica entra nel vivo, dando appuntamento al 1° luglio. I documenti dell’Agenzia superano alcune criticità espresse anche nel forum della fattura elettronica del 5 marzo e introducono una serie di semplificazioni.

Indirizzamento

In primo luogo, le nuove regole agevolano il recapito della fattura, ampliando i casi in cui la semplice partita Iva guida la consegna del documento al destinatario.

In particolare, il problema che si pone per l’emittente è individuare in relazione a ciascun cessionario/committente la Pec o un altro indirizzo univoco di comunicazione. Per risolvere il problema il provvedimento introduce un sistema di preregistrazione del cessionario/committente che ricollega le fatture con la relativa partita Iva. Nel caso di preregistrazione la fattura emessa con Pec errata o con codice identificativo incompleto o mancante fa sì che la fattura venga recapitata al cessionario/committente seguendo la semplice partita Iva. In caso di mancata registrazione le opzioni offerte dal provvedimento si basano sempre su due obblighi: il primo per il cessionario/committente di fornire l’indirizzo al fornitore; il secondo è in capo all’emittente. Nel caso di problemi tecnici (si pensi all’indicazione di una Pec non attiva) il Sdi prova a recapitare la fattura; e non riuscendovi mette a disposizione dell’emittente e del destinatario un duplicato informatico in una apposita area del sito delle Entrate e notifica all’emittente il mancato recapito. Quest’ultimo ha l’obbligo di informare il cessionario/committente, anche con l’invio di una copia informatica o analogica, che la fattura è disponibile sul web.

Più semplice il recapito a destinatario consumatore finale ovvero operatore che non è obbligato all’emissione della fattura (soggetti a regimi agevolati o forfettari). In questo caso l’emittente si limiterà ad inserire il codice convenzionale “0000000”.

Data della fattura

Il provvedimento, ai soli fini fiscali, specifica che per l’emittente la data di emissione è quella apposta sulla fattura. Attenzione, però, che l’emissione vera e propria della fattura si ha solo con esito positivo da parte del Sdi con ricezione della ricevuta di consegna. Quindi in caso di scarto della fattura, la stessa si ha per non emessa e bisognerà provvedere con una nota di variazione interna con una nuova spedizione della fattura corretta al Sdi.

Per il destinatario la fattura si ha per ricevuta nello stesso momento in cui viene recapitata. Potrebbe capitare che la fattura non venga, per problemi tecnici, recapitata al cessionario/committente. In questo caso un duplicato viene a messo a disposizione sul sito dell’Agenzia. Il fornitore, per il quale la fattura si considera emessa, deve comunicare al destinatario la messa a disposizione. Per il destinatario, la data di ricezione si sposta, ai soli fini della detraibilità Iva, al momento in cui il cessionario/committente entra nell’area riservata e prende visione della fattura.

Conservazione delle fatture

L’emittente e il destinatario della fattura, aderendo a uno specifico accordo di servizio con l’agenzia delle Entrate, può delegare al Sdi la conservazione della fatture e di tutti i documenti elettronici allegati alla fattura. Come specificano le motivazioni del provvedimento, questa conservazione non ha solo efficacia fiscale, ma anche civilistica. Quindi con l’accordo si assolvono a tutti gli obblighi di conservazione in ossequio alle regole imposte dal Dm 17 giugno 2014 e delle regole tecniche imposte dal Dpcm 3 dicembre 2013.

Fonte “Il sole 24 ore”

I dati sulle liquidazioni Iva chiedono la modalità dell’acconto

di Pierpaolo Ceroli

Con la chiusura il prossimo 16 maggio delle liquidazioni Iva del primo trimestre 2018 da parte dei contribuenti trimestrali, tutti i soggetti passivi Iva saranno pronti per la trasmissione dei dati delle liquidazioni periodiche (Lipe) all’articolo 21-bis del Dl 78/2010, da presentare entro il 31 maggio. Entro la stessa data dovrà essere inviato lo spesometro, sia obbligatorio che opzionale, per coloro che non intendono fruire della trasmissione semestrale dei dati. Si precisa che per le comunicazioni relative alle liquidazioni non si potrà beneficiare della stessa agevolazione, pertanto i dati del primo trimestre dell’anno 2018 dovranno necessariamente essere trasmessi entro il prossimo 31 maggio. Per chi dovesse omettere l’adempimento, si ricorda che qualora la comunicazione fosse inviata entro il 15 giugno 2018 (entro 15 giorni dalla scadenza), è prevista la sanzione da 250 a mille euro, altrimenti raddoppiata per gli invii effettuati in data successiva, ma comunque ravvedibile (si veda la risoluzione 104/E/2017).

La comunicazione relativa al primo trimestre 2018 dovrà essere trasmessa con il nuovo modello approvato dal provvedimento dell’agenzia delle Entrate del 21 marzo (62214/2018), il quale si compone sempre di due parti: il frontespizio e il quadro VP. È proprio quest’ultimo prospetto ad essere stato modificato, al fine di allinearlo sempre più al quadro VH della dichiarazione annuale Iva, la cui funzione è stata mutata a partire dal modello Iva 2018 al fine di consentire ai contribuenti di correggere o comunicare i dati delle Lipe riferite all’anno oggetto di dichiarazioni. Relativamente alle novità che interessano il modello approvato a marzo 2018 si evidenzia che sono state aggiunte le seguenti caselle:
•VP1 («operazioni straordinarie»);
•VP13 («metodo» riferito al criterio prescelto per il calcolo dell’acconto).

La novità del rigo VP13 si ritiene che riguardi esclusivamente la liquidazione dell’ultimo trimestre, considerato che va indicato il codice abbinato al metodo utilizzato per la determinazione dell’acconto («1» storico; «2» previsionale; «3» analitico – effettivo; «4» soggetti operanti nei settori delle telecomunicazioni, somministrazione di acqua, energia elettrica, raccolta e smaltimento rifiuti, eccetera).

La nuova casella del rigo VP1, invece, va barrata in due occasioni:
•quando a seguito di un’operazione straordinaria, il soggetto avente causa (incorporante, beneficiaria, conferitaria, cessionaria e donante) si riporti il credito Iva maturato dal dante causa nell’ultima liquidazione periodica (che si indica nel rigo VP8) o quello indicato nella dichiarazione annuale Iva dello stesso dante causa (da riportare in VP9).
•quando conseguentemente all’interruzione della liquidazione Iva di gruppo nel corso dell’anno, la controllante indichi nella propria comunicazione, nel rigo VP8, le eventuali eccedenze di credito trasferite al gruppo e non compensate utilizzate in detrazione nelle proprie liquidazioni periodiche successive.

Infine, si precisa che il precedente modello Lipe (approvato con il provvedimento del 27 marzo 2017) poteva essere utilizzato fino allo scorso 30 aprile 2018, in quanto per chi dovesse correggere la liquidazione dell’anno 2017 successivamente a tale data, dovrà necessariamente presentare una dichiarazione integrativa del modello Iva 2018.

Fonte “Il sole 24 ore”

Niente obbligo di avviso bonario per omessi o carenti versamenti

L’invio dell’avviso bonario (comunicazione di irregolarità) a seguito di controlli automatizzati sulla liquidazione delle imposte (articoli 36-bis del Dpr 600/1973 e 54-bis del Dpr 633/1972) non è necessario in caso di omissione o carenza di versamenti. Con questo principio, affermato dalla Cassazione con l’ordinanza 8318/2018 (presidente Chindemi, relatore De Masi), è stata legittimata la cartella di pagamento emessa a seguito di diretta iscrizione a ruolo dei versamenti mancanti.

La vicenda trae origine dal ricorso contro la cartella non preceduta da avviso bonario, emessa a seguito di un controllo formale del modello Unico 2005. L’amministrazione finanziaria aveva proceduto alla diretta iscrizione a ruolo delle imposte indicate in dichiarazione ma non correttamente liquidate.

Nel ricorso in Ctp, il contribuente aveva ottenuto una riduzione delle sanzioni, nonostante i giudici di primo grado si fossero pronunciati a favore della regolarità della cartella impugnata. Successivamente, nel giudizio di appello, la Ctr ha poi ristabilito l’iniziale pretesa erariale indicata nella cartella di pagamento. I giudici regionali, in linea con il disposto dell’articolo 6, comma 5, della legge 212/2000 (Statuto del contribuente), hanno ritenuto l’invio dell’avviso bonario doveroso solo al sussistere di incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione, ipotesi non ricorrente in caso di omessi versamenti.

Il contribuente ha presentato ricorso per Cassazione, lamentando che nel caso esaminato l’esclusione dell’obbligo di invio dell’avviso bonario era in contrasto con il principio di collaborazione fra cittadino e amministrazione finanziaria. Inoltre, l’assenza della comunicazione di irregolarità aveva precluso il pagamento delle sanzioni nella misura agevolata prevista dell’articolo 2, comma 2, del Dlgs 462/1997.

La Cassazione, nel condividere la decisione della Ctr, ha giudicato legittima la cartella di pagamento e infondate le doglianze della parte ricorrente sulla perdita dell’opportunità di pagare in misura ridotta le sanzioni. Il collegio di legittimità ha negato la sussistenza di un obbligo generalizzato in capo all’amministrazione finanziaria di comunicare gli esiti dei controlli automatici. Ha, invece, ritenuto necessario l’invio dell’avviso bonario solo in caso di determinazione di un risultato diverso rispetto a quello indicato nella dichiarazione.

La Suprema corte ha ribadito nelle proprie motivazioni dei principi già esposti in precedenti giudizi di legittimità. La comunicazione di irregolarità prevista dall’articolo 36-bis del Dpr 600/1973 non persegue lo scopo di realizzare un’interlocuzione fra amministrazione finanziaria e contribuente, ma è finalizzata ad evitare la reiterazione di errori e consentire la regolarizzazione di inesattezze materiali e formali (fra le altre, sentenze 13759/2016 e 8342/2012).

Infine, nei casi in cui il legislatore ha previsto la necessità dell’avviso bonario, i giudici di legittimità hanno comunque ritenuto la sua omissione una mera irregolarità, tale da non comportare la nullità dell’iscrizione al ruolo e degli atti successivi (sentenze 13759/2016, 12023/2015 e 3366/2013). In questo caso, la Suprema corte ha riconosciuto al contribuente il diritto alla definizione agevolata delle sanzioni prevista dall’articolo 2, comma 2, del Dlgs 462/1997, esercitabile al ricevimento della cartella di pagamento non preceduta da comunicazione d’irregolarità.

Fonte “Il sole 24 ore”

Le regole formali non frenano il diritto alla detrazione Iva

Il diritto alla detrazione non può essere scalfito da eventuali formalismi. In quanto cardine del sistema comune dell’Iva, il rispetto delle norme che disciplinano gli aspetti formali del suo esercizio non può minare al suo riconoscimento in capo al contribuente, sussistendo i requisiti sostanziali.

La Corte di Giustizia Ue ha ancora una volta l’occasione di ribadire la centralità del diritto alla detrazione dell’Iva, che sul piano fattuale potrebbe essere compromesso laddove al contribuente sia negata la possibilità di rettificare le proprie dichiarazioni relative all’Iva per i periodi d’imposta che sono già stati sottoposti a verifica dagli organi fiscali (si veda la sentenza C-81/2017 depositata ieri). Una siffatta limitazione, che troverebbe giustificazione nella necessità di tutelare l’unicità della verifica fiscale, darebbe luogo a ben altre, e più gravi, conseguenze in termini di lesioni dei principi che sono alla base della disciplina dell’imposta sul piano unionale.

Ad essere compromesso sarebbe innanzitutto il principio di effettività: un ordinamento (come quello rumeno) che preveda in caso di verifica fiscale un termine di decadenza dall’esercizio del diritto più breve (fino a negarlo del tutto) rispetto a quello ordinario (in Romania è di cinque anni) priva di fatto il contribuente della possibilità di rettificare le sue dichiarazioni relative al periodo d’imposta interessato dall’eventuale verifica, anche se il termine di decadenza previsto non è ancora decorso.

Risulterebbe, inoltre, violata la neutralità dell’Iva, principio che esige, invece, che la detrazione a monte dell’imposta sia concessa qualora i requisiti sostanziali siano soddisfatti, anche se alcuni requisiti formali sono disattesi.

Ed infine sarebbe pure violato il principio di proporzionalità. In questo senso, i giudici unionali legittimano sì gli interventi del legislatore domestico diretti ad introdurre delle sanzioni nel caso in cui non siano rispettati gli obblighi formali connessi al sistema dell’Iva, ma la sanzione non può tradursi nel diniego assoluto del diritto a detrarre (cosa che invece può verificarsi nelle ipotesi di rischio di frode o di danno all’Erario).

A questo punto non si può fare a meno di evidenziare che, in tal caso, la norma italiana sembra essere perfettamente allineata con la pronuncia dei giudici europei. Considerando la facoltà, concessa ai fini Iva dall’articolo 8, commi da 6-bis a 6-quinquies del Dpr 322/1998 al contribuente, di ritrattare sia a suo favore che sfavore il contenuto della dichiarazione entro i termini di decadenza dell’azione di accertamento, è chiaro che né un’eventuale verifica fiscale prima che sia decorso in termine né addirittura un contenzioso potrebbe ostacolare l’esercizio del diritto a detrarre, in quanto «resta ferma in ogni caso per il contribuente la possibilità di far valere, anche in sede di accertamento e i giudizio, gli eventuali errori, di fatto e di diritto, che abbiano inciso sulla sua obbligazione tributaria».

Fonte “Il sole 24 ore”

Dichiarazione Iva, correzione liquidazioni con effetti su più quadri

di Pierpaolo Ceroli e Luisa Miletta

Il carnet di possibilità per correggere le comunicazioni delle liquidazioni periodiche Iva ci era stato offerto dalla risoluzione 104/E/2017 la quale aveva dato il via libera al contribuente che volesse regolarizzazione i dati contenuti nelle comunicazioni periodiche seguendo una delle seguenti strade: ripresentando il relativo modello; indicando i dati corretti direttamente nella dichiarazione annuale Iva oppure presentando una dichiarazione integrativa.

Tra queste chance quella meritevole di rilievo, in particolare, è l’utilizzabilità della dichiarazione annuale Iva, sulla quale peraltro si sofferma anche Assonime nella circolare 9 diffusa il 19 aprile 2018.

Assonime riflette, infatti, che sostanzialmente l’introduzione delle comunicazioni in parola ha prodotto i seguenti effetti sulla dichiarazione Iva:
•rendere inutile la compilazione del quadro VH, per quei contribuenti che hanno correttamente gestito le comunicazioni delle liquidazioni Iva;
•consentire a quei contribuenti che hanno commesso errori o hanno omesso la trasmissione delle comunicazioni di sanare tali errori o omissioni mediante la compilazione del quadro VH.

Proprio per quest’ultimo scopo tra le novità della modulistica 2018 ai fini Iva vi sono le modifiche al quadro VH «Variazioni delle comunicazioni periodiche» prevedendone la compilazione esclusivamente qualora si intenda inviare, integrare o correggere i dati omessi, incompleti o errati delle suddette comunicazioni Lipe.

Il quadro VH accoglie l’importo del credito o debito Iva, per ciascun mese (per i soggetti che liquidano l’imposta mensilmente) o trimestre (per i soggetti che liquidano l’imposta trimestralmente), qualora si siano commessi errori nella compilazione del modello VP che incidono sulla determinazione della stessa (righi da VP4 a VP14).

Si precisa che vanno indicati tutti i dati richiesti, compresi quelli non oggetto di invio, integrazione o correzione. Nell’ipotesi particolare in cui l’invio, l’integrazione o la correzione comporti la compilazione senza dati del presente quadro (ad esempio, il risultato delle liquidazioni è pari a zero) occorre comunque barrare la casella VH posta in calce al quadro VL nel riquadro «Quadri compilati». Qualora i dati omessi, incompleti o errati non rientrino tra quelli da indicare nel presente quadro, questo non va compilato.

Da ultimo si tengano presente i profili sanzionatori connessi. Infatti, il soggetto passivo per gli errori o le omissioni compiuti è tenuto al pagamento della sanzione amministrativa, da 500 a 2mila euro in base a quanto disposto dall’articolo 11, comma 2-ter, del decreto legislativo 471 del 1997, eventualmente ridotta per effetto del ravvedimento operoso; la sanzione deve essere versata con il modello F24, indicando l’anno della violazione e il codice tributo 8911.

Fonte “Il sole 24 ore”

Modello 730, due vie per comunicare alle Entrate la «sede telematica»

Quella della circolare 4/E/2018 del 12 marzo 2018 sull’assistenza fiscale del modello 730/2018 è una di quelle letture che anche gli addetti ai lavori difficilmente affrontano con piacevole disinvoltura, per cui viene di solito “posticipata” a data da destinarsi, salvo poi ricordarsi che ci può essere d’aiuto al sopraggiungere del primo problema.
Problema che comunque puntualmente si verifica, vista la complessità dell’intero processo dell’assistenza fiscale, quando, per esempio, vi è una variazione del sostituto in corso d’anno, un’operazione straordinaria del sostituto stesso o semplicemente quando al dipendente o al pensionato non arriva il conguaglio tanto atteso.
Un processo che comunque a livello operativo – rispetto a quando i modelli 730-4 venivano recapitati ai sostituti d’imposta in forma cartacea, per posta ordinaria o con raccomandata – ha beneficiato in modo sostanziale della completa informatizzazione, che si è di recente completata con la consegna telematica ai sostituti d’imposta di tutti i modelli 730-4, compresi quelli delle dichiarazioni da loro stessi tramitate nell’ambito dell’assistenza diretta.
Informatizzazione in cui hanno avuto ruolo attivo molte delle aziende associate ad AssoSoftware, produttrici delle procedure e delle infrastrutture informatiche in uso ai Caf e ai professionisti, nonché ai sostituti d’imposta, per l’intera gestione del processo, dalla compilazione del modello 730 effettuata a partire della dichiarazione precompilata, fino alla busta paga.
Proviamo quindi ad esaminare, in modo necessariamente sintetico, alcune delle novità contenute nella circolare sull’assistenza fiscale, in considerazione del fatto che la citata circolare è articolata su ben nove capitoli che trattano molteplici argomenti.
In questo primo appuntamento ci occupiamo di alcuni aspetti di dettaglio relativi alla comunicazione da parte dei sostituti d’imposta all’AdE, della “Sede telematica” per la ricezione dei flussi dei modelli 730-4 di conguaglio, attività di cui di solito è incaricato chi nell’azienda è responsabile della gestione del personale. Nel successivo appuntamento ci occuperemo di alcune situazioni particolari che si possono incontrare durante le operazioni di conguaglio.


Comunicazione della “Sede telematica” per la ricezione dei flussi 730-4

Va ricordato che nell’ambito delle attività di assistenza fiscale, sia i Caf ed i professionisti che prestano assistenza indiretta, che (dallo scorso anno) anche i sostituti d’imposta che prestano assistenza diretta, devono trasmettere in via telematica all’agenzia delle Entrate il risultato finale delle dichiarazioni (730-4), unitamente alle dichiarazioni dei redditi presentate dai contribuenti (730).
A seguire l’agenzia delle Entrate mette a disposizione dei sostituti d’imposta i dati dei modelli 730 4 relativi a tutte le dichiarazioni presentate, indipendentemente dalla modalità di presentazione utilizzata dal contribuente (Caf o professionista, sostituto, FiscOnline).
Affinché la messa a disposizione dei dati dei modelli 730-4 da parte dell’AdE ai sostituti d’imposta possa aver luogo, questi ultimi devono preventivamente comunicare all’AdE la sede telematica (propria o di un intermediario fiscale) dove desiderano ricevere i relativi flussi telematici.
Ciò può avvenire utilizzando:
• il quadro CT presente all’interno della Certificazione Unica (CU), esclusivamente qualora la comunicazione venga effettuata per la prima volta;
• il modello «Comunicazione per la ricezione in via telematica dei dati relativi ai modelli 730-4 resi disponibili dall’Agenzia delle Entrate» (di seguito CSO) per effettuare le variazioni dei dati precedentemente comunicati o per effettuare la comunicazione per la prima volta qualora non si sia utilizzato il quadro CT.
Prima di passare all’illustrazione delle modalità di compilazione del quadro CT e del modello CSO, segnaliamo un interessante passaggio della circolare che riguarda la procedura da mettere in atto per poter esercitare la revoca della delega da parte dell’intermediario (qualora il sostituto d’imposta non vi abbia colposamente provveduto), procedura che illustriamo nell’ultimo paragrafo di questa breve disamina.


Comunicazione effettuata con il quadro CT

Il quadro CT della Certificazione Unica è riservato ai sostituti d’imposta che trasmettono almeno una certificazione di redditi di lavoro dipendente e che non hanno mai presentato, a partire dal 2011, il modello CSO.
Il quadro CT deve essere compilato per ogni fornitura di Certificazioni Uniche, qualora il sostituto d’imposta effettui più invii contenenti almeno una certificazione di redditi di lavoro dipendente. In questo caso, ai fini della messa a disposizione dei risultati contabili dei dipendenti, sono acquisiti la “Sede telematica” e gli altri dati presenti nel quadro CT contenuti nell’ultimo invio effettuato nel periodo ordinario di presentazione delle CU.
Tenuto conto che le CU devono essere presentate entro il 7 marzo e che sono considerate tempestive le CU inviate entro cinque giorni dalla ricevuta di scarto, al fine di gestire i processi relativi all’acquisizione dei dati delle comunicazioni per la ricezione in via telematica dei modelli 730-4, dopo la prima metà del mese di marzo non è consentito inserire all’interno della Certificazione Unica il quadro CT. Pertanto, sono presi in considerazione i dati contenuti nell’ultimo invio effettuato entro la suddetta data.
Comunicazione effettuata con il modello CSO

Il modello CSO, approvato con il provvedimento del direttore dell’agenzia delle Entrate del 22/2/2013, deve essere utilizzato dai sostituti d’imposta che:

• non hanno presentato, a partire dal 2011, l’apposito modello CSO e che non hanno trasmesso il quadro CT, quali, ad esempio, i sostituti d’imposta non tenuti alla presentazione delle Certificazioni Uniche;

• intendono variare i dati già comunicati a partire dal 2011 con il modello CSO ovvero con il quadro CT della Certificazione Unica;

• intendono revocare la comunicazione, in caso di cessazione dell’attività con conseguente perdita della qualifica di sostituto d’imposta.

Qualora presentato la prima volta, il modello CSO produce effetti dal giorno successivo a quello di messa a disposizione della ricevuta di accoglimento della comunicazione stessa, con riferimento ai risultati contabili per i quali non risulti già fornita la ricevuta attestante la mancata messa a disposizione dei risultati contabili. Nel modello è richiesta l’indicazione del numero di protocollo del modello 770 presentato dal sostituto d’imposta nell’anno precedente a quello di inoltro della comunicazione CSO.

Il modello CSO deve essere altresì utilizzato dai sostituti d’imposta quando intendono variare i dati già comunicati a partire dal 2011 con il modello CSO o a partire dal 2015 con il quadro CT della Certificazione Unica.
In particolare può essere utilizzato:
• per modificare la sede telematica propria o dell’Intermediario già scelto;
• per modificare l’Intermediario con altro Intermediario;
• per modificare l’utenza telematica da Fisconline a Entratel;
• per modificare l’Intermediario con il sostituto stesso o viceversa.
In caso di comunicazione di variazione dei dati già inviati con il modello CSO, è richiesta l’indicazione del numero di protocollo, composto di 23 cifre, che è stato attribuito all’ultima comunicazione trasmessa dal sostituto d’imposta, e regolarmente acquisita, che si intende variare.
Diversamente, se si intendono variare i dati già trasmessi con il quadro CT è necessario indicare il numero di protocollo telematico dell’ultimo file contenente il predetto quadro, validamente presentato (composto da 17 caratteri e seguito dal numero convenzionale “999999”).
I citati numeri di protocollo sono rilevabili, oltre che dalle relative ricevute di trasmissione, anche dal cassetto fiscale del sostituto d’imposta.
I predetti dati possono anche essere richiesti a un qualunque ufficio dell’agenzia delle Entrate, mediante richiesta sottoscritta dal sostituto d’imposta persona fisica o dal rappresentante legale della società o ente.
A livello temporale è sempre possibile trasmettere il modello CSO per poter ricevere i risultati contabili dei propri percipienti, salvo nel periodo di trasmissione delle CU in cui è sospesa la trasmissione della comunicazione CSO. La sospensione inizia il 23 gennaio e termina il 25 marzo.
Il modello CSO deve essere utilizzato anche qualora il sostituto cessi l’attività, con conseguente perdita della qualifica di sostituto d’imposta e chiusura di tutte le partite IVA a lui intestate. Per indicare questa circostanza deve compilare l’apposita sezione del modello CSO deputata ad accogliere la revoca della comunicazione.
Revoca della delega da parte dell’Intermediario

Qualora l’intermediario delegato cessi dall’incarico e il sostituto d’imposta non comunichi la circostanza con il modello CSO, l’intermediario cessato dall’incarico può comunicare all’agenzia delle Entrate l’avvenuta risoluzione del rapporto di delega seguendo una procedura molto particolare, descritta nella circolare.
In sintesi l’Intermediario deve inviare dal proprio indirizzo di posta elettronica certificata (Pec) una comunicazione all’indirizzo agenziaentratepec@pce.agenziaentrate.it indicando nel campo dell’oggetto del messaggio il testo «Comunicazione di cessazione dall’incarico di ricevere i modelli 730-4».
La comunicazione deve contenere il codice fiscale dell’intermediario e un suo recapito telefonico. Inoltre devono essere indicati il codice fiscale del sostituto d’imposta, il numero di protocollo della comunicazione contenente la delega alla ricezione dei modelli 730-4 (CSO o CT) e la data di cessazione dall’incarico. In allegato alla e-mail deve essere inviata copia della lettera di cessazione dall’incarico indirizzata al sostituto d’imposta da cui si evinca la data certa di trasmissione.
L’agenzia delle Entrate, accertata la regolarità della richiesta pervenuta, contatterà il sostituto d’imposta attraverso messaggio all’indirizzo di posta elettronica certificata rilevabile dall’Ini Pec (Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata, istituito dal ministero dello Sviluppo economico), per invitarlo a presentare la comunicazione di variazione.
Al riguardo, la circolare specifica che quella sopra descritta è l’unica modalità possibile, in quanto, al fine di comunicare all’agenzia delle Entrate la cessazione del rapporto di delega, l’intermediario non può utilizzare la sezione del modello CSO deputata ad accogliere la revoca della comunicazione e non può neppure avvalersi dell’istituto del diniego dei risultati contabili disciplinato dal provvedimento del direttore dell’agenzia delle Entrate del 14/4/2017 e relativo alle ipotesi di dipendenti con rapporti mai stati in essere o cessati.

Fonte “Il sole 24 ore”

Dichiarazione Iva, le correzioni nel quadro VH chiamano a versare la sanzione

di Andrea Taglioni

L’avvicinarsi alla scadenza della presentazione della dichiarazione annuale Iva, fissata per il prossimo 30 aprile, è l’occasione per verificare la correttezza dei dati trasmessi con le comunicazione relative alle liquidazioni periodiche Iva e rimediare ad eventuali errori commessi. Ciò in considerazione del fatto che l’invio delle liquidazioni periodiche, pur configurandosi quale adempimento propedeutico alla dichiarazione annuale Iva, rimane in ogni caso un adempimento diverso ed autonomo rispetto a quest’ultima.

Come precisato dall’agenzia delle Entrate con la risoluzione 104/E del 2017, l’omessa presentazione della liquidazione periodica, così come la sua trasmissione con dati errati o inesatti, può essere regolarizzata inviando una nuova comunicazione correttiva, ovvero, direttamente in sede di presentazione della dichiarazione Iva utilizzando il quadro VH. Quindi, qualora la regolarizzazione degli errori o l’invio dei dati omessi avvenisse con la dichiarazione annuale, verrebbe meno l’obbligo comunicativo. A prescindere dalla natura qualitativa o quantitativa della violazione, l’omessa, incompleta o infedele comunicazione dei dati delle liquidazioni periodiche Iva è punita con la sanzione amministrativa da 500 a 2mila euro, con la possibilità di avvalersi del ravvedimento operoso.

Ma le conseguenze in termini sanzionatori potrebbero variare in funzione delle modalità con cui si procede alla regolarizzazione. La possibilità per il contribuente di regolarizzare la mancata o errata ed inesatta comunicazione dei dati periodici direttamente correggendo quest’ultima o in sede di dichiarazione, impatta in maniera diversa sotto l’aspetto sanzionatorio.

Potrebbe accadere, ad esempio, che se il contribuente dovesse correggere direttamente le liquidazioni periodiche verrebbero applicate tante sanzioni quante sono le correzioni effettuate. In questo caso, bisognerebbe capire se l’applicazione di tante sanzioni quante sono le violazioni fosse applicabile anche nel caso in cui l’eventuale errore, pur non incidendo sulla determinazione dell’imposta, renderebbe inesatte le comunicazioni successive. Tipica situazione che si potrebbe verificare se l’indicazione di un credito risultasse sbagliato in una comunicazione; questo inciderebbe, infatti, su tutte le liquidazioni successivamente presentate. La rettifica di un credito periodico, però, potrebbe incidere anche sulla determinazione dell’imposta a debito del periodo successivo laddove questo diminuisse per effetto della correzione.

Ma cosa succede se la regolarizzazione avviene compilando il quadro VH? Innanzitutto il soggetto passivo non deve effettuare l’invio della comunicazione periodica e il ravvedimento si effettua versando la sola sanzione ridotta riportando i dati corretti delle liquidazioni negli appositi righi.

Sarebbe interessante capire, anche optando per la correzione in dichiarazione, se ai fini della regolarizzazione fosse sufficiente pagare un’unica sanzione o tante quante sono le violazioni commesse nelle liquidazioni periodiche e regolarizzate compilando il modello VH.
È auspicabile, nonostante gli importanti chiarimenti contenuti nella risoluzione 104/E, che l’agenzia delle Entrate chiarisse, valutando anche la natura della singola violazione e se la stessa arrechi o meno un pregiudizio all’attività di controllo dell’ufficio, se in simili situazioni occorra versare, a prescindere dalla modalità di sanatoria utilizzata, un’unica sanzione o tante quante sono le comunicazioni corrette.

Fonte “Il sole 24 ore”

Diritto annuale, via libera all’aumento del 20% per altre nove Camere di commercio

Arriva il via libera del ministero dello Sviluppo economico all’aumento del 20% del diritto annuale per gli anni 2018 e 2019 per nove Camere di commercio. È quanto prevede il decreto datato 2 marzo 2018 e pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» di ieri . Sono interessate le Camere di commercio di Arezzo, Lucca, Maremma e Tirreno, Massa Cararra, Palermo-Enna, Pisa, Pistoia, Prato e Siena. Un elenco che si va ad aggiungere alle 79 Camere di commercio già autorizzate da un decreto dello scorso anno ad aumentare i diritti del 20% per il triennio 2017-2019.

I rincari sono finalizzati a finanziare una serie di progetti indicati nelle delibere approvate dai Consigli camerali in questione. Anche per questo il Dm Sviluppo economico stabilisce che i soggetti autorizzati sia nella precedente che in questa tornata siano tenuti a presentare un rapporto dettagliato sui risultati dei singoli progetti, allegando la rendicontazione dei costi sostenuti per la realizzazione degli stessi con il visto del presidente del collegio dei revisori. Qualora, invece, le Camere di commercio affidino alle loro aziende speciali o ad unioni regionali la realizzazione di attività o parte di esse relative ai singoli progetti, la rendicontazione di tali risorse dovrà essere inviata alla Camera di commercio con il visto del presidente del collegio dei revisori della azienda speciale o dell’unione regionale.

Il versamento del conguaglio

L’aspetto probabilmente di maggior interesse operativo per le imprese e i professionisti che le assistono riguardano il conguaglio da versare nel caso in cui si sia già provveduto a “pagare” il diritto annuale. Il Dm Sviluppo economico precisa, infatti, che il termine per saldare la differenza entro il versamento degli acconti in scadenza il 30 novembre (ad eccezione delle società il cui periodo d’imposta non coincide con l’anno solare, che effettuano il versamento della seconda rata d’acconto entro l’ultimo giorno dell’undicesimo mese dello stesso periodo d’imposta).

Fonte “Il sole 24 ore”

Vecchi assegni irregolari: vie d’uscita da rivedere

di Nicola Forte

Sotto tiro i “vecchi” assegni senza clausola di non trasferibilità di importo pari o superiore a 1.000 euro: le prime contestazioni del Mef sono già arrivate nelle scorse settimane ed è probabile che aumenteranno. Chi li ha emessi ha violato l’articolo 49 del Dlgs 231/2007 e ora corre il rischio di subire una sanzione di importo variabile tra 3.000 e 50.000 euro. Anche chi ha disatteso la previsione di legge per mera disattenzione, dovrà valutare le alternative offerte dalla stessa normativa per ridurre al minimo la sanzione da versare. Nei casi migliori potrebbero anche non dovere niente al Mef.

L’origine del problema

L’obbligo di emissione degli assegni con l’indicazione della clausola di non trasferibilità è in vigore da oltre 10 anni risiede, in particolare, nel citato articolo 49 del Dlgs 231/2007. Il limite attuale di 1.000 euro è stato previsto dal Dl 201/2011.

Un assegno trasferibile, quindi privo di tale clausola, è nella sostanza assimilabile a un titolo al portatore. Può essere pagato a vista a colui che lo esibisce per l’incasso, è equiparabile al denaro contante e quindi deve essere sottoposto a limitazioni con finalità di prevenzione e contrasto del riciclaggio.

Le banche dal 30 aprile del 2008 rilasciano i carnet di assegni con l’indicazione prestampata della dicitura «non trasferibile». Di conseguenza, i titoli non possono circolare liberamente mediante girata e potranno soltanto essere presentati in banca per l’incasso dal beneficiario.

Le possibili violazioni

In primo luogo, potrebbe essere stato utilizzato un assegno tratto da un “vecchio” carnet rilasciato dalla banca prima del 30 aprile del 2008. In questa ipotesi è certo che la banca non avrà apposto sul titolo la dicitura «non trasferibile». Pertanto, se anche la clausola non è stata apposta dal traente per mera disattenzione e l’assegno è stato emesso per un importo pari o superiore a 1.000 euro, la violazione è sicuramente commessa.

Il limite attualmente in vigore è però variato nel tempo. In passato era pari a 12.500 euro, poi diminuito, in seguito aumentato per poi diminuire ancora fino a raggiungere la soglia attuale di 1.000 euro. È dunque possibile che sia conservato nel cassetto un vecchio carnet di assegni con l’indicazione dell’obbligo di apporre la clausola «non trasferibile» per i titoli emessi di importo pari o superiore a 12.500 euro.

In questo caso, l’avvertenza rischia ancor di più di trarre in inganno il traente perché si deve fare riferimento al limite in vigore al momento di emissione dell’assegno e non al momento del rilascio del carnet. Il problema, comunque, riguarda solo l’utilizzo dei vecchi assegni. Da molti anni, infatti, i correntisti devono richiedere espressamente alla banca il rilascio di carnet di assegni “liberi”, cioè senza l’indicazione della clausola. In questo caso è necessario pagare un’imposta di bollo pari a 1,50 euro per ogni assegno.

L’oblazione

La possibilità di avvalersi dell’oblazione è indicata nello stesso atto di contestazione. Dal 4 luglio 2017 le sanzioni sono state elevate tra un minimo di 3mila e un massimo di 50mila euro. Prima di allora la sanzione era variabile e commisurata all’importo dell’assegno emesso senza l’apposizione della clausola di non trasferibilità: tra l’1% e il 40% dell’importo pagato con l’assegno trasferibile, con un minimo di 3mila euro.

L’importo della sanzione minima era dunque equivalente a quella applicabile oggi, ma con effetti diversi sul calcolo dell’oblazione. L’oblazione consente di pagare due volte il minimo della sanzione prevista. Tuttavia in passato si riteneva che il computo dell’oblazione fosse pari al 2% dell’importo dell’assegno. La base di partenza era comunque rappresentata dall’importo del titolo e non dal minimo di 3mila euro: ciò in quanto la sanzione – tra l’1% e il 40% – doveva essere comunque parametrata all’importo. Attualmente, invece, la sanzione è completamente scollegata dall’importo dell’assegno e quindi l’oblazione va commisurata all’importo della penalità minima di 3mila euro.

Si consideri ad esempio il caso in cui sia stato emesso un assegno libero per 4mila euro. La sanzione minima, secondo le vecchie regole, era comunque pari a 3mila euro, ma il calcolo dell’oblazione non teneva conto del minimo ed era calcolata in misura pari a 2% dell’assegno: quindi nell’esempio sarebbe risultata pari a 80 euro. Ora, invece, l’importo è di 6mila euro (due volte il minimo) se si vuole evitare il rischio di una sanzione molto elevata, fino ai 50mila euro. L’oblazione, quindi, risulta oggi poco conveniente.

Fonte “Il sole 24 ore”

Società estinta in pendenza del giudizio. Il Fisco si rivolge agli ex soci

Cassazione Tributaria, sentenza depositata il 19 aprile 2018

In tema di contenzioso tributario, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9672/2018, ha ribadito che, qualora l’estinzione della società di capitali, all’esito della cancellazione dal Registro delle imprese, intervenga in pendenza del giudizio di cui la stessa sia parte, l’impugnazione della sentenza resa nei riguardi della società deve essere rivolta agli (ex) soci, in quanto il limite di responsabilità degli stessi di cui all’art. 2495 C.c. non incide sulla loro legittimazione processuale ma, al più, sull’interesse ad agire del Fisco, interesse che, tuttavia, non è di per sé escluso dalla circostanza che i soci non abbiano partecipato utilmente alla ripartizione finale, potendo, ad esempio, sussistere beni e diritti che, sebbene non ricompresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, si sono trasferiti ai soci.

La controversia riguarda una cartella di pagamento ex art. 36-bis d.P.R. n. 600/73 emessa nei confronti di una S.r.l. che è cessata dopo l’emissione della sentenza che ha chiuso il secondo grado di giudizio. Poiché tale sentenza ha dato integralmente torto all’Agenzia delle entrate, la difesa erariale ha proposto impugnazione presso la Suprema Corte, notificando il ricorso sia al liquidatore sia agli (ex) soci, i quali si sono tutti costituiti nel giudizio di legittimità eccependo il proprio difetto di legittimazione passiva.

Ebbene, gli Ermellini hanno accolto l’eccezione soltanto rispetto al liquidatore. Mentre, per la parte riguardante gli (ex) soci, il ricorso del Fisco è stato dichiarato ammissibile (oltreché fondato nel merito).

  • I Massimi giudici non hanno ritenuto di alcuna rilevanza la prova fornita dai soci di non aver percepito nulla in sede di bilancio finale di liquidazione.

Gli Ermellini, con la sentenza in esame, prendono le distanze dal loro precedente orientamento (fra le altre, Cass. 23916/2016) secondo il quale «gli ex soci possono ritenersi subentrati nel lato passivo nel rapporto d’imposta solo se e nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione» e, inoltre, «l’accertamento di tali circostanze costituisce presupposto della assunzione, in capo al socio, della qualità di successore e, correlativamente, della legittimazione ad causam ai fini della prosecuzione del processo».

Al contrario, è corretto ritenere – come evidenziato dal più recente indirizzo giurisprudenziale in materia (Cass. n. 9094/2017, seguita da Cass. 15035/2017) che rinvia all’insegnamento delle Sezioni Unite (sentenze nn. 6070 e 6072 del 2013) – che:

  • «i soci sono destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla società cancellata (ma non definiti all’esito della cancellazione) a prescindere dall’aver goduto o meno di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione». E difatti la possibilità di sopravvenienze attive o anche semplicemente la possibile esistenza di beni e diritti non contemplati nel bilancio «non consentono di escludere l’interesse dell’Agenzia a procurarsi un titolo nei confronti dei soci, in considerazione della natura dinamica dell’interesse ad agire, che rifugge da considerazioni statistiche allo stato degli atti. E l’esistenza di questi beni o crediti comporta, come pure rilevato dalle Sezioni Unite, che tra i soci medesimi s’instauri “un regime di contitolarità e di comunione indivisa”».

Alla luce di questi rilievi, dunque, il ricorso di legittimità dell’Agenzia fiscale, nei confronti degli (ex) soci, è stato dichiarato ammissibile dal Supremo Collegio ed esaminato nel merito; esame che si è chiuso con il rinvio della causa alla CTR della Puglia, per nuovo giudizio, salvo che per le sanzioni irrogate. Gli Ermellini soltanto su questo punto hanno ritenuto di non poter condividere gli assunti dell’Amministrazione finanziaria, posto che, ex art. 8 D.lgs. n. 472/1997, le sanzioni non sono trasmissibili ai soci della società estinta«e ciò, a maggior ragione, a fronte del principio della riferibilità esclusiva alla persona giuridica delle sanzioni amministrative tributarie introdotto dall’art. 7, comma 1, d.l. n. 269 del 2003, conv. nella l. n. 326 del 2003».

Autore: Paola Mauro
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Detrazione Iva e deducibilità del costo dei carburanti solo con pagamenti tracciabili

Dal primo luglio è necessario utilizzare sistemi di pagamento tracciati per l’acquisto di carburanti, al fine di poter detrarre l’Iva e dedurre il costo, nei limiti consentiti dalla norma.

Dopo che la legge di Bilancio 2018, precisamente l’articolo 1, comma 917 della legge 205/2017 , ha introdotto importanti novità in tema di cessione di carburanti per autotrazione, con provvedimento del 4 aprile scorso , il Direttore dell’agenzia delle Entrate ha individuato i mezzi di pagamento che dal primo luglio prossimo potranno essere utilizzati, dai soggetti passivi d’imposta, al fine di garantire loro la detraibilità Iva e la deducibilità del costo.

Ma andiamo con ordine. La legge di Bilancio 2018 ha apportato notevoli modifiche in tema di fatturazione, prescrivendo l’utilizzo obbligatorio della fatturazione elettronica per tutti i contribuenti, a partire dal primo gennaio 2019. Da tale data, le fatture elettroniche, e relative variazioni, dovranno essere emesse per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate tra soggetti residenti, stabiliti o identificati nel territorio dello Stato e, quindi, anche nei confronti di consumatori finali.

Un’importante anticipazione della fatturazione elettronica, che è probabilmente destinata a subire uno slittamento, riguarda la cessione di benzina e gasolio. Infatti, la legge di Bilancio 2018 prescrive che, a partire dal primo luglio di quest’anno, i soggetti che cedono i beni appena indicati, sono obbligati a emettere fattura elettronica qualora il cessionario sia un soggetto passivo d’imposta.

Nel caso in cui, invece, il cessionario non sia un soggetto passivo d’imposta bensì un consumatore finale, in base a quanto disposto dal Dpr 696/1996, come modificato sempre dalla legge di Bilancio 2018, resta la facoltà da parte del cedente di non emettere alcuna certificazione. In questo caso il cedente ha però l’obbligo di memorizzazione elettronica e trasmissione telematica dei corrispettivi all’agenzia delle Entrate, sempre a decorrere dal primo luglio 2018.

Sul fronte del soggetto passivo d’imposta, cessionario del carburante, la legge di Bilancio 2018 collega, dal primo luglio, la detrazione dell’imposta e la deducibilità del costo, nei limiti concessi dalle rispettive normative, al pagamento del corrispettivo attraverso sistemi tracciabili e, quindi, non più in contanti.

Con il richiamato provvedimento del 4 aprile scorso, sono stati individuati i mezzi di pagamento dei carburanti e lubrificanti per autotrazione, che consentono, ai soggetti passivi d’imposta, la detrazione dell’Iva e la deducibilità del costo, sempre nei limiti concessi dalla norma. I mezzi di pagamento «ammessi» e considerati idonei a provare l’avvenuta effettuazione delle operazioni sono: gli assegni, bancari e postali, circolari e non, i vaglia cambiari e postali, i mezzi di pagamento elettronici tra cui, a titolo esemplificativo, l’addebito diretto, il bonifico bancario o postale, il bollettino postale, le carte di debito, di credito, prepagate ovvero altri strumenti di pagamento elettronico disponibili, che consentano anche l’addebito in conto corrente.

Dalla data del primo luglio 2018 la scheda carburanti non sarà, quindi, più utilizzabile stante l’abrogazione dell’intero Dpr 444/1997 che la disciplinava.

Fonte “Il sole 24 ore”

Crediti da quadro RU senza obbligo del visto di conformità

Visto e compensazioni sono due “concetti” che fiscalmente vanno spesso “a braccetto”, ciò in quanto, in alcuni casi, per compensare crediti e debiti erariali occorre “vistare”.

La normativa in tema sia di compensazioni che di visto di conformità ha subito radicali trasformazioni con l’entrata in vigore della Manovrina, Dl 50/2017, che con l’articolo 3 ha modificato l’articolo 1 comma 574 della legge 27 dicembre 2013 n. 147, prevedendo l’obbligo di richiedere l’apposizione del visto di conformità, ex articolo 35 comma 1 lettera a) del Dlgs 241/1997, da parte di un soggetto abilitato, in caso di utilizzo in compensazione, mediante il modello F24, di crediti di importo superiore a 5.000 euro annui, derivanti da:

•imposte sui redditi (Irpef e Ires) e relative addizionali;

•Irap;

•ritenute alla fonte;

•imposte sostitutive delle imposte sui redditi.

Tra questi non rientrano i crediti dichiarati nel quadro RU, toccati dalla Manovrina solo per quanto riguarda l’obbligo di utilizzo dei servizi telematici messi a disposizione dalle Entrate in caso di compensazione orizzontale, come sancito dal comma 3 dell’articolo 3.

Riguardo al visto, invece, né l’articolo 1 comma 574 della legge 147/2013, né l’articolo 17 Dlgs 241/1997, norme sulla compensazione verticale cui i crediti da RU soggiacciono, li menzionano tra quelli obbligati all’apposizione per importi superiori a 5 mila euro.

Leggendo la circolare 13/E/2017 si può giungere alla stessa conclusione: infatti nel paragrafo 4.8.2 viene ricordato che «Con la circolare 28/E del 25 settembre 2014 è stato, inoltre, chiarito che sono esclusi dall’obbligo di apposizione del visto di conformità i crediti il cui presupposto non sia direttamente riconducibile alle imposte sui redditi e relative addizionali, quali i crediti aventi natura strettamente agevolativa».

Pertanto, crediti come il c.d. “carbon tax” (per i benefici sul gasolio da autotrazione) oppure il più gettonato credito di imposta per attività di ricerca e sviluppo, non dovranno passare al vaglio degli intermediari che appongono i visti di conformità nelle dichiarazioni da cui gli stessi emergono.

Anche i casi di compensazione interna o verticale, cioè quella che consente di recuperare crediti sorti in periodi precedenti con debiti della stessa imposta, non soggiacciono all’obbligo di apposizione del visto di conformità come chiarito da tempo dalla circolare 28/E/2014. A tale considerazione si aggiunga l’ultimo chiarimento dell’Agenzia in tema di compensazioni effettuate con i codici tributo «1627», «1628», «1629», «1669», «1671», «6781», «6782» e «6783».

In merito a tali imposte l’Agenzia, nel corso di Telefisco, aveva spiegato che i crediti utilizzabili in compensazione tramite F24 con i codici tributo «1627», «1628», «1629», «1669» e «1671» sono crediti pur se esposti nel modello F24, possono essere utilizzati in compensazione esclusivamente ai fini del pagamento delle ritenute e nei limiti del relativo importo. Altri utilizzi in compensazione non sono ammessi e di conseguenza, trattandosi di compensazioni di tipo esclusivamente interno, il limite di 700mila euro annui non si applica.

Analogamente, non si applica il limite di compensabilità di 700mila euro ai crediti di cui ai codici tributo 6781, 6782 e 6783 (emergenti dalla dichiarazione), se utilizzati in compensazione ai fini del pagamento di ritenute e imposte sostitutive. Detto limite si applica se, invece, tali crediti sono utilizzati ai fini del pagamento di altri debiti fiscali o contributivi.

Fonte “Il sole 24 ore”

Il modello Redditi limita l’integrativa

L’utilizzo del credito emergente da un’integrativa ultrannuale «a favore», derivante dalla correzione di un errore contabile, non incontra il vincolo temporale alla compensazione prescritto dal comma 8-bis dell’articolo 2 del Dpr n. 322/98, ma sconta comunque una limitazione all’utilizzo «inventata» dalle istruzioni ai modelli dichiarativi.

Questo credito, infatti, può essere liberamente utilizzato con modello F24 sino al termine del periodo d’imposta in cui è presentata la dichiarazione integrativa; successivamente, la parte non utilizzata entra nella liquidazione dell’imposta di periodo e, quindi, si mescola con le risultanze emergenti dalla dichiarazione relativa al periodo d’imposta in cui è stata effettuata la correzione.

Non è facile raccapezzarsi nel mosaico dei possibili comportamenti emergenti dalle dichiarazioni integrative ai fini dei redditi e dell’Irap. Occorre in primo luogo distinguere tra integrative a sfavore del contribuente (da cui emerge un maggior debito o un minor credito d’imposta, accompagnate generalmente dal ravvedimento operoso) e integrative a favore, da cui solitamente emerge un credito per il contribuente (per altre ipotesi, ad esempio in presenza di perdite fiscali, si veda Il Sole 24 Ore del 26 febbraio scorso).

Limitandosi a queste ultime, il legislatore (con il nuovo testo dell’articolo 2, comma 8-bis, del Dpr n. 322/98) ha distinto tre ipotesi, ciascuna caratterizzata da una diversa disciplina (per l’Iva il riferimento è l’articolo 8, comma 6-ter). Vanno quindi tenute logicamente separate le dichiarazioni integrative a favore:

correttive di un errore fiscale e presentate entro il termine previsto per la trasmissione della dichiarazione successiva a quella errata, nel qual caso il credito emergente è liberamente compensabile in F24 (fatti salvi, ovviamente, gli ordinari vincoli alla compensazione), senza che vi sia un effetto sulla ordinaria dichiarazione di periodo (niente quadro DI);

correttive di un errore fiscale e presentate oltre il termine previsto per la trasmissione della dichiarazione successiva a quella errata, nel qual caso il credito emergente è utilizzabile in compensazione solamente con debiti maturati a partire dal periodo d’imposta successivo a quello in cui è stata presentata l’integrativa. Tale credito deve comparire a quadro DI della ordinaria dichiarazione del periodo in cui avviene la correzione e le istruzioni al modello dichiarativo obbligano ad una prioritaria compensazione di tipo “verticale” nell’ambito della liquidazione dello stesso tributo;

correttive di un “errore contabile”, le quali, in qualunque momento siano presentate (nel rispetto dei termini di accertamento), consentono sempre la compensazione immediata, poiché il comma 8-bis citato disapplica, in questa ipotesi, il vincolo di cui al punto precedente.

Se questo è il quadro, stupisce che le istruzioni al modello Redditi 2018 prevedano che l’utilizzo in compensazione del credito derivante da una integrativa (a favore) che corregge un errore contabile possa avvenire esclusivamente «entro la fine del periodo d’imposta oggetto della presente dichiarazione per compensare importi a debito». Si tratta di una limitazione non prevista dalla norma e che deroga al principio generale che i crediti sono spendibili in F24 sino alla data di presentazione della dichiarazione.

Pertanto, un credito da errore contabile emergente da una integrativa (ultrannuale) presentata nel mese di dicembre 2017 poteva (secondo le istruzioni) essere utilizzato in compensazione solo entro la fine dello scorso anno, mentre l’eventuale residuo, oltre a confluire nel quadro DI del modello Redditi 2018, deve concorrere alla liquidazione dell’imposta di periodo (si veda l’esempio in pagina). Non essendovi un fondamento normativo per questa limitazione, c’è da chiedersi quali siano le conseguenze per chi non si sia comportato in tal modo, ad esempio prima delle istruzioni definitive.

Fonte “Il sole 24 ore”

Imposte anticipate senza indicazione separata nello stato patrimoniale

Eliminata l’area straordinaria del conto economico dalla riforma del Dlgs 139/2015, l’Oic rivede, tra gli altri, il principio contabile Oic 25 dedicato alla rilevazione delle imposte in bilancio. Nella voce 20 del conto economico, titolata «Imposte sul reddito dell’esercizio, correnti, differite e anticipate» (ex 22) confluiscono le poste relative a:
■imposte correnti;
■imposte relative a esercizi precedenti;
■imposte differite e anticipate;

Con riguardo a queste ultime nella voce si ricomprendono:
•con segno positivo, gli accantonamenti al fondo per imposte differite e l’utilizzo delle attività per imposte anticipate;
•con segno negativo, le imposte anticipate e l’utilizzo del fondo imposte differite,
e ciò con riferimento sia alle imposte differite e anticipate dell’esercizio sia a quelle provenienti da esercizi precedenti.

La loro collocazione in bilancio è costituita dalla voce C.II.5-ter (Imposte anticipate) dell’attivo dello Stato patrimoniale per le attività ad esse connesse, mentre le passività relative alla fiscalità differita devono essere iscritte nella voce B.2 (Fondi per imposte, anche differite).

Con riguardo alla rappresentazione delle imposte anticipate nello stato patrimoniale, il paragrafo 19 dell’Oic 25 prevede che «per le imposte anticipate non è fornita l’indicazione separata di quelle esigibili oltre l’esercizio successivo», ciò coerentemente con la relazione al Dlgs 6/2003 che chiarisce che le imposte anticipate non sono dei veri e propri crediti e quindi il concetto di esigibilità non è ad esse applicabile.

Il restyling del principio contabile Oic 25 è stato, però doppio. L’Organismo italiano di contabilità ha emendato in data 29 dicembre 2017 il paragrafo 35 dell’Oic 12 (Composizione e schemi del bilancio d’esercizio) e il paragrafo 30 dell’Oic 25 (Imposte sul reddito) prevedendo che, nell’ambito della voce CII (Crediti) dello stato patrimoniale in forma abbreviata, le società forniscano indicazione separata delle imposte anticipate, al fine di rendere più intellegibile il contenuto della macro voce e dare così un’informazione tecnicamente più appropriata. Infatti, secondo l’Oic, l’iscrizione, nell’ambito del bilancio in forma abbreviata in base all’articolo 2435-bis del codice civile, delle imposte anticipate sotto un’unica voce «Crediti», senza che se ne dia separata evidenza, «determina una commistione di valori di natura eterogenea a nocumento della chiarezza sul contenuto della voce», non essendo le imposte anticipate dei crediti. Questa osservazione ha riflessi anche sul bilancio delle micro imprese che condividono gli schemi con le altre imprese che li redigono secondo l’articolo 2435-bis.

Gli emendamenti in parola si applicano ai bilanci con esercizio avente inizio a partire dal 1° gennaio 2017 o da data successiva. Gli eventuali effetti derivanti dall’applicazione degli emendamenti analizzati devono essere rilevati in bilancio retroattivamente ai sensi dell’Oic 29. Di conseguenza a tali modifiche apportate ai documenti Oic 12 e Oic 25, è stata allineata la nuova tassonomia Xbrl (Pci 2017-07-06) con la distinzione, nello Stato patrimoniale relativo al bilancio abbreviato e nello Stato patrimoniale delle micro imprese, della voce «C.II – Crediti» in tre diverse componenti: crediti entro e oltre l’esercizio successivo, cui si aggiunge la sottovoce «imposte anticipate».

Fonte “Il sole 24 ore”

Induttivo, va provato che la contabilità non è attendibile

Illegittima l’applicazione del metodo induttivo se l’ufficio non prova l’inattendibilità della contabilità e la correttezza dei dati utilizzati per la ricostruzione dei ricavi. Questi i principi contenuti nella sentenza 36/2/2018 della Ctp Reggio Emilia (presidente e relatore Montanari), depositata lo scorso 3 aprile.

La vicenda trae origine dall’impugnazione da parte di una società di un avviso di accertamento con il quale l’ufficio rideterminava induttivamente i ricavi della contribuente. Tale modalità era stata utilizzata in quanto i verificatori contestavano la non coerenza agli studi di settore e una bassa redditività dell’impresa.

La società e i soci, tassati per trasparenza, presentavano distinti ricorsi, poi riuniti, eccependo fondamentalmente l’irrazionalità ed erroneità della metodologia ricostruttiva seguita dall’ufficio.

I giudici hanno ritenuto fondate le doglianze dei contribuenti. Innanzitutto è stato evidenziato come più volte la Cassazione ha confermato la possibilità di procedere ad accertamento induttivo anche in presenza di contabilità formalmente corretta ma complessivamente inattendibile, potendosi, in tale ipotesi, evincere l’esistenza di maggiori ricavi o minori costi in base a presunzioni semplici, purchè qualificate.

Nella specie l’ufficio aveva però completamente eluso l’onere probatorio su di esso gravante, non avendo dato dimostrazione dell’inattendibilità della contabilità della società, elemento ritenuto essenziale per l’applicabilità della metodologia induttiva. L’unico presupposto che si rinveniva in proposito nell’accertamento riguardava infatti la non coerenza rispetto a un indice (coefficiente di ricarico medio) dello studio di settore di riferimento: si trattava però di un unico elemento, che peraltro faceva riferimento ad uno scostamento minimo tra il dato dichiarato e quello prospettato dagli studi di settore. Secondo il collegio, era troppo poco per poter ritenere sostanzialmente inattendibile la contabilità della contribuente.

In ogni caso, ha proseguito la Ctp, anche ritenendo legittima l’applicazione della metodologia induttiva, la pretesa erariale risultava non provata.

La ricostruzione che aveva portato all’individuazione di maggiori ricavi non dichiarati era infatti basata su due elementi in particolare: la percentuale di sfrido e quella di invenduto. L’ufficio assumeva di averle determinate utilizzato una logica equitativa e facendo riferimento a riscontri di altri esercizi similari operanti nella medesima provincia.

Tale comportamento non ha però convinto i giudici, i quali hanno ritenuto che non potessero essere considerate sufficienti delle mere enunciazioni, senza che vi fosse la prova delle stesse né un riscontro sulla loro fonte. In sintesi l’ufficio avrebbe dovuto dimostrare che le percentuali applicate fossero realmente corrette e comunque attendibili, al fine di poter adeguatamente contrastare i valori dichiarati dalla contribuente.

In proposito anche recentemente la Cassazione (7003 del 21 marzo 2018) ha ribadito che, in tema di presupposti per l’accertamento induttivo, la prova presuntiva può essere fondata anche su un solo elemento, purché fornito degli requisiti di gravità, precisione e concordanza: spetta poi al giudice di merito la valutazione dell’effettiva sussistenza di tali presupposti.

Fonte “Il sole 24 ore”